Al cinema. COMANDANTE di Edoardo De Angelis (recensione). Italiani veri. O no?

Comandante, un film di Edoardo De Angelis. Con Pierfrancesco Favino, Massimiliano Rossi, Johan Heldenbergh, Arturo Muselli, Silvia D’Amico. Voto 4 e mezzo
Al cinema da martedì 31 ottobre 2023.

Recensione scritta dopo la proiezione alla Mostra di Venezia 2023.
Che dire di – soprattutto che valutazione dare a – un film che butta via una (vera) storia straordinaria di eroico antieroismo e che, pur azzeccando almeno una sequenza memorabile (la discesa sul fondo del pescatore di coralli Scumo) e altre notevoli (però solo nell’ultima parte quando si entra nel vivo dei fatti) annaspa, naufraga, si inabissa inesorabilmente? Che invece divaga in annotazioni inessenziali ai fini del racconto, con quelle presenze femminili inserite a forza solo per schivare le solite accuse di maschiocentrismo e patriarcalismo? Con quella moglie che si mostra a tette nude con in testa il berretto da comandante del consorte a mimare maldestramente la Charlotte Rampling del Portiere di notte? (a proposito: subito dopo Comandante s’è visto L’ordine del tempo, il nuovo film di Liliana Cavani premiata a Venezia 80 con il Leone alla carriera: riconoscimento consegnatole proprio da Charlotte Rampling, e come si fa a non pensare alle coincidenze apparecchiate dal dio del cinema). Per non dire delle imbarazzanti infermierine anche soccorritrici sessuali dei marinai. Sprofondamenti nel kitsch pervicacemente perseguiti con assoluto sprezzo del ridicolo. Eppure dentro questo film c’è, dovrebbe esserci, una storia fantastica, un frammento misconosciuto e giustamente sottratto all’oblio della nostra WWII a pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia. Siamo nell’ottobre del 1940 (il precedente 10 giugno Mussolini aveva deciso di scendere in campo e purtroppo di far scendere tutto il paese a fianco di Hitler), da La Spezia parte il sommergibile Cappellini – spero di ricordarmi correttamente il nome – sotto la guida del comandante Salvatore Todaro (Favino, chi se no?). La missione è raggiungere l’Atlantico, ma per arrivarci bisogna superare lo stretto di Gibilterra presidiato dal nemico inglese. Nell’oceno il Cappellini arriverà pressoché indenne, ma verrà attaccato da una nave mercantile battente bandiera belga, di un paese neutrale quindi, ma che trasporta aerei per la Gran Bretagna. Nella minibattaglia avrà la meglio il sommergibile della nostra Regia Marina, ed è a questo punto che scatta la straordinarietà dell’impresa. Che non è di meriti bellici, ma che oggi diremmo e allora non si diceva umanitari. Contraddicendo la legge di guerra e ottemperando a quella del mare (tanto spesso invocata da chi contro i vari salvinismi e portochiusismi chiede che i migranti naufraghi vadano soccorsi sempre e comunque), Todaro/Favino accoglie i superstiti della nave belga e cerca di portarli in un approdo sicuro e neutrale (Madeira o Azzorre, m’è parso di capire). Rischiando per indisciplina carriera e anche qualcosa di più.
Questo il nucleo forte di quanto accaduto e che avrebbe dovuto esserlo anche del film. Che invece spreca quasi un’ora prima di entrare nei fatti perdendosi in annotazioni inutili, digressioni improbabili (tutta la parte, terribile, di Todaro con la moglie), in coloriture di costume da commedia all’italiana e napoletana con gran scatenamento visionario-neospressionista di De Angelis. Perché non concentrarsi invece, incalzando a ritmi serratissimi lo spettatore, sul salvataggio dei nemici (per quanto non ufficialmente tali), sugli eventuali conflitti tra loro e l’equipaggio italiano, sulle frizioni e le impreviste affinità e convergenze, sulle differenze antropologiche, sullla quasi impossibile coabitazione in uno spazio chiuso e limitato come quello di un sommergibile? Che gran film ne sarebbe potuto uscire. Non che De Angelis dimentichi tutto questo, semplicemente lo derubrica e lo inserisce in una narrazione più ampia che finisce con il diluire l’essenziale e sottrargli peso specifico. Perché lo abbia fatto, imsieme al co-scebeggiator Sandro Vernesi, si stenta a capirlo. Certo, raccontare con la giusta tensione i fatti, drammatizzarli com ha da essere nel cinema-spettacolo, concentrarsi (come un film americano non dico classico ma anche recente) sulla mano tesa ai naufraghi che poco prima ti hanno attaccato avrebbe significato anche misurarsi con certi nodi ineludibili di quella vicenda. Nodi che hanno a che fare con la Storia (sì, maiuscola), con il nostro passato, con quella stagione politica. Avrebbe significato magari interrogarsi su cose oggi assai scomode tanto da essere state espunte dal discorso nazionale, dala coscienza e dalla memoria collettiva, come l’eroismo e il culto dell’eroe di quegli anni, di quel tempo, il nazionalismo di allora, il patriottismo che di sicuro di quella ciurma del Cappellini era un cemento potente come del resto per la nazione tutta (ricordarsi che alla dichiarazione di entrata in guerra di Mussolini al balcone di Porta Venezia accorse una folla oceanica e plaudente: tutti convinti che, dopo l’avvenuta, inarrestabile marcia dell’alleato tedesco su Parigi il conflitto sarebbe finito di lì a poco e vittoriosamente), il consenso al fascismo (si legga e rilegga Renzo De Felice), l’entusiasmo per la guerra come prova virile, cimento per gli arditi, supremo sacrificio. Qualcosa trapela faticosamentequa e là, qualche timido sventolio di tricolore, un canto di battaglia, ma il resto viene eliso o meglio sfuocato, depotenziato, spinto nell’irrilevanza. Ogni traccia di infatuazione bellico-militarista rimossa.  Ma santo cielo, il sommergibile apparteneva alla Regia Marina Italiana, di un Regno che aveva ceduto lo scettro al leader del fascismo, non era in crociera, era in missione di guerra, possibile che di quello sfondo storico così complesso e contrastato in Comandante non emerga quasi niente? E poi, troppa autoindulgenza, troppi cliché, i soliti italiani tanto bravi a cantare (si intona O surdato ‘nnammurato, ricordate?, la cantava anche Anna Magnani ai mutilati della grande guerra nel film tv La sciantosa) e a cucinare cui basta un pentola di gnocchi per conquistare il nemico anzi il mondo intero, altro che fare la guerra, sempre un po’ figli di mamma e però anche audaci quando occorre. Il fascismo? Un fantasma che incombe su tutto il film ma con cui Comandante non fa mai i conti. Capisco che si tratta di tema assai sensibile, ma non basta cavarsela con una delle due battute chiave del film: “Fascisti? No, noi siamo uomini di mare”. Essendo l’altra la ancora più clamorosa e autoindulgente: “Perché ci avete salvato?”, chiede l’ufficiale ei naufraghi, e Todaro/Favino: “Perché siamo italiani” (e quasi scatta in Sala Darsena l’applauso a scena aperta). Rispunta il mito autoassolutorio degli italiani brava gente che per decenni ha permesso a questo paese di non fare i conti con il proprio passato fascista e di guerra. Italiani brava gente? Un’illusione che la storiografia degli anni Duemila ha totalmente disintegrato. Si pensi ai libri che hanno ricostruito le nefandezze della guerra d’Etippia e della successiva occupazione coloniale (sul tema c’è anche un notevole documentario di Luca Guadagnino) o la durezza dell’occupazione militare dela Croazia da parte del nostro esercito. L’uomo buono e giusto Todaro/Favino salvando quei naufraghi salva il proprio onore e la propria anima, non quella della nazione.
Si rimpiange anche che De Angelis – il quale peraltro sa girare benissimo dando spesso prova di virtuosismo tecnico e formale – abbia totalmente rinunciato a ricalcare l’approccio action di tanti film di guerra sul e sotto il mare (penso soprattutto a U-Boot) Il che se indica una benemerita ambizione a emancioparsi da certi codici di rappresentazione, finisce con il conferire al film una sorta di evanescenza, di non-identità. Il regista punta al visionario, evita il piattyo ma pur sempre effucace realismo-naturalismo, cerca di costruire immagini, anzi un intero immaginario acquatico e fantasmatico: il suo imondo sommerso è un universo a parte più parente del meraviglioso di Ventimila leghe sotto i mari che di U-Boot o del senso cosmico-liquido di un Malick. Le scene iniziali della partenza da La Spezia, quegli uomini nella foschia e nel cupo della notte rimandano a Querelle di Fassbinder. Peccato che tutto questi non si sintetizzi mai in uno stile coerente e riconoscibile. Pierfrancesco Favino ormai consacrato massima star del nostro cinema, perfino eretto nelle scene quasi fetish con il corsetto a sex symbol.

