Venezia 80. IO CAPITANO di Matteo Garrone (recensione). Il migliore film italiano del concorso

Io capitano, un film di Matteo Garrone. Con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi, Doodou Sagna, Khady Sy, Bamar Kane, Cheick Oumar DiawConcorso. Voto 7+
Il miglior Garrone da molto tempo in qua. Eppure arrivato a Venezia accompagnato da voci malevole (“è talmente brutto che altri festiva non l’hanno voluto”). Che piacere vederle adesso smentite, quelle maldicenze. Io capitano è di gran lunga anche il migliore film italiano dei sei in concorso (un’esagerazione), l’unico che possa aspirare con qualche chance (a questo punto, dopo l’ottima accoglienza, neanche così poche) alla vittoria finale. Un film sui migranti che, partiti dall’Africa subsahariana, approdano a Lampedusa o sulle coste siciliane, tema già affrontata qualche anno fa nel notevole esordio di Jonas Carpignano Mediterranea e nel controverso Fuocoammare di Gianfranco Rosi vincitore a Berlino. Tema più che sensibile, anzi il tema di questo tempo, si pensi alle polemiche che ci frastornano ormai da anni sulla chiusura dei porti, sull’«aiutiamoli a casa loro», sui soccorsi nel canale di Sicilia, sulla presunta invasione straniera e sostituzione etnica ecc. Garrone segue il percorso esemplare verso l’Italia di due ragazzini, sedici anni soltanto, dal Senegal al Mali, poi Niger, Libia e da lì imbarco verso una qualche costa sud-italiana. Parecchio sappiamo, parecchio abbiamo visto e letto, ma giustamente Matteo Garrone con i suoi sceneggiatori (tra i quali sorprendentemente anche Massimo Ceccherini) ci fornisce ulteriori e precise informazioni su quel tragitto, a rischio di sfiorare a volte il didascalismo, ma è questo uno dei casi in cui vale la pena correrlo, il rischio. Io capitano è approdato in concorso solo due giorni dopo il film polacco su analogo tema di Agnieszka Holland Green Border, Confine verde, film che ha ottenuto il massimo dei consensi di pubblico e stampa e serio candidato, forse il più forte, al Leone. Inevitabile il confronto, vinto, a mio parere, da Garrone. Le differenze tra i due film sonocomunque tante, a partire dai contenuti: quello della Holland tratta della crisi umanitaria scoppiata circa un anno e mezzo fa nelle zone di confine tra Bielorussia e Polonia, con decine di migliaia di migranti – soprattutto da Siria e Afghanistan, ma anche da Nord Africa e Africa sub sahariana – attirati a Minsk dalle false promesse del despota locale nonché servo della Russia Lukashenka di farli poi entrare in Polonia, ovvero Unione ueropea. Promessa ingannevole, poiché l’obiettivo di Lukashenka si è poi rivelato essere quello di destabilizzare la Polonia con la bomba migratoria, missione che secondo alcuni osservatori gli sarebbe stata assegnata da Putin. E se Agnieszka Holland ricorre a modi cinematografici assai tradizionali ma di assoluta efficacia e solidità – realismo estremo nel restituire fatti e personaggi, ritmo concitato a mimare la caccia al migrante e la fuga dalle feroci polizie di frontiera, dolori e sofferenze mostrati senza il minimo filtro -, Garrone procede nel modo che è suo, del suo cinema: attingendo più che allo stretto realismo al mito, anche al fantastico e all’onirico in alcuni passaggi, al cinema etnografico e antropologico. Con la massima attenzione a non cadere nel ricattatorio e nella pornografia del dolore, rispettando i suoi personaggi, mettendosene alla giusta distanza. Un approccio non naturalistico che ricorda quello di Mati Diop e del suo Atlantique, giustamente premiato a Cannes 2019.
