Berlinale 2023. Recensione: LE GRAND CHARIOT di Philippe Garrel. Giusto il premio per la migliore regia

Le Grand Chariot (The Plough), un film di Philippe Garrel. Con Louis Garrel, Damien Mongin, Esther Garrel, Lena Garrel, Francine Bergé. Concorso. Orso d’argento per la migliore regia. Voto 8 e mezzo
Ma quelle che pssano sullo schermo sono marionette, come tutti hanno scritto (me compreso) dopo la proiezione alla Berlinale, o burattini? Risposta: burattini signori, burattini! Secondo la Treccani digital difatti “il burattino è costituito da una testa, alla quale è congiunta una veste aperta in basso in cui il burattinaio infila la mano, animandolo. (…) Il termine burattino tende a essere usato come sinonimo di marionetta, che è invece a figura intera, azionata per mezzo di fili.” Coloro che vediamo all’opera in Le Grand Chariot – Il grande carro o, forse, Il carrozzone – “infilano la mano” nelle loro creature di legno, carta e stoffa, sono quindi, indubitabilmente, burattinai. Mestiere di nobile tradizione che riemerge in questo nuovo lavoro firmato Philippe Garrel, anni 74, molto affezionato al festival di Berlino (anche il suo precedente Le sel des larmes era stato presentato in concorso qui), detto non senza pigra approssimazione “l’ultimo esponente della Nouvelle Vague”: lavoro che si è giustamente preso il premio per la migliore regia sfiorando l’Orso d’oro. Da sottolineare come pure Nicolas Philibert, il vincitore con Sur l’Adamante,  sia un ultrasettantenne (quota 72) e come il portoghese João Canijo, premio della giuria per l’estenuante Mal Viver, nemmeno lui sia un ragazzetto (anni 66). Il trionfo del boomer della fascia più matura ed è un aspetto della Berlinale 73 che una qualche riflessione la meritebbe (finora non si segnalano mugugni e vibrate proteste e indignazioni da parte dei millennial: stiamo a vedere). Allora: Le grand chariot, forse il miglior Garrel degli ultimi anni per la ricchezza e molteplicità della linee narrative, per come vengono tenute sotto controllo e armonizzate, per la naturalezza con cui si passa dal drammatico vero alla leggerezza quasi rohmeriana.
Il burattinaio padre e ormai patriarca al centro della storia non ha mai abbandonato – siamo dalle parti di Parigi – il mestiere di famiglia e lo sta trasmettendo agli eredi, un giovane uomo e due giovani donne che volentieri, apparentemente senza frizioni o recriminazioni, già lo affiancano nelle messinscene e nella meticolosa preparazione degli spettacoli. Un quadro familiar-professionale senza elementi dissonanti di cui fa parte, amatissima, la nonna, signora che molto ha vissuto e combattuto. Si unirà poi a loro come fondamentale aiuto per la compagnia un giovane pittore-scenografo assai inquieto. Qualcosa sta per succedere, e succederà, rompendo l’equilibrio e segnando la fine di quel piccolo Eden. Ognuno seguirà la propria vocazione, personale e professionale, facendo i conti con l’impossibilità di continuare insieme, mentre il mestiere dei burattini sembra avviato al tramonto anzi condannato (sarà una metafora garrelliana della situazione attuale del cinema?).
Si ha l’impressione che ci sia qualche traccia personale nel film, che Garrel regista abbia immesso qualcosa di sé nella figura del padre burattinaio, nella sua ostinazione nel tenere compatta la famiglia. Un padre padrone però gentile e amorevole, che non può che soccombere all’avanzare dei tempi nuovi. Che Le Grand Chariot sia anche (anche) un’autonarrazione lo suggerisce la presenza come attori dei tre figli del regista, il divo Louis in testa (ma quanti film gira l’anno? e noi in Italia a lamentarci dell’onnipresenza di Favino e Servillo). Altro indizio: il padre di Philippe e nonno di Louis, Maurice, prima di intraprendere la sua carriere di carriera era stato burattinaio. Il risultato è un film che sa di autoanalisi e bilancio esistenziale da cui si irradia un calore non retorico né bassamente sentimentale e che sa trovare toni crepuscolari e malinconici piuttosto lontani dal Philippe Garrel abituale. Con una musica emotiva di fondo che potrebbe fare di Le Grantd Chariot un buon successo di pubblico (sempre che non decida di ritirarsi definitivamente a casa davanti alle piattaforme). E con quanta finezza la storia di famiglia si intreccia alle parabole passionali e alle complicazioni amorose dei quattro giovani co-protagonisti, in una ronde alla Marivaux riadattata senza forzature a questi tempi fluidi e post-patriarcali. Con un personaggio, quello del pittore che si rifiuta al mondo, al successo, anche agli affetti certi, in nome di un’inquietudine, di una lacerazione che è la nota grave, cupa, ma anche l’ancoraggio a terra di un film che altrimenti rischierebe la rarefazione per troppa soavità. Tutti bravi, come dicevano i vecchi recensori. Con citazione doverosa per la nonna di Francine Bergé.