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Al cinema e poi su Netflix: THE KILLER di David Fincher (recensione). Sicario, evoluzione della specie

The Killer, un film di David Fincher. Con Michael Fassbender, Tilda Swinton, Charles Parnell, Arliss Howard, Kerry O’Malley, Sophie Charlotte, Sala Baker, Emiliano Pernía, Gabriel Polanco. Voto 7 e mezzo
Dal 26 ottobre in sala a Torino, Milano, Bologna, Roma. Dal 10 novembre su Netflix.

Recensione scritta dopo la proiezione (in concorso) alla Mostra del cinema di Venezia.
Non sono un fincheriano devoto, di quelli che considerano The Network e Fight Club capolavori imprescindibili, ma questo The Killer mi è molto piaciuto, un’opera da collocare tra le sue cose migliori. Eppure tutto è, apparentemente, déjà vu. Cosa di più visto e sdato della figura del killer? Solo che stavolta e più che mai (e il modello lontano ma sempre presente resta il meraviglioso Le Samouraï di Melville) ci si concentra sulla figura di chi uccide a pagamento, se ne fa il focus narrativo e non un elemento collaterale in funzione di altro, di un complotto, di un intrico poliziesco, di un’avventura. Con impercettibili interventi, Fincher lavora sulla sagoma canonica del sicario fino a modificarla radicalmente – ad esempio attraverso il rallentamento e la frantumazione corpuscolare dell’azione – e a far compiere a The Killer un salto evolutivo nel genere. Perché l’uomo che vediamo appostarsi di fronte a un grande albergo parigino per colpire il bersaglio che gli è stato indicato dal committente, non ha più consistenza umana, non è come in altri film (apparentemente) analoghi una figura romanticizzata, circonfusa dall’aura dell’eroe solitario e maudit, è semplicemene e soltanto una macchina per uccidere. Atona, svuotata di ogni fremito umano. Con un Fassbender monumentale (gli daranno la Coppa Volpi come migliore attore? sarà nominato all’Oscar?) mai così bravo, essenziale, affilato, interiorizzato, impenetrabile non tanto a nascondere-mascherare impulsi e tormenti psicologici, piuttosto perché senza profondità, totalmente privo di ogni riflesso emozionale, di ogni increspatura e dubbio. Lo si vede ammazzare un innocente giovanissimo taxista, un atto che fa sussultare la platea dei pur scafati giornalisti per la sua gelida ferocia. Melville e gli altri signori del polar francese come José Giovanni o Jacques Deray non l’avrebbero mai girata una scena simile. Ma il sicaro di David Fincher riflette, e sta qui la sua carica perturbante, l’orrore di questo nostro tempo, l’elisione dalla nostra vita e dai nostri orizzonti di ogni scrupolo e sussulto etico. Questo spietato killer c’est nous, siamo noi messi davanti allo specchio, ed è quello che traghetta il fim di Fincher (prodotto da Netflix) dall’area del cinema di mestiere a quella del cinema che si e ci interroga sul mondo. Una diffferenza ribadita nell’azzeramento di ogni climax, nel mostrare il sicario al lavoro nella fasi della preparazione e del dopo, in quello che di solito nell’action è il fuoricampo e l’aborrito anticlimax. Ecco il protagonista all’opera, meticoloso, paziente, osservato dalla mdp di Fincher come la casalinga di Jeanne Dielmann da quella di Chantal Akerman (il paragone non è mio, lo ha tracciato un critico anglofono di cui ahimè non ricordo il nome, ed è l’osservazione più acuta che abbia letto su The Killer). L’essenziale è in ciò che sta a lato e fuori quadro, nella noia del lavoro di sicario e non nell’esplosione drammaturgica, nel turgore dell’inseguire, dell’uccidere, della fuga. Tale è The Killer almeno nella sua prima e bellissima parte. Poi, quando imbocca la pista della vendetta, la sua diversità si diluisce fino a svanire nella riproposizione dei cliché del genere (il punto di svolta, lo spartiacque, è la scena, meravigliosamente scritta, con Tilda Swinton dove Fincher ti fa respirare il terrore e insieme la rassegnazione di chi sa di essere in procinto di morire). Altro limite che impedisce a The Killer di elevarsi a film assoluto per restare solo un bellissimo film, è l’uso insistente e onnipervasivo del voice over che ripete ossessivamente la filosofia di spicciolo nichilismo adottata dal protagonista (“abolisci ogni forma di empatia” ecc.).