Seydou, aspirante musicista-cantante, e il cugino Moussa, scappano da casa (mamma di Seydou giustamente avrebbe mai dato il suo benestare all’impresa) per intraprendere l’agognato viaggio verso l’Europa di tutte i sogni e le speranze. Li avvertono dei pericoli, ma decidono lo stesso di giocarsi la loro carta. Segue la via crucis che era facile prevedere, ripercorsa da Garrone nelle sue inevitabili stazioni. Partenza da Dakar, passaggio in Mali dove i due cugini e altri migranti vengono presi in carico da un driver che li condurrà nel Niger, da decenni ormai uno dei paesi più pericolosi del mondo, occupato da milizie e predoni (e adesso in mano a militari golpisti supportati dalla Wagner). Verranno tagliegiato, quindi abbandonati in pieno Sahara, dovranno raggiungere in una marcia sotto il sole la Libia. E, una volta lì, saranno i signori locali della guerra a rapirli e torturarrli perché si facciano mandare il riscatto dalle famiglie. Qualcuno qui ha ritenuto troppo esplicito e dimostrativo questo itinerario, invece a mio parere Garrone non ne fa pesare l’esemplarità, anzi riesce a raccontarcelo come parte di un tessuto narrativo coerente. L’ultimo segmento, ovviamente, e non si fa chissà quale rivelazione a scriverlo, è la traversata clandestina su pericolante barcone verso l’Italia.
L’architettura sottostante ricalca quel Viaggio dell’eroe che è il titolo di un arcinoto manuale a uso degli aspiranti sceneggiatori, libro che abilmente volgarizza certo strutturalismo e la morfologia della fiaba di Propp per svelare il presunto eterno schema alla base di tanta letteratura e tanto cinema intorno a quelle figure superomistiche che si autorealizzano attraverso l’avventura e l’esplorazione. Io capitano di quello schema sembra l’applicazione, e però tutt’altro che pedissequa. Nel suo scheletro narrativo si possono scorgere infinite matrici (nel ragazzo Seydou qualcuno ha visto, e non a torto, Ulisse, Enea, Gilgamesh). Ma la parte migliore è l’ultima, è la traversata in mare con il sedicenne Seydou al comando, una responsabilità che gli è stata impostaai trafficanti. E nella sua paura di non farcela, di mandare a morire i passeggeri, donne, bambini, uomini, vecchi, si sentono gli echi del rimorso e del senso di colpa di Lord Jim, l’antieroe conradiano che mandò a morire per irresponsabilità i pellegrini verso la Mecca trasportati sula sua nave. Racconto fondamentale che divenne anche nei primi Sessanta un meraviglioso e oggi dimenticato film di Richard Books con Peter O’Toole. Tutta l’ultima parte di Io capitano è pervasa di memorie di altre avventure marinare, dall’Isola del tesoro a Moby Dick. Una traversata che porta a complimento il percorso di formazine di Seydou, perché il film è anche questo, la cronaca di un passaggio all’età adulta. Garrone resta fedele al proprio cinema di sempre, al suo senso per il racconto fatastico e onirico e per la faccia oscura, sordida e violenta dell’umano (la parte nella prigione libica). Qualche eccesso estetizzante (l’abbandono dei piveri migranti in pieno sahara avviene tra dune bellissime da fotografare), qualche concessione all’esotismo-orientalismo nell’osservazione della vita negli slums di Dakar. Ma sono peccati veniali che non mettono a rischio la riuscita dell’impresa.

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In sala. PATAGONIA, un film di Simone Bozzelli (recensione). Storia di Yuri e Ago

Patagonia, un film di Simone Bozzelli. Con Andrea Fuorto, Augusto Mario Russi, Elettra Dallimore Mallaby, Alexander Benigni. Voto 7
Recensione scritto dopo la proiezione, in concorso, di Patagonia al Locarno Film Festival 2023.
29 anni, con alle spalle il Centro sperimentale e il NABA di Milano, Simone Bozzelli è uno di quegli autori giovani che stanno ridisegnando la mappa del nostro cinema, non così disastrato come lo si dipinge (e però ancora lontano anni luce da quello francese e dalla sua capacità di produrre senza tregua e di sperimentare nuove forme, nuove estetiche). Di lui avevo visto l’assai bello J’ador (di cui ritroviamo più di qualcosa in Patagonia, le regole ambigue dell’attrazione per esempio), vincitore qualche anno fa se ben ricordo come migliore corto italiano alla Settimana della critica di Venezia, premio che lo ha posto all’attenzione di critici e non solo. Poi, per Bozzelli, è arrivato il gran riverbero mediatico grazie al video di I Wanna Be Your Slave dei Maneskin. Adesso eccolo a Locarno in concorso con questo primo lungometraggio. Che nonostante certe irresolutezze e ridondanze di messinscena è un esordio notevole che rivela una già riconoscibile e personale impronta stilistica, anche se non mancano reminiscenze, derivazioni da altro cinema soprattutto italiano.