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Berlinale 2023: SUR l’ADAMANT di Nicolas Philibert. Recensione del flm vincitore

Sur l’Adamant, un documentario di Nicolas Philibert. Concorso.
L’Adamant è un bâteau ancorato nelle acque della Senna, a Parigi. Un luogo di accoglienza per pazienti psichiatrici. Nicolas ci è andato con la sua mdp per documentare la sofferenza e la cura, per raccontare la follia e farla parlare. Un film umanista con inaspettati momenti di vera bellezza e incanto. Orso d’oro della Berlinale 73. Voto 7

Venezia ha fatto scuola. Anche qui alla Berlinale come già lo scorso settembre al Lido si è premiato un documentario, e anche qui pochi se lo aspettavano. Poi non mancherà chi giura di avere intuito, capito, detto, predetto, pronosticato, profetizzato. Non credetegli, non è vero. In questi giorni non s’è mai sentito nessuno includere il docu di Nicolas Philibert tra i favoriti. Forse perché si continua a considerare inconsciamente (mi ci metto anch’io) documentari e documentaristi un dominio a sé stante che poco ha a che fare con il vero cinema da festival: qualunque cosa quel vero voglia dire. Ma Philibert questo premio se lo è guadagnato con la sua lunga militanza di cineasta (davvero) indipendente e dal segno assai personale. Un signore di 72 anni da tempo riconosciuto tra coloro che hanno riscritto forme, grammatica e sintassi del cinema del reale, un piccolo maestro spesso ospitato dai festival (a Berlino lo si vide nel 2013 a Panorama Dokumente con un film su un’emittente pubblica francese, La maison de la radio). Un autore amato, cosa rara, sia dai critici sia dal pubblico che decretò nei primi anni Duemila un clamoroso successo a quello che resta il suo film più famoso, Essere e avere: cronaca minuziosa di una scuola monoclasse e del suo valoroso maestro in un villaggio semiabbandonato dell’Auvergne. Il mondo applaudì, si commosse, premiò, e quel film sarebbe diventato un archetipo, la matrice in grado di generare molti altri lavori sullo scolarizzazione complicata, di fondare un vero e proprio genere. Ne ricordo uno a Locarno, credo di produzione svizzera, su bambini del Marocco, dell’India e di altri paesi e il loro quotidiano piccolo eroismo nel raggiungere ogni mattina la scuola superando distanze e ostacoli di vario tipo. Ma anche Mr Bachmann e la sua classe, documentario presentato alla Berlinale 2021 e da lì decollato verso il successo internazionale, molto deve all’Essere e avere di Philibert. Comunque, dopo il verdetto berlinese di ieri sera tutti contenti e zero dissensi (mi allineo anch’io al comune sentire, anche se avrei preferito che l’Orso fosse andato a un cinema più audace e innovativo come Music della Schanelec o Roter Himmel di Petzold).
Ma come si fa a resistere a un film come Sur l’Adamant che con delicatezza si avvicina e documenta la follia oggi?, la follia che persiste accanto a noi anche se ormai ha perso il suo nome per chiamarsi disagio psichico. L’Adamant è un battello ancorato sulla Senna nel centro di Parigi, luogo di accoglienza, recupero e cura per sofferenti mentali. Terapeuti che un tempo si sarebbero detti di scuola basagliana che non comminano solo farmaci ottundenti ma che ricorrono a pratiche multiple, l’autocoscienza di gruppo, la pittura, la musica, la danza intesa come intervento sul corpo e il gesto. Ai boomer sembrerà di tornare agli anni Settanta e ai loro ideologismi, eppure vedendo il documentario di Philibert si direbbe che questa nuova “antipsichiatria” dalla parte del malato funzioni egregiamente. Anche se credo che la terapia più efficace sia la visione umanistica che pervade l’Adamant e il suo progetto, qualcosa – l’umanesimo – di cui nel nostro Occidente si stanno perdendo le tracce. Ogni paziente è visto dai terapeuta (e ripreso dal cineasta Philibert) nella sua irriducibile singolarità. Ecco le facce e i corpi dei malati, con le loro storie a volte straordinarie, pazienti che ci sorprendono con altri sguardi, altri punti di vista sul reale. Il regista li avvicina con pudore e una mai affettata complicità (che differenza dalla macchina a mano prepotente che annulla ogni distanza e si incolla alla pelle dei personaggi di altri film di questa Berlinale). E ci sono momenti, nonostante il soffrire di tanti che veniamo a conoscere, di vero incanto e bellezza. Credo che a nessuno sia dispiaciuto Sur l’Adamant e che i giurati non abbiano faticato a mettersi d’accordo per assegnargli l’Orso. Forse è questa capacità di Philibert a ottenere il consenso di tutti, questa sua levigatezza, questo eliminare ogni attrito tra schermo e platea a essere, non dico il limite del film, ma il punto su cui possono convergere alcuni dubbi e perplessità.