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Al cinema. LA MOGLIE DI TCHAIKOVSKY di Kirill Serebrennikov (recensione). Antonina Ivanovna, pazza d’amore

La moglie di Tchaikovsky (Tchaikovsky’s Wife; titolo originale Zhena Chaikovskogo), un film di Kirill Serebrennikov. Con Odin Lund Biron, Alyona Mikhailova, Ekaterina Ermishina, Elenev Nikita.
Recensione scritta a Cannes 2022, dove il film era stato presentato in concorso. La moglie di Tchaikovsky è uscito nelle sale italiane il 5 ottobre 2023.
Divisivo, come sempre i film del russo dissidente Kirill Serebrennikov (il regime lo ha condannato per presunte malversazioni, adesso vive in esilio in Germania). Che stavolta applica la sua volontà di potenza e la sua idea di un cinema surriscaldato alla storia disgraziata della moglie di copertura dell’omosessuale Tchaikovsky. Matrimonio tragico: lui depresso, lei pazza d’amore e disperata. Sontuosa messinscena e un’estetica camp assai goduriosa. Per fortuna, non il solito film in costume bon ton, anzi un film screanzato ma sempre bellissimo da guardare. Vista la situazione geopolitica in corso, un premio, magari la palma, a un russo non putiniano sarebbe motivo di gloria per Cannes. O no? Voto 7 mezzo

Al momento, il migliore (insieme al sorprendente Boy from Heaven dello svedese-egiziano Tarik Saleh) di un concorso non travolgente. Il film con le maggiori chance di finire nel palmarès. Ottime possibilita per la sua protagonista Alyona Mikhailova di vincere come migliore attrice, ma qualche possibilità anche di riuscire nel colpo grosso, vincere la palme di tutte le palme. Kirill Serebrennikov è ormai, dopo svariati  festival, un autore cui manca solo la consacrazione definitiva, e potrebbe essere adesso. Questo se ho fatto bene i conti è il suo quinto film che mi capita di vedere, il primo, Izmena, fu a un lontano Venezia, era il 2012, un thriller assai concettuale tra Hitchcock e Antonioni che fu piallato via da publico e stampa. Poi l’ha adottato Cannes, collovandolo prima a Un Certain Regard (con Lo studente), poi ben tre volte (con Leto, Petrov’s Flu e questo) nella Compétition. Opere sempre diverse per genere e contenuti – Serebrennikov resta regista ancora enigmatico e imdecifrabile -, tutt’al più accomunate da una tensione verso il barocco, il sovreccitato, il surriscaldato (mentre Izmena era ipercontrollato e glaciale). La moglie di Chaikovski è forse la sua riuscita migliore, un film dove la sua incontinenza, la sua volontà di potenza e prepotenza stilistica trovano un perimetro narrativo forte in cui confluire senza esondare: la Storia, anzi un pezzo della storia russa del secondo Ottocento. E  personaggi pubblici e famosi con biografie da cui non ci si può troppo discostare, da reinterpretare con libertà magari, ma non tradire del tutto. Vincoli che funzionano, a dare un ordine e una certa linearità al caos rutilante di Serebrennikov. Qualcuno ricorderà uno dei capolavori ormai rimossi e dimenticati di Ken Russell, L’altra faccia dell’amore (in originale The Music Lovers), biopic furioso su passioni, creazioni e morte di Chaikovsky, sulla sua omosessualità nascosta agli occhi del mondo e mai compiutamente accettata da lui, sul matrimonio con Antonina Ivanovna Miljukova destinato all’infelicità di entrambi (lui era Richard Chamberlain già dottor Kildare, lei Glenda Jackson). La loro relazione in Serebrennikov è raccontata dal punto di vista di lei, una ragazza di buona famiglia sulla via del downgrading sociale che si innamora con inspiegabile accanimento del compositore già famoso. Un amour fou di totale insensatezza, come ne abbiamo visti nella vita e al cinema. Adele H. di Truffaut, avete in mente? Ecco, l’Antonina che si infatua di Piotr è una signorina probabilmente intossicata da troppi miti romantici e già scollata di suo dalla realtà. Se mai ci si chiede perché Piotr Chaikovsky accetti di sposarla: certo, per la dote che lei assicura di potergli portare (non sarà così), per salvare la propria rispettabilità visto che tra Mosca e San Pietroburgo molto delle sue storie omosessuali era trapelato. Nozze mai consumate, ovvio. Intanto lui sempre più depresso, lei precipitata nella sindrome dell’io ti salverò. Finché Piotr scappa, per occuparsi solo della sua musica (e dei suoi amanti). Chiederà il divorzio, Antonina non glielo concederà mai: “sono sua moglie davanti a Dio e lo sarò per sempre”. Da un disastro all’altro, sempre più giù nel degrado. Tre figli con il suo avvocato, “ma io amo e amerò solo Piotr, tu per me non se nessuno”, tutti mandati in orfanotrofio, due femmine e un maschio chiamato naturalmene  Piotr. Una storiaccia che se non fosse vera non la si prenderebbe sul serio e invece. Il bello e il buono è che Serebrennikov, scatenato com’è, creatore compulsivo di camp e kitsch cui per nostra fortuna non pone alcun freno, disgrega le buone maniere del film in costume per signora optando per la cifra del parossismo, portando cose e personaggi al punto di incandescenza e di fusione. In un cinema che asseconda nei movimenti sussultori e ondulatori e sempre convulsi della mdp (con, ovvio, i soliti long take con macchina a mano o spalla a stalkerizzare i personaggi preferibilmente lungo corridoio di palazzi più o meno delabré) i tormenti interiori. Ogni progressione verso il precipizio si traduce in ulteriori accelerazioni della mdp, che traballa, danza, vortica, ruota, avvolge. Messinscena sontuosa, un riempitevi-gli-occhi che resta nel suo fondo teatrale (il 52enne Serebrennikov da lì viene e lì è rimasto, come peraltro Luchino Visconti, come Fassbinder). Teatro e melodramma in chiave profondo-russa anzi chaikovskiana, dunque languori furori patetismi e lussureggianti flussi di (in)coscienza. Estetica gay (si potrà dire, al posto di camp? sarà stigmatizzante?) a profusione, e anche qui vien da dire: per fortuna. Maschi in serie messi a nudo e full frontal, danzanti o immobilizzati in plastici tableaux vjvants e magari anche cadaveri, ma sempre cadaveri belli, scultorei e squisitissimi. Vertici di cattivo-buongusto che hanno indignato le anime belle della cinefilia in platea, i custodi dell’ortodossia veteroautoriale, come la scena con i quattro (o sono sei?) maschi completamente nudi tra cui Antonina dovrà scegliere colui con il quale dimenticare Piotr. Con lei che osserva, tocca, palpeggia. Finisce, la storia di non amore da parte di lui e di amour fou da parte di lei, nei modi che già aveva raccontato Ken Russell, ma che ormai non si possono più dire per via degli allarmi antispoiler. Finisce in una Pietrogrado del 1917 già in preda alla rivoluzione. Tra i meriti di Serebrennikov quello di scansare le lagnosità e la retorica di tanto cinema al femminile sul femminile. La sua Antonina è sì una vittima del patriarcato, ma è soprattutta un personaggio tragico e insieme patetico travolto dai propri sogni impossibili. Quanto alle chance di La moglie di Chaikovsky di arrivare alla palma: molto dipenderà dagli equilibri geopolitici in giuria e dalle questioni geopolitiche fuori dal Palais, lontane ma sempre presenti, intendo la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina. Serebrennikov è russo ma dissidente, è stato condannato – i suoi sostenitori dicono, a ragione, perseguitato – da una magistratura certo non indipendente dal regime per presunte irregolarità amministrative nella gestione del Teatro Gogol di Mosca. Incarcerato e poi rilasciato. Da quando ha ottenuto di poter lasciare la Russia – prima gli era interdetto – ha raggiunto la Germania, dove pare si sia ormai stabilito. Ecco, la palma a un expat russo dissidente sarebbe perfetta in questo momento. Ma se le circostanze storiche possono aiutare Serebennikov, ci sono un paio di dettagli per niente secondari che potrebbero eliminarlo dalla corsa. Non lo aiuterà che si sia dichiarato contro il boicottaggio dei film e degli autori russi applicato anche a Cannes. E che a finanziargli questo e il precedente film, Petrov’s Flu, sia stato Roman Abramovich, oligarca non certo distante dallo Zar Putin. La partita in giuria si annuncia molto interessante. Intanto Serebrenniko annuncia l suo prossimo, ghiottissimo prpgetto: un film sul nazional-comunista e molto altro (fasciocomunista?) Limonov, già raccontato in un gran libro da Emmanuel Carrère.