Storia di Yuri, un ragazzo di vent’anni dolce e naïf, eternamente stupefatto, probabilmente orfano, che vive con le zie proprietarie di una macelleria nell’entroterra abruzzese (Bozzelli è nato a Silvi, provincia di Teramo, credo che quelli del film siano posti che conosce bene). Lo hanno messo alla cassa, ma lui non è così sveglio, fare i conti non gli riesce tanto bene, forse soffre di un deficit cognitivo, forse è quello che certi psicologi classificherebbero alla voce Asperger, autismo blando. A risvegliarlo è Ago(stino), animatore girovago ingaggiato in loco per una festa di compleanno di bambini e arrivato con il suo camper carico di palloncini, truccherie, giocattolerie varie, false magie. È sveglio, tatuato, piercingato, abile con gli infanti, abile venditore di sé stesso, dotato di un fascino lumpenproletario e ferino cui Yuri soggiace subito. Ago intuisce che Yuri è in cerca di qualcuno che lo liberi, sicché lo invita a seguirlo, a fargli da assistente. Yuri lascia le zie, la macelleria, il paese, sale sul camper di Ago, sarà il suo complice, braccio destro, amante. Tutto all’inizio gli sembra fiabesco, conoscerà più tardi i lati oscuri di quella vita sradicata e (apparentemente) liberata e al centro della zona d’ombra c’è Ago. Yuri lo ama, ma Ago è elusivo, sfuggente. Succede che Ago decida con il suo camper di fermarsi in un accampamento di case mobili, una specie di Nomadland centroitaliana, gente ai margini dalla vita fluida, dai mestieri strani come vendere animali nelle fiere, dedita in gran parte all’uso di sostanze alteranti, amanti di rave fracassoni dallo sballo facile. C’è anche ua donna con un bambino di cui Agostino si occupa in modo speciale, intuiamo che lei dev’essere la sua ex o ancora attuale compagna, benché in una relazione assai aperta, e il bambino, Sebastian, il loro figlio. Ma anche qui Bozzelli, fedele più alla pratica dell’allusione e dell’ellissi che a quella dell’esplicito (ed è una delle qualità forti di Patagonia), non ci fornisce spiegazioni, lascia a noi decodificare gli indizi. Yuri è ormai intrappolato in una relazione da dominato a dominante, il partner, superiore a lui per età e sapienza del mondo, si rifiuta di dargli qualunque tipo di certezza, esistenziale, affettiva, lo schiavizza, lo riduce a moglie-casalinga, lo costringe  a occuparsi del piccolo Sebastian mentre lui e la (ex?) compagna se ne vanno in paese a lavorare. Intanto sogna di andare con Ago in Patagonia, l’altrove assoluto.
C’è una scena di sesso tra di loro, meglio di contatto reciproco con emissione di fluidi, tecnicamente una “pioggia dorata” (indovinate chi è l’innaffiatore e chi l’innaffiato?) di cui forse si (stra)parlerà, ma che è invece importante per come svela il rapporto di dominio e sottomissione che intercorre tra Yuri e Ago. L’asse del film è questo, è il rapporto tossico, è la capacità e il coraggio di Bozzelli di indagare tra i recessi di un storia che ha a che fare con il desiderio ma anche molto con il potere (che tra desiderio e potere ci sia sempre una comnessione?). Patagonia mette in scena quella che oggi viene detta famiglia queer, lui, lei, un figlio, e il lui di lui che fa la moglie-casalinga-madre sostitutiva, ma Bozzelli se ne sta lontano da ogni celebrazione ottimistica e dolcificante, dà anzi della famigla queer una versione allarmante dove