Comandante, un film di Edoardo De Angelis. Con Pierfrancesco Favino, Massimiliano Rossi, Johan Heldenbergh, Arturo Muselli, Silvia D’Amico. Voto 4 e mezzo
Al cinema da martedì 31 ottobre 2023.
Recensione scritta dopo la proiezione alla Mostra di Venezia 2023.
Che dire di – soprattutto che valutazione dare a – un film che butta via una (vera) storia straordinaria di eroico antieroismo e che, pur azzeccando almeno una sequenza memorabile (la discesa sul fondo del pescatore di coralli Scumo) e altre notevoli (però solo nell’ultima parte quando si entra nel vivo dei fatti) annaspa, naufraga, si inabissa inesorabilmente? Che invece divaga in annotazioni inessenziali ai fini del racconto, con quelle presenze femminili inserite a forza solo per schivare le solite accuse di maschiocentrismo e patriarcalismo? Con quella moglie che si mostra a tette nude con in testa il berretto da comandante del consorte a mimare maldestramente la Charlotte Rampling del Portiere di notte? (a proposito: subito dopo Comandante s’è visto L’ordine del tempo, il nuovo film di Liliana Cavani premiata a Venezia 80 con il Leone alla carriera: riconoscimento consegnatole proprio da Charlotte Rampling, e come si fa a non pensare alle coincidenze apparecchiate dal dio del cinema). Per non dire delle imbarazzanti infermierine anche soccorritrici sessuali dei marinai. Sprofondamenti nel kitsch pervicacemente perseguiti con assoluto sprezzo del ridicolo. Eppure dentro questo film c’è, dovrebbe esserci, una storia fantastica, un frammento misconosciuto e giustamente sottratto all’oblio della nostra WWII a pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia. Siamo nell’ottobre del 1940 (il precedente 10 giugno Mussolini aveva deciso di scendere in campo e purtroppo di far scendere tutto il paese a fianco di Hitler), da La Spezia parte il sommergibile Cappellini – spero di ricordarmi correttamente il nome – sotto la guida del comandante Salvatore Todaro (Favino, chi se no?). La missione è raggiungere l’Atlantico, ma per arrivarci bisogna superare lo stretto di Gibilterra presidiato dal nemico inglese. Nell’oceno il Cappellini arriverà pressoché indenne, ma verrà attaccato da una nave mercantile battente bandiera belga, di un paese neutrale quindi, ma che trasporta aerei per la Gran Bretagna. Nella minibattaglia avrà la meglio il sommergibile della nostra Regia Marina, ed è a questo punto che scatta la straordinarietà dell’impresa. Che non è di meriti bellici, ma che oggi diremmo e allora non si diceva umanitari. Contraddicendo la legge di guerra e ottemperando a quella del mare (tanto spesso invocata da chi contro i vari salvinismi e portochiusismi chiede che i migranti naufraghi vadano soccorsi sempre e comunque), Todaro/Favino accoglie i superstiti della nave belga e cerca di portarli in un approdo sicuro e neutrale (Madeira o Azzorre, m’è parso di capire). Rischiando per indisciplina carriera e anche qualcosa di più.