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Al cinema. ANATOMIA DI UNA CADUTA di Justine Triet (recensione). Palma d’oro meritata, film imperdibile

Anatomia di una caduta (Anatomie d’une chute) di Justine Triet. Con Sandra Hüller, Swann Arlaud, Mio Machado Graner, Antoine Reinartz, Samuel Theis, Camille Rutherford. Vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes 2023. Al cinema dal 26 ottobre 2023. Voto 8
Recensione scritta lo scorso maggio al festival di Cannes.
Ha vinto Anatomie d’une chute. Palma meritata? Ma sì, anche se avrei preferito fosse andata al Jonathan Glazer dell’irrisolto, ma ipnotico, potente The Zone of Interest o al gran turco Nuri Bilge Ceylan dell’intimo quanto monumentale Le erbe secche. O ancora, all’eterno loser – il che ne accresce l’aura di mai riconciliato – Aki Kaurismaki con Le foglie morte (erbe secche e foglie morte, che strane coincidenze di nature al crepuscolo in questo Cannes).
Triet era data a fine festival per favorita a parità di quote con Glazer, sicché la sua vittoria è stata una sorpresa soltanto per certi nostri provincialissimi critici con sguardo fisso sulla presunta, assai presunta, invincibile armada italica Bellocchio-Moretti-Rohrwacher e restii – incapaci? – ad allargare il proprio angolo di visione. Non proprio una sconosciuta, Justine Triet, con alle spalle film assai visti e discussi in patria (e pressoché non pervenuti da noi e, se pervenuti, tutt’al più in qualche sala per un paio di giorni o tre) come La battaglia di Solferino (che a suo tempo detestai), Victoria e Sybil (che invece parecchio mi piacquero), quest’ultimo passato in concorso a Cannes 2019 nell’indifferenza di gran parte degli italiani presenti, e scusate se mi ripeto sulla nostra nazionale di recensori in trasferta Croisette.
Siamo con Anatomia di una caduta (bel titolo, memore certo di Anatomia di un omicidio, il classico di Otto Preminger) nel genere del courtroom drama: tutti in tribunale, colpevoli, innocenti, accusatori, difensori, testimoni, pubblico diviso e rumoreggiante a tifare chi per gli uni chi per gli altri, tra rovesciamenti, colpi di scena, oscillazioni brusche tra certezze e dubbi, verità e menzogne, secondo i codici ferrei di un’infinità di film processuali della nostra vita, da La parola ai giurati di Lumet a Testimone d’accusa di Wilder all’hitchcockiano Il caso Paradine (che di Anatomia di una caduta mi pare il riferimento non dichiarato, viste le molte affinità di plot; e però si pensa  anche al semidimenticato Fatti di gente perbene di Mauro Bolognini: puree lì un’imputata e un misterioso, presunto delitto in famiglia). Genere che ultimamente ai festival è in forte recupero, si veda Venezia 2022 con Saint-Omer di Alice Diop e adesso Cannes con questo Triet in compétition e, alla Quinzaine, il bellissimo (se arriva in Italia non perdetevelo) Le procès Goldman di Cédric Kahn, e stiamo a vedere se sia solo un caso o, come si diceva un tempo, una tendenza (già, ma rivelatrice di che cosa?).
Un congegno, il cineracconto processuale, rimesso a nuovo per inoltrarsi nei chiaroscuri del presente, soprattutto la condizione femminile e la sua percezione-sedimentazione nel conscio e inconscio collettivi. E una donna è qui sul banco degli imputati, scrutata, esaminata senza tregua dalla macchina da presa, dagli sguardi del pubblico in aula e da quelli di noi spettatori in sala. L’abilità di Justine Triet sta, oltre che nella confezione ineccepibile e senza smagliature, davvero di alto artigianato (in una perfezione da cinema classico che ne fa un oggetto anche fin troppo chiuso, roccioso, imperforabile), nel riuso concettuale del genere del courtroom drama, piegandolo senza apparenti forzature a un’analisi-radiografia-vivisezione-anatomia della (in)consistenza dell’amore oggi, dei tormenti e della forse definitiva impossibilità delle relazioni uomo-donna, soprattutto all’interno dei vincoli coniugali. Il thriller da aula giudiziaria si congiunge senza proclamarlo ad alta voce – e quindi ancora più efficacemente – a un altro genere di matrice più autorialistica, quello che possiamo bergmanianamente dire “scene da un matrimonio”. Genere anche questo che negli ultimi anni ha ripreso vitalità, si pensi a Marriage Story di Noah Baumbach.
A Triet regista e co-sceneggiatrice riesce di mettere a punto un notevole ritratto femminile, di una densità psicologica, di una complessità e ambiguità sconosciute al cinema di puro genere, e nello stesso tempo di farne la materia di un prodotto (sia detto nella migliore accezione) di solido intrattenimento che trascina chi guarda nell’altalena del dubbio tra colpa e innocenza.
Siamo sulle montagne intorno a Grenoble, in uno chalet immerso nella neve e nei boschi dove vivono Sandra, il marito Samuel, il loro figlio di undici anni Daniel e il cane di famiglia (che avrà un ruolo centrale nello scioglimento del mistero). Samuel muore cadendo dall’alto della casa. Qualcuno l’ha spinto? O si tratta di suicidio? Un possibile omicidio, una casa isolata, la neve, una tragedia familiare, e si pensa, almeno noi italiani, subito a Cogne e al caso che sappiamo. Sandra è la prima anzi la sola sospettata. Chi altri se non lei può avere ammazzato il marito? Che tra i due fosse ormai crisi conclamata emerge dalle indagini e poi nel corso del processo. Sandra, di origine tedesca, per amore di Samuel ha rinunciato al suo lavoro e alla sua vita per trasferirsi a Grenoble, ma questo atto oblativo, di riuncia a sé per l’altro, non ha contribuiti alla riuscita del matrimonio, anzi ha finito col minarlo. Samuel, insegnante per ripiego e scrittore frustrato e mancato, invidia il successo ottenuto dai libri di Sandra, che a sua volta si sente prigioniera di quella casa e di quella vita che le ostacola la carriera. Una storia avvelenata, tossica. Triet, senza troppo forzare in proclami dalla-parte-delle-donne e facili metooismi, suggerisce come l’asimmetria nel successo sociale tra lui e lei, soprattutto quando a essere riconosciuta è lei e il penalizzato è lui, sia una delle dannazioni di coppia della nostra contemporaneità, mostrando attraverso il dispositivo del thriller come la rivalità, la lotta darwiniana per sopravvivere e emergere nel mondo sia penetrata all’interno della coppia e l’abbia devastata. Il resto è una sceneggiatura di precisione ingegneristica, dove anche l’immancabile colpo di scena è, oltre che inaspettato, pure verosimile, il che non accade spesso nemmeno nei migliori gialli (si potrà ancora dire: gialli?). Applausi e Palma. Peccato che il regolamento del festival impedisca di dare più di un premio a un film, sicché Sandra Hüller (la ricordate in Toni Erdmann?, film detestabile però lei magnifica), pur avendo messo a segno una delle interpretazioni dell’anno, non ha potuto vincere come migliore attrice. Doppiamente beffata, perché anche l’altro film di cui è stata protagonista a Cannes 2023, The Zone of Interest, ha ottenuto il Grand Prix escludendola ancora una volta dai giochi. Ma nei prossimi mesi di premi ne riceverà molti e dappertutto e stiamo a vedere se riuscirà a inserirsi anche nella award season americana di Oscar e Golden Globe (quanto agli europei Efa, non si vede chi possa a oggi contrastarla). Sarà il caso di citare anche Arthur Harari, che con Justine Triet ha scritto-sceneggiato Anatomia di una caduta. Un talento multiforme del nuovo cinema francese. Non solo sceneggiatore, anche regista: di lui si era visto due anni fa a Cannes, a Un certain regard, il bellissimo Onoda  sull’ultimo giapponese combattente della WWII (purtroppo uscito dal festival senza premi). E a questo giro lo si è visto pure come attore in Le procès Goldman, alla Quinzaine des Cinéastes: era il difensore dello scomodo, ostinatissimo imputato. Teniamolo d’occhio, potrebbe darci parecchio di interessante nel prossimo futuro.
UPDATE del 24 ottobre 2023: ho intanto scoperto che Athur Harari è, oltre che collaboratore di Justine Triet, il suo compagno di vita. Ho ritoccato il voto. da 7 e mezzo a 8. Aggiungo che nella lunga serie di film di autrici premiati negli ultimi anni nei massimi festival, suscitando sempre un qualche sospetto di metooismo e eccessiva benevolenza da parte delle giurie (Titane di Julia Ducournaua Cannes 2021, L’Evénement di Audrey Diwan a Venezia 2021, Alcarras di Carla Simon alla Berlinale 2022,  All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras a Venezia 2022), questo è di gran lunga i lmigliore e l’unico indiscutibile.