 

 

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Berlinale 2023, vincitori e vinti: l’Orso d’oro a Sur l’Adamant e gli altri premi

Sur l’Adamant

La giuria presieduta da Kristen Stewart e composta da Goldshifteh Farahani, Johnnie To, Radu Jude, Valeska Grisebach, Francine Maisler, Carla Simón ha emesso il suo verdetto. Ed è effetto Venezia: dopo il Leone d’oro assegnato lo scorso settembre al Lido a Tutta la bellezza e il dolore di Laura Potras, anche qui alla Berlinale prevale un documentario. Ma veniamo alla lista dei premiati.

ORSO D’ORO AL MIGLIOR FILM
Sur l’Adamant di Nicolas Philibert

Orso d’argento Gran premio delle giuria
Roter Himmel (Afire) di Christian Petzold

Orso d’argento Premio delle giuria
Mal Viver di João Canijo

Orso d’argento al miglior regista
Philippe Garrel per Le Grand Chariot

Orso d’argento per la miglior interpretazione da protagonista
Sofia Otero in 20.000 Species of Bees

Orso d’argento per la migliore interpretazione da non protagonista
Thea Ehre in Till the End of The Night

Orso d’argento alla migliore sceneggiatura
Angela Schanelec per Music

Orso d’argento per lo speciale contributo artistico
Hélène Louvart per la fotografia di Disco Boy di Giacomo Abbruzzese