Questo il nucleo forte di quanto accaduto e che avrebbe dovuto esserlo anche del film. Che invece spreca quasi un’ora prima di entrare nei fatti perdendosi in annotazioni inutili, digressioni improbabili (tutta la parte, terribile, di Todaro con la moglie), in coloriture di costume da commedia all’italiana e napoletana con gran scatenamento visionario-neospressionista di De Angelis. Perché non concentrarsi invece, incalzando a ritmi serratissimi lo spettatore, sul salvataggio dei nemici (per quanto non ufficialmente tali), sugli eventuali conflitti tra loro e l’equipaggio italiano, sulle frizioni e le impreviste affinità e convergenze, sulle differenze antropologiche, sullla quasi impossibile coabitazione in uno spazio chiuso e limitato come quello di un sommergibile? Che gran film ne sarebbe potuto uscire. Non che De Angelis dimentichi tutto questo, semplicemente lo derubrica e lo inserisce in una narrazione più ampia che finisce con il diluire l’essenziale e sottrargli peso specifico. Perché lo abbia fatto, imsieme al co-scebeggiator Sandro Vernesi, si stenta a capirlo. Certo, raccontare con la giusta tensione i fatti, drammatizzarli com ha da essere nel cinema-spettacolo, concentrarsi (come un film americano non dico classico ma anche recente) sulla mano tesa ai naufraghi che poco prima ti hanno attaccato avrebbe significato anche misurarsi con certi nodi ineludibili di quella vicenda. Nodi che hanno a che fare con la Storia (sì, maiuscola), con il nostro passato, con quella stagione politica. Avrebbe significato magari interrogarsi su cose oggi assai scomode tanto da essere state espunte dal discorso nazionale, dala coscienza e dalla memoria collettiva, come l’eroismo e il culto dell’eroe di quegli anni, di quel tempo, il nazionalismo di allora, il patriottismo che di sicuro di quella ciurma del Cappellini era un cemento potente come del resto per la nazione tutta (ricordarsi che alla dichiarazione di entrata in guerra di Mussolini al balcone di Porta Venezia accorse una folla oceanica e plaudente: tutti convinti che, dopo l’avvenuta, inarrestabile marcia dell’alleato tedesco su Parigi il conflitto sarebbe finito di lì a poco e vittoriosamente), il consenso al fascismo (si legga e rilegga Renzo De Felice), l’entusiasmo per la guerra come prova virile, cimento per gli arditi, supremo sacrificio. Qualcosa trapela faticosamentequa e là, qualche timido sventolio di tricolore, un canto di battaglia, ma il resto viene eliso o meglio sfuocato, depotenziato, spinto nell’irrilevanza. Ogni traccia di infatuazione bellico-militarista rimossa. Ma santo cielo, il sommergibile apparteneva alla Regia Marina Italiana, di un Regno che aveva ceduto lo scettro al leader del fascismo, non era in crociera, era in missione di guerra, possibile che di quello sfondo storico così complesso e contrastato in Comandante non emerga quasi niente? E poi, troppa autoindulgenza, troppi cliché, i soliti italiani tanto bravi a cantare (si intona O surdato ‘nnammurato, ricordate?, la cantava anche Anna Magnani ai mutilati della grande guerra nel film tv La sciantosa) e a cucinare cui basta un pentola di gnocchi per conquistare il nemico anzi il mondo intero, altro che fare la guerra, sempre un po’ figli di mamma e però anche audaci quando occorre. Il fascismo? Un fantasma che incombe su tutto il film ma con cui Comandante non fa mai i conti. Capisco che si tratta di tema assai sensibile, ma non basta cavarsela con una delle due battute chiave del film: “Fascisti? No, noi siamo uomini di mare”. Essendo l’altra la ancora più clamorosa e autoindulgente: “Perché ci avete salvato?”, chiede l’ufficiale ei naufraghi, e Todaro/Favino: “Perché siamo italiani” (e quasi scatta in Sala Darsena l’applauso a scena aperta). Rispunta il mito autoassolutorio degli italiani brava gente che per decenni ha permesso a questo paese di non fare i conti con il proprio passato fascista e di guerra. Italiani brava gente? Un’illusione che la storiografia degli anni Duemila ha totalmente disintegrato. Si pensi ai libri che hanno ricostruito le nefandezze della guerra d’Etippia e della successiva occupazione coloniale (sul tema c’è anche un notevole documentario di Luca Guadagnino) o la durezza dell’occupazione militare dela Croazia da parte del nostro esercito. L’uomo buono e giusto Todaro/Favino salvando quei naufraghi salva il proprio onore e la propria anima, non quella della nazione.
Si rimpiange anche che De Angelis – il quale peraltro sa girare benissimo dando spesso prova di virtuosismo tecnico e formale – abbia totalmente rinunciato a ricalcare l’approccio action di tanti film di guerra sul e sotto il mare (penso soprattutto a U-Boot) Il che se indica una benemerita ambizione a emancioparsi da certi codici di rappresentazione, finisce con il conferire al film una sorta di evanescenza, di non-identità. Il regista punta al visionario, evita il piattyo ma pur sempre effucace realismo-naturalismo, cerca di costruire immagini, anzi un intero immaginario acquatico e fantasmatico: il suo imondo sommerso è un universo a parte più parente del meraviglioso di Ventimila leghe sotto i mari che di U-Boot o del senso cosmico-liquido di un Malick. Le scene iniziali della partenza da La Spezia, quegli uomini nella foschia e nel cupo della notte rimandano a Querelle di Fassbinder. Peccato che tutto questi non si sintetizzi mai in uno stile coerente e riconoscibile. Pierfrancesco Favino ormai consacrato massima star del nostro cinema, perfino eretto nelle scene quasi fetish con il corsetto a sex symbol.
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