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Cannes 2023. THE ZONE OF INTEREST di Jonathan Glazer (recensione)

The Zone of Interest (La zona di interesse) di Jonathan Glazer. Con Sandra Hüller, Christian Friedel. Concorso. Voto 7 e mezzo
Update:
con il titolo La zona di interesse saà nei cinema italiani dal 18 gennaio 2024 distribuito da I Wonder.
Si temeva lo scandalo indignatissimo, di quelli che infiammano ogni tanto i festival. Per l’essere, The Zone of Interest, un film sull’Olocausto ma visto dalla parte dei carnefici, dei diligenti e inflessibili esecutori del Male. Cronaca assai minimal dei giorni del comandante di Auschwitz-Birkenau, Rudolf Höss, SS tendenza più organizzativo-burocratica che strettamente militare, e della sua famiglia: la moglie Hedwig, arianamente bionda e impeccabile, venuta dal popolo e adesso riconosciuta signora d’alto rango e i figli altrettanto biondi e occhioazzurrati (e qui un dubbio: non è che il pur talentuoso Jonathan Glazer esageri con gli stereotipi?). Lui, Rudolf, sempre assai indaffarato a ispezionare, interrogare sottoposti, tenere i rapporti con i gerarchi più alti in grado del Terzo Reich, ricevere team di tecnici che gli sottopongono nuovi progetti per migliorare la produttività delle camere a gas. Anche perché sta per diventare esecutivo (siamo nel 1944) il trasporto di centinaia di migliaia ebrei ungheresi, prima dalle città e villaggi minori poi da Budapest, verso i campi di sterminio, e Auschwitz-Birkenau deve essere al massimo della sua efficienza.
Ecco, ci si aspettavano le polemiche che avevano accompagnato alla sua uscita il libro omonimo di Martin Amis cui si è ispirato Jonathan Glazer (ricordate? Suo quell’Under the Skin fischiatissimo una decina di anni a Venezia e oggi venerato come un classico, magari dagli stessi fischiatori pentiti). Vale a dire: è lecito raccontare la Shoah dalla parte del, dei, boia, e la loro autopercepita normalità? Non si rischia di giustificare, minimizzare, relativizzare il Male? Non è un insulto alle vittime adottare il punto di vista degli assassini? Questioni assai intricate che hanno impedito a Martin Amis di pubblicare il suo romanzo in alcuni paesi (Amis è scomparso pochi giorni fa, all’indomani della prima mondiale del film qui a Cannes).
Ma Jonathan Glazer evita abilmente lo scandalo, tenendosi alla larga da ogni sospetto di exploitation, di sfruttamento indebito della materia. Innanzitutto raggelando la messinscena in quadri in cui i personaggi, perlopiù in campo medio e lungo, sono sottoposti a a un processo di desoggettivizzazione, di assimilazione al paesaggio, di reificazione che blocca ogni rischio di contaminazione emotivo-empatica per lo spettatore. Visivamente magnifico, di accecante perfezione formale, se mai La zona di interesse sfiora pericolosamentel’estetizzazione dell’abietto e una sua sinistra, lugubre, funerea, ma non per questo meno seducente, bellezza. Sempre che sia ammissibile il ricorso a una simile categoria etica-estetica per una storia infame che si situa appena “al di qua” del muro, anzi del filo spinato e elettrificato, che circonda Auschwitz-Birkenau. Il campo degli orrori e della sopraffazione è là, a pochi metri, ma è rigorosamente tenuto fuori campo, solo la ciminiera è visibile sullo sfondo. Glazer ricorre all’evocazione, all’allusione, a un cumulo di segni attraverso i quali ciò che non è mostrato apertamente entra nella nostra zona percettiva. In questo, The Zone of Interest ricorda (anche) certi film su una realtà separata, su una bolla in cui tutto e tutti appaiono perfetti, obbligati alla perfezione, ma che noi sappiamo o oscuramente percepiamo sospesi sull’abisso. La fabbrica delle mogli, The Truman Show, il recente – visto lo scorso anno a Venezia – Don’t Worry Darling: teatri artificiali in cui si recita una normalità impossibile e bugiarda. La moglie di Höss sembra davvero una delle donne robotiche della Fabbrica delle mogli. Inamidata, rigida, algida nel suo adeguarsi senza riserve all’immagine dell’ariana moglie e madre feticizzata dal Terzo Reich. Ma dal suo giardino con piscina si intravede il camino del campo, si sentono le urla dei prigionieri, i latrati dei cani e degli aguzzini. Solo attenuati da quella barriera che separa il mondo di Hedwig dall’inferno. Sopra, il cielo plumbeo, con qelle nubi pesanti uscite dalle ciminiere. Hedwig ama quella casa che considera profondamente sua, ideale per viverci e allevare i figli, e quando al marito impongono un trasferimento-promozione a Oranienburg si rifiuta di seguirlo, vuole restare in quel suo personale paradiso, e riuscià a vincere. Il trasferimento rientra, Rudolf resterà il capo di Auschwitz, l’Eden di Hedwig è salvo.