Commento: certo, avrei preferito che l’Orso d’oro fosse andatato a Music della Schanelec, un film destabilizzante e sovversivo per la lingua cinematografca adottata, per come fa uso del vuoto, del silenzio, del non detto. Per come ri-racconta e non-racconta una storia archetipica. O avrei preferito che vincesse Christian Petzold, che con Roter Himmel ha dimostrato definitivamente quel che vale, sfiorando il capolavoro con la costruzione di una commedia romantica che continuamente ridiscute la propria forma e nega sé stessa. A loro altri premi: a Petzold il secondo per importanza del palmarès, alla Schanelec quello che ai festival è il classico risarcimento a chi è arrivato sul tavolo della giuria ma ha troppo diviso e non ce l’ha fatta a vincere, ovvero il premio per la migliore sceneggiatura.
Ma anche se Sur l’Adamant di Nicolas Philibert non è il mio Orso personale (poche le sorprese da un autore molto conosciuto e già molto visto, presente in festival precedenti, Berlinale compresa), devo ammettere che il film è all’altezza della fama del suo regista per il suo guardare rispettoso, per come coinvolge senza essere ricattatorio lo spettatore. A una visione d’insieme il palmarès mi sembra abbastanza equilbrato e centrato, meglio di certi scempi cui si è assistito negli ultimi anni a vari festival. Innanzitutto, e non è poco, si è interrotta la nefasta catena del premio obbligatorio al cinema delle donne, sulle donne, intorno alle donne e altri soggetti variamente vittime della cultura patriarcale e/o suprematista occidentale, nefasta catena figlia della cultura cosiddetta woke. Non hanno prevalso i due titoli dati per massimamente favoriti e che delle convenzioni e manierismi del “cinema al femminile” abbondavano, il basco-spagnolo 20.000 specie di api su un bambino che si sente bambina e il messicano Totem, ritratto di una grande famiglia che si stringe intorno a un giovane uomo assai malato. Il secondo titolo è stato ignorato, il primo è entrato in palmarès attraverso il premio per la migliore interpretazione a Sofia Otero, davvero straordinaia nel ruolo del piccolo transgender protagonista. Premio in quota woke, ma che ci può stare: Sofia Otero è in effetti portentosa. Sempre in quota politicamente correttissima rientra l’Orso d’argento (ri-ricordoo, lo faccio ogni volta che vengo qui, che tutti i premi della Berlinale che non siano l’Orso d’oro sono Orso d’argento: che quindi non è il secondo premio) “for best supporting perfomance” alla trans Thea Ehre per il ruolo di femme fatale nel notevole noir anzi krimi tedesco Fino al termine della notte. Anche qui, niente da dire: Ehre è una presenza forte. Diciamo che la giuria in questi tempi intersezionali-woke ha saputi cavarsela brillantemente con questi due premi senza concedere altro.
Ma torniamo a Sur l’Adamant. Philibert (anni 72, documentarista di lunga carriera e solida fama che nel 2002 ottenne anche un travolgente successo di pubblico con Essere e avere su una classe di un villaggio francese) stavolta va a portare la sua macchina da presa su un bâteau, l’Adamant, ancorata nella Senna e adibito a punto di accoglienza, ritrovo e cura dei sofferenti psichiatrici con terapie che non siano solo farmacologiche ma che tengano conto della singolarità di ciascuno, della sua vita, delle sue passioni, dei suoi trascorsi.Con