Ma l’orrore filtra. Le amiche raccontano di pellicce e vestiti sottratti alle prigioniere ebree, di un diamante trovato in un dentifricio dove era stato nascosto una deportata. I soliti ebrei furbastri, commenta la tizia. Mai un fremito di pietà, mai un dubbio. Dal campo arriva anche l’amante-oggetto sessuale di Höss. Cinema della crudeltà e dell’impassibilità alla Haneke, difatti il protagonista viene dal Nastro bianco, e però Jonathan Glazer non è (ancora) all’altezza del maestro, non ne replica sempre la somma abilità nell’importare nel quotodiano la minaccia, il senso inesorabile della fine, l’odore dell’orrore. Grande metteur en scène, Glazer, nel suo encomiabile sforzo di evitare la rappresentazione dell’irrapresentabile, rischia di far evaporare il senso del Male, di depotenziarlo. E alcune scelte sono difficili da capire, come l’inserimento di una parte semianimata in grigio e nero con una ragazza – un vicina? una proiezione dei fantasmi inconsci di casa Höss? una loro ospite? una sonnambula come qualcuno ha scritto? – che di notte si aggira ai bordi del campo e forse raccoglie messaggi, indizi lanciati da chi sta all’inferno. Per spiegare la catatonia psichica e morale della famiglia Höss si è ricorsi, quasi in automatico e più da parte dei critici e spettatori che degli autori del film, a quella “banalità del male” concettualizzata e messa a punto da Hannah Arendt nel suo testo sul processo Eichmann a Gerusalemme. Servendosene però – ho l’impressione – come di un passepartout di pronto uso, banalizzandola se così si può dire anziche utilizzarla, come in Arendt, quale scandaglio dei sottosuoli dell’umano e provocazione intellettuale. Della Zona di interesse si dovrà riparlare al di fuori della bolga del festival. Intanto gran prova di Sandra Hüller lanciata qualche anno fa proprio a Cannes da Toni Erdmann e quest’anno in concorso, oltre che con The Zone of Interest, anche con Anatomia di una caduta di Justine Triet. A oggi la più indiziata per il premio alla migliore attrice.

 

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11 FILM stasera in tv – lun. 6 nov. 2023

Tutti gli uomini del presidente

Cliccare per la recensione.

Le chiavi del paradiso di John Stahl, Tv 2000, ore 20:57.
Un boss in salotto di Luca Miniero con Paola Cortellesi, Cine34, ore 21:07.
Bravados di Henry King, Rai Movie, ore 21:10.
Western dei tardi anni Settanta (il primo dei tre in onda stasera suRai Movie) diretto da un regista da studios come Henry King, quindi poliedrico, professionale, impeccabile, che già risente della crisi del genere, del suo interrogarsi e riflettere su sé stesso, riluttante agli schematisimi e all’opposizione binaria bene-male. Antieroico. Con un uomo deciso a stanare e uccidere i quattro assassini della moglie. Farà giustizia o crederà di averla fatta, per scoprire amaramente di avere sbagliato bersaglio. Secondo il suo protagonista, Gregory Peck, Bravados era, nei modi del western, una parabola sulla paranoia anticomunista del maccartismo.
Rocky II di Sylvester Stallone, Iris, ore 21:12.
Limitless di Neil Burger, canale 20, ore 21:14.
Interceptor di George Miller, Warner tv (canale 37 dt), ore 21:30.
Soldati a cavallo di John Ford, Rai Movie, ore 23:00.
John Ford, anno 1959, alle prese con un episodio della Guerra di Secessione. Un gruppo di soldati nordisti, quindi della “parte giusta”, viene mandato oltre le linee per sabotare un fondamentale snodo ferroviario confederato. Saranno scontri e massacri. Non molto trasmesso dalle tv, quindi, per i fordiani di stretta osservaza, occasione da non perdere. Un Ford dai toni antibellicistici e se mai attratto, come sempre, ,attratto dalle sane scazzottate tra maschi. Con John Wayne e William Holden, e già questo giustifica la visione.
Il sorpasso di Dino Risi, Cine34, ore 23:19. Preceduto, alle 23:03, da Vi racconto, appuntamento settimanale (ogni lunedì sera in seconda serata) di Enrco Vanzina che racconta un protagonista del cinema italiano. Stasera Vittorio Gassman.
Fast and Furious di Rob Cohen, canale 20, ore 23:23.
Tutti gli uomini del presidente di Alan Pakula, Iris, ore 23:47.
Impiccalo più in alto di Ted Post, Rai Movie, ore 1:05.

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Film stasera in tv: LE CHIAVI DEL PARADISO di John M. Stahl – lun. 6 nov. 2023

Le chiavi del paradiso, un film di John M. Stahl (1944). Tv 2000, ore 20:57. Lunedì 6 novembre 2023.Il film che fece di Gregory Peck, allora (1944) un giovane uomo ossuto dalla faccia angolosa ma illuminata dalla grazia, una star. Anche, uno di quei film edificanti che costituivano il nerbo della programmazione nei cinema parrocchiali lungo tutti gli anni Cinquanta. Anche, uno dei non pochi film hollywoodiani (e britannici) sull’epopea dell’evangelizzazione-cristianizzazione in Cina e in tutto il Far East, e sui relativi incontri e scontri interculturali Oriente-Occidente, genere in cui possiamo inscrivere Narciso nero di Powell-Pressburger, La locanda della sesta felicità di Mark Robson, Missione in Manciuria di John Ford, fino al meraviglioso e ahinoi assai maltrattato Silence di Martin Scorsese. Tratto da uno dei numerosi bestseller di Archibald Joseph Cronin (sì, lo scrittore che avrebbe poi ispirato la mitologica Cittadella televisiva diretta da Anton Giulio Majano), Le chiavi del paradiso viene girato in piena WWII dal John M. Stahl entrato nella storia del cinema soprattutto per il sublime, successivo melodramma-noir Femmina folle con Gene Tierney. Qui siamo in tutt’altro clima, più nella virtù che nel peccato, con un prete cattolico scozzese – approdato all’abito talare dopo dubbi tormentosi sulla propria vocazione e le tentazioni della carne -mandato sul finire dell’Ottocento a fondare una missione nell’ormai morente Impero cinese soggiogato dalle potenze occidentali. Dovrà affrontare e superare tribolazioni di ogni tipo, l’ostilità di parte della popolazione e dei potentati locali, difficoltà economiche, disastri naturali. Fino al conflitto civile subito dopo il tracollo dell’Impero, in una Cina contesa tra i vari signori della guerra. Chi mai potrebbe oggi solo immaginare un film così? Con un missionario cattolico fiero di portare il suo credo religioso e la croce nelle più lontane plaghe orientali? Nessuno salverebbe lui e il film dall’unanime sdegno e dalle infamanti accuse di imperialismo culturale (che è poi la vera ragione, per quanto non esplicitamente dichiarata, per cui Silence di Scorsese è stato massacrato dai critici e disertato dal pubblico). Grande cast con, oltre a Gregory Peck, Vincent Price e Thomas Mitchell. Da un besteller dell’allora trionfante Archibald Joseph Cronin, da cui anche la Rai avrebbe tratto due dei suoi sceneggiati di maggior successo, E le stelle stanno a guardare e La cittadella, entrambi diretti da Anton Giulio Majano.

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Film-capolavoro stasera in tv: IL SORPASSO di Dino Risi – lun. 6 nov. 2023

Il sorpasso di Dino Risi, Cine34, ore 23:19. Preceduto, alle 23:03, da Vi racconto, appuntamento settimanale (ogni lunedì sera in seconda serata) di Enrico Vanzina che ripercorre storia e carriera di un protagonista del cinema italiano. Stasera Vittorio Gassman.
La miglior commedia di sempre del nostro cinema, per qualcuno pure il miglior film italiano di sempre. Quando uscì, nel remoto 1962, non furono poi in tanti a rendersi conto di cosa fosse davvero questo immenso racconto orchestrato da Dino Risi (su clamorosa sceneggiatura, obbligario ricordarlo, di Ruggero Maccari e Ettore Scola, oltre che dello stesso Risi). Racconto che adesso ci appare come un ritratto assoluto, definitivo, dell’Italia in preda alle convulsioni del miracolo economico e a una mutazione antropologica che l’avrebbe travolta. Vittorio Gassman, nel ruolo della vita, è il cialtrone e nullafacente Bruno che in un ferragosto romano vuoto e deserto conosce, e imbarca a bordo della sua decapottabile, il probo studente Roberto, un Trintignant contrappunto perfetto, nel suo malinconico autocontrollo, nella sua nobile timidezza, al debordante compagno d viaggio. Si imbocca l’Aurelia, verso Castiglioncello, poi qua e là in Toscana. Road movie, in paesaggi ancora meravigliosi e intoccati, e quasi zero macchine in giro. Con fermate e deviazioni in posti e tra persone che finiscono col disegnare una mappa socio-etnografica di quell’Italia. Mogli cornificate e lasciate, nobili di campagna in via di rapida decadenza. Il timido conoscerà attraverso il cialtrone qualcosa di più della vita, il cialtrone attraverso il timido intuirà l’esistenza dell’ombra. Complicità, ma anche un sordo, tacito braccio di ferro tra i due. Rivalità maschile e forse un’impossibile (allora) attrazione omoerotica. La conclusione, drammatica, rivelerà, nella guerra perl’esistenza, un vincitore e un vinto. Uno di quei film perfetti dove funziona tutto, sceneggiatura, regia, interpreti.dove non accerti il minimo stridore. Bianco e nero meraviglioso, come si usava ancora negli anni Sessanta (di lì a poco sarebbe scomparso dal cinema destinato al largo pubblico per sopravvivere solo in quello strettamente d’autore). Vedere e rivedere.

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19 FILM stasera in tv – dom. 5 nov. 2023

The Water Diviner

Casinò

Cliccare per la recensione.