mezzi che sono l’ascolto, sedute di gruppo, il disegno, la pittura, la musica, la danza come ricerca sul corpo e il gesto. Davanti a noi scorrono le facce e i corpi dei malati, con le loro storie a volte straordinarie, pazienti che sanno offrirci altri sguardi, altri punti di vista sul reale e su ciò che nel reale non è così evidente. Una galleria strordinaria di ritratti, di uomini e donne che Philibert avvicina con pudore e una mai affettata complicità (che differenza dalla macchina a mano prepotente che annulla ogni distanza e si incolla alla pelle dei personaggi di altri film di questa Berlinale). E ci sono momenti, nonostante il dolore, di vero incanto e bellezza. Credo che a nessuno sia dispiaciuto Sur l’Adamant. Forse è questa capacità di Philibert a cercare e ottenere il consenso di tutti gli spettatori, questa sua levigatezza, questo eliminare ogni attrito tra schermo e platea a essere, non dico il limite, ma il punto su cui convergono dubbi e perplessità.
Garrel padre ha portato in Berlinale quello che è forse la sua cosa migliore degli ultimi anni (e a colori, non nel suo solito confortevole bianco e nero), una storia di famiglia – ancora! sono infinite le storie di famiglia di questa Berlinale – in cui credo si rifletta qualcosa dello stesso, degli stessi, Garrel. Difatti a interpretare i figli del marionettista al centro della storia sono i tre figli di Philippe Garrel, Louis, Esther e Lena. Le Grand Chariot, che tradurrei come Il carrozzone, è non solo il ritratto affettuoso benché mai sentimentale di un mondo e un mestiere a rischio d’estinzione, è anche, à la Garrel, un intrico di sentimenti e relazioni complicate e ondivaghe. Un film girato con la sapienza di un maestro che viene da lontano. Poteva vincere l’Orso, come Schanelec, come Petzold, e non ci sarebbe stato niente da ridire, anzi molto per esultare.
Gli altri due premi: quello a Mal Viver del portoghese João Canijo è il più discutibile del palmarès. Due ore spossanti. Anche qui una famiglia, tutta al femminile, quel che resta dopo la morte recente del padre, del Padre: la matriarca, le sue due figlie tra i trenta e i quaranta, la prima delle quali donna bellissima divorata da tutte le nevrosi possibili. Con una figlia adolescente implacabile nell’accusarla. E poi, una governante-tuttofare che si occupa di loro e dell’hotel di proprietà della famiglia dove hanno deciso di ritrovarsi tutte per una riunione che si rivelerà fatale. Niente di nuovo: i soliti rinfacci, i soliti impietosi rapporti madre-figlia. Materia su cui il cinema americano e non solo ha sempre dato molto, da Lo specchio della vita a I segreti di Osage County, solo che qui alla mdp abbiamo un portoghese di alta autorialità e quindi inquadrature fisse e piani sequenza, recitazione ieratica, messa in quadro e messa in scena da teatro Kabuki, silenzi, piani visivi e sonori sovrapposti, giochi di ombre e di riflessi. Si arriva distrutti alla fine. Ma il premio non mi infastidisce. Mal Viver non mi è piaciuto, ma vorrei rivederlo con calma, senza la stanchezza e i debiti di sonno da festival. C’è anche un po’ di Italia nella lista: è il premio per la fotografia, strameritato, assegnato a Hélène Louvart per Disco Boy dell’italiano Giacomo Abbruzzese. E però il film più che nostro è di coproduzione internazionali con prevalenza francese.

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Berlinale 2023. Recensione: ROTER HIMMEL (Cielo rosso) di Christian Petzold. Partita a quattro

Roter Himmel (Afire – Cielo rosso), un film di Christian Petzold. Con Paula Beer, Thomas Schubert, Langston Uibel, Enno Trebs, Matthias Brandt. Concorso. Voto 8 e mezzo

Che il cinema tedesco stia attraversando un gran momento lo dimostra la quantità di nomination varie piovuta in questi ultimi mesi su Niente di nuovo su fronte occidentale. Questa Berlinale è la conferma. Dei quattro film made in Germany visti in concorso (non è il caso di scandalizzarsi: fanno altrettanto sia Cannes che Venezia, anzi Cannes se teniamo conto delle molte coproduzioni francesi va ben oltre la quota quattro-cinque), uno è assai interessante (il krimi Fino al termine della notte) e ben due sono eccellenti, i migliori dell’intera sezione competitiva: Music di Angela Schanelec e questo Roter Himmel, Cielo rosso, di un sorprendente Christian Petzold che stavolta si mette in gioco su un terreno da lui poco frequentato, quello della commedia, e della commedia romantica. Si parte come in un Rohmer dei più lievi e conversativi, con due amici che su una scassatissima macchina (che difatti a un certo punto li lascerà a piedi) si dirigono vero la casa sul Baltico della madre di uno dei due. Il primo, Leon, è un ragazzone impacciato di mestiere scrittore, ma ovviamente in crisi creativa, che in quella vacanza spera di ritrovare l’ispirazione perduta. Il secondo, Felix, è il suo esatto opposto (e forse per questo i due, pur baruffando in continuazione, si incastrano bene), brillante, irridente, dedito al superficiale e all’allegria dei piaceri, anche lui però di artistiche ambizioni: è fotografo e deve preparare un book per non ricordo più quale accademia o residenza. Sanno che troveranno nella casa una terza ospite, una ragazza, Nadja, figlia della colf della famigla di Felix. Per un paio di giorni ne vedono le tracce in camera, in cucina, ma non riescono a incontrarla: Nadja sembra evanescente, un miraggio, un’ombra. L’imbranato Leon la intravede da lontano, e tanto gli basta per caderne innamorato (difatti è Paula Beer, impossibile resisterle: se l’avete vista in Frantz di Ozon e Undine di Petzold capirete), Felix invece non sembra vittima, teso al futile com’è, delle pene d’amore. Quando fnalmente si ritrovano tuti e tre scatta l’alchimia, nonostante l’elusività di Nadja, nonostante che la convivenza con quella figura femminile così dirompente sia tutt’altro che semplice. Leon soffrirà ancora di più scoprendo che lei ha una storia con il bagnino superfisicato della spiaggia. E quando anche lui, Devid (con la e, sottolinea, per via delle tedeschizzazioni anni ’50-60 dei nomi americani e inglesi: con Mike che diventatava Maik ecc.), si installa in casa la ronde a quattro si scatena. Amori che si dissolvono, amori nuovi che nascono, amori eternamente delusi e frustrati. E per un po’ sembra di piombare non solo in Rohmer ma pure in Lubitsch o nel Cukor di Scandalo a Filadelfia, tra battute aguzze e disincanti e sentimenti ben dissimulati o clamorosamente dichiarati. Con qualche eco del Sogno shakesperiano, perché in quella casa nel bosco, in quel bosco oscuro e illuminato in lontananza dai bagliori degli incendi, si innescano cambiamenti a catena, scattano desideri e passioni insospettate. Bastano pochi giorni, e nessuno sarà più come prima. La statura di questo film la si capisce quando Petzold non si accontenta di stare nel genere comedy ma lo ridiscute ibridandolo e trasmutandolo in altri generi e registri. Non si può dire oltre. Se non che Roter Himmel rispetto al suo inizio e alla sua parte centrale si rovescia poi in qualcos’altro, che ha  che fare con le vertigini e gli abissi del romanticismo in versione tedesca (a un certo punto si cita e si legge Heine) e con il senso del tragico, anche quello così profondamente tedesco. Petzold mostra la tempra del vero autore costruendo un’opera pluristratificata, dove niente è come sembra, dove la storia, all’inizio lineare, man mano si ramifica generando altre traiettorie. Il miracolo è la naturalezza con cui Roter Himmel continuamente trasmuta sotto ai nostri occhi senza il minimo stridore. Attenzione ai presagi che Petzold dissemina fino dalle prime inquadrature: la paura di Leon lasciato solo nel bosco da Felix, il cielo rosso di fuochi all’orizzonte, i resti di un animale bruciato, un’infiltrazione di acqua in casa (la natura come minaccia?), un malore a un ospite (l’editore di Leon). Basta così. Nel caso arrivasse in Italia, non perdetevelo.

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Berlinale 2023. I FAVORITI all’Orso d’oro (e al premio per la migliore interpretazione).