Il sospetto di Alfred Hitchcck, RTV San Marino (canale 831 dt), ore 21.00.
Grand Hotel Excelsior di Castellano & Pipolo, Cine34, ore 21:07.
La summa del cinema popolare all star di Castellano & Pipolo, coppia che tra fine Settanta e Ottanta mise a segno un colpo dopo l’altro al box office. Trame elementari, ricorso massiccio ai divi italici dell’epoca, regia qualunque e senza ambizioni. Questo film è il loro Grand Hotel, solo che al posto di Greta Garbo e gli altri clienti di quel mitico albergo berlinese qui ci sono Celentano, Montesano, Verdone.
Harry Potter e la camera dei segreti di Chris Columbus, Italia 1, ore 21:08.
Per chi volesse tornare agli inizi della saga e farsi un ripasso, ecco, questo è l’episodio secondo.
Fast and Furious di Rob Cohen (2001), canale 20, ore 21:12.
Il primo. Il seminale. Fondazione di uno storico franchise che ancora continua.
Criminali come noi di Sebastian Borensztein, Rai Storia, ore 21:10.
I predatori dell’arca perduta di Steven Spielberg, Iris, ore 21:17.
Casinò di Martin Scorsese, Cielo, ore 21:20.
G.I. Joe – La vendetta di John M. Chu, Rai 4, ore 21:20.
Sequel del fondativo della serie La nascita del Cobra. C’è Channing Tatum.
Black Sea di Kevin Macdonald, Rai Movie, ore 22:50.
Tutto in una notte di John Landis, Twenty Seven, ore 22:50.
Shark 3D, Mediaset Italia 2, ore 22:55.
B-movie australiano incredibilmente presentato qualche anno va alla mostra del cinema di Venezia fuori concorso (e ricordo ancora gli occhi sgranati e stupefatti di pubblico e critici di fronte a un film così poco festivaliero). Dopo uno tsunami alcuni ragazzi restano incastrati in un supermercato, in pessima compagnia di due squali, il resto ve lo potete immaginare. Forse ispiratore di un buonissimo horror del 2019, Crawl di Alexandre Aja (celebrato dal solito Tarantino), dove a invadere i territori umani dopo una piena sono alcuni mostruosi alligatori.
Un bacio appassionato di Ken Loach, Rai 5, ore 23:08.
L’impareggiabile Godfrey di Henry Koster, tv 2000, ore 23:19.
The Water Diviner di Russell Crowe, Iris, ore 23:44.
Nymphomaniac volume 2 di Lars Von Trier, Cielo, ore 0:35.
Doppio taglio di Richard Marquand, Rai Movie, ore 0:50.
Courtroom-thriller notevolissimo e molto, molto avvincente del 1985. Un editore è sotto processo con l’accusa di aver ucciso la moglie e la cameriera, ma ci sono ombre e sospetti su chi lo ha voluto imputato. Lo difende appassionatamente un’avvocatessa convinta della sua innocenza e che riuscirà a ribaltare la situazione in partenza sfavorevole al suo assistito. Ma i colpi di scena continueranno. James Bridges e Glenn Close sono i perfetti protagonisti di un film che ricalca con i suoi continui rovesciamenti i grandi classici dell’ambiguità processuale, Il caso Paradine di Alfred Hitchcock e soprattutto l’immenso Testimone d’accusa di Billy Wilder, cui Doppio taglio si apparenta. Dirige il professionista Richard Marquand. Ma è soprattutto il film di Glenn Close, allora all’apice della carriera.
Judas and the Black Messiah di Shaka King, Rai 4, ore 0:52.
Si può fare… amigo di Maurizio Lucidi, Cine34, ore 1:09.
Western con un Bud Spencer al solito manesco a fin di bene che si ritrova a proteggere un bambino contro cui si è scatenata una banda capitanata da un losco tizio intenzionato a impossessarsi di terreni ereditati dal pargolo. Che è il reuccio del lacrima-movie Renato Cestiè. Jack Palance è il villain. Dirige il Maurizio Lucidi del cultissimo La vittima designata.
Malmkrog di Christi Puiu, Rai 3 (Fuori orario), ore 2:50. Da domani su RaiPlay per una settimana.

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Film stasera in tv: NYMPHOMANIAC VOLUME 2 di Lars Von Trier – dom. 5 nov. 2023

Nymphomaniac volume 2 di Lars Von Trier, Cielo, ore 0:35. Domenica 5 novembre 2023.
Esistono due versioni, una tagliata e una uncut. Qui sotto le recensioni di entrambe. Impossibile dire quale delle due manderà in onda Cielo, azzarderei la prima.
Ensemble_photo_by_Casper_SejersenNymphomaniac 02 photo by Christian GeisnaesNymphomaniac volume 2 (versione tagliata), un film di Lars Von Trier. Con Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarskård, Jean-Marc Barr, Udo Kier, Shia LaBeouf, Jamie Bell, Stacy Martin, Willem Dafoe.
chapter_6_photo_by_zentropaDopo aver visto anche la seconda parte (tagliata), resto dell’idea che mi ero fatto alla Berlinale dopo aver visto la prima (integrale): film intermittente, dove si alternano momenti di altezze vertiginose a cadute abissali, e con parecchie zeppe qua e là. Frantumato in episodi che non costruiscono mai una narrazione, ma restano singole stazioni sconnesse della ascesa-discesa di Joe nel paradiso-inferno del sesso e degli istinti. Di molto buono c’è che Von Trier si astiene da ogni vulgata scema e politically correct su quanto sia bello e liberatorio scopare, preferendo indagare oscurità e ambiguità dell’eros. Peccato non riesca sempre a evitare, nella messinscena del sesso, il senso di finzione e inattendibilità. Però Jamie Bell come sacerdote della frusta è allarmante al punto giusto (e insieme ascetico e probo), Charlotte Gainsbourg aggiunge pathos e dolore vero, e il capitolo ultimo, l’ottavo, è fantasticamente melodrammatico. Voto 7
Nymphomaniac 23 photo by Christian Geisnaeschapter_8_photo_by_zentropaConfesso: comincio a non poterne più di Nymphomaniac. Più che del film in sé, dell’enorme dicorrererne e discuterne e battagliarne, anche fintamente, in un circo recensorio in cui vince chi le spara più grosse e forti. O demolendo con rabbia o, al contrario e all’opposto, esaltando ed elevando Lars Von Trier al soglio della santità, in una sorta di canonizzazione laica. Sicché il rischio è di perdere di vista, in tanto fracasso, in tanto rumore comunicazionale, il cine oggetto in questione e approcciarlo con sguardo offuscato e intriso di pregiudizi. Il guaio è che si arriva affaticati , se non stremati, alla visione di questo Nymphomaniac volume secondo versione cut (con tagli non effettuati, ma approvati da Von Trier, come si evince da statement messo in bella vista in apertura), dopo una campagna condotta aggressivamente dal marketing, e faccio un rapido riassunto: un anno di leaks abilmente lasciati fuoruscire dalla poduzione sulle porcaggini vere o presunte del film, con tanto di foto di Charlotte Gainsbourg tra i negroni e lei incaprettata in giochi s/m, e poi teaser (per ognuno degli otto episodi, centellinati come in una tortura orientale), trailer e così via, una campagna culminata nei famosi character posters con faccioni in orgasmo degli attori. Poi la decisione di farlo uscire in due parti, e ognuna in doppia versione, cut e uncut. Sicché diventan quattro i film che il povero spettatore deve andare a vedere. Continua a leggere

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