20.000 specie di api

Alle 18.30 tappeto rosso in diretta stremanig, dalle 19 cerimonia di chiusura e premiazione, di solito piuttosto lunga. Ormai ci siamo, manca poco più di un’ora. I favoriti per l’Orso d’oro sono due su tutti, almeno secondo gli addetti ai lavori presenti: lo spagnolo-basco 20.000 specie di api di Estibaliz Urresola Solaguren e il messicano Totem di Lila Avilés. Non sono i migliori, anzi s’è visto parecchio di più interessante anche in un concorso non brillantissimo come quello che si è chiuso ieri. Ma sono entrambi firmati da registe donne, il che ben predispone, non nascondiamocelo, oltretutto il primo tratta con indubbia finezza e misura il tema spinoso ma anche politicamente corretto e perfettamente in linea col wokismo imperante dei bambini transgender, o meglio, non-cis, che non si identificano con il loro genere biologico. Quale giuria potrebbe mai mostrarsi insensibile? Di sicuro non quella della Berlinale 2023 presieduta da Kristen Stewart. L’altro, Totem, mette in scena come quello di Estibaliz Urresola Solaguren, come il fim che qui ha vinto l’anno scorso, Alcarrás (la cui regista Carla Simon, non dimentichiamolo, è in giuria) un clan familiare di forte, anzi egemonica presenza femminile: non a caso qui la sarabanda di parenti vicini e lontani, l’ennesima (stavolta rumorosissima per bambine particolarmente petulanti), ruota intorno alla figura di un giovane bello e malato come un eroe romantico (mi autocito, vedi recensione di Music: mia sia perdonato). Metafora della crisi irreversibile del maschio e della supremazia femminile?
Da un paio di giorni sono salite molto in fretta le quotazioni del meraviglioso Roter Himmel (Cielo rosso) di Christian Petzold, un regular della Berlinale però mai premiato con l’Orso, e sarebbe anche il momento di riparare, visto che ormai è giustamente assurto al rango di maestro del cinema tedesco. Il suo è il film più bello, insieme al sorprendente e ostico Music di Angela Schanelec. Parte come una commedia con echi rohmeriani e perfino lubitschiani, e con qualcosa pure del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare (per carità, solo qualcosa) – e questa tonalità di commedia mi pare una novità per Petzold – per poi virare sul romanticismo profondo-germanico (non per niente si cita e si legge Heine), con finale che è una fucilata al cuore dello spettatore. Un film iperstratificato, che oscilla tra registri diversi e perfino opposti senza stridere, a confermare di come ormai il regista sappia maneggiare progetti complessi con sicurezza. Qualcuo dà qualche chance a quel capolavoro, così a me almeno è parso, che è il potente Music di Angela Schanelec. Non del tutto fuori dai giochi neppure Philippe Garrel, che ha portato qui forse la sua cosa migliore da parecchi anni in qua, Le Grand Chariot, dove lascia intravedere un qualcosa di autobiografico. Un altro ritratto di famiglia, ma lontano per clima e coloritura da 20.000 specie di api e Totem. Un premio andrà probabilmente, ma non credo sarà l’Orso d’oro, alla rivelazione di questo concorso, Past Lives della coreana-americana Celine Song.
Poi, dopo quanto s’è visto agli ultimi festival – chi mai avrebbe pronosticato la Palma d’oro a Titane o il Leone veneziano a Tutta la bellezza e il dolore di Goldin-Poitras? – tutto può succedere e tutti o quasi possono vincere. Inutile tentare pronostici sugli altri premi: verranno spartiti secondo una logica risarcitoria tra i film entrati nel radar della giuria ma che non ce l’hanno fatta a vincere. Qualche prediction la si può tentare se mai sul premio per la migliore interpretazione (che qui è unico, non più di “genere”: Berlino sul woke è sempre avantissimo). Da quando è stato unicizzato, il riconoscimento non è mai andato ovviamente a un uomo, credo sarà così anche stavolta (tutt’al più potrebbe farcela Simon Baker, protagonista dell’australiano Limbo: il giurato Johnnie To potrebbe sostenerlo). Sarebbe una sorpresa, ma non troppo, se il premio venisse assegnato alla bambina che interpeta la Lucia transgendere di 20.000 api, Sofia Otero, ma potrebbe portarselo a casa anche la bellissima Patricia López Arnaiz, che nel film è la madre. Altri candidat*: la transgender protagonista dell’asai interessante noir tedesco, anzi krimi, Till the End of the Night Thea Ehre (nota: il cinema tedesco è davvero in forte ascesa e il concorso di questa Berlinale lo dimostra). Altri due nomi con buone probabilità di farcela: la diva del cinema euroautoriale Vicky Krieps, che dopo Sissi ha qui incarnato Ingeborg Bachmann nel film di Margarethe Von Trotta. E, ovviamente, la meravigliosa Paula Beer di Roter Himmel. Ma a prevalere, visto che siamo alla Berinale, il festival più woke e sensibile alle minoranze che c’è, potrebbe essere l’attrice di The Survival ok Kindness di Rolf De Heer. Lei si chiama Mwajemi Hussein ed è il lato migliore di un film dimenticabile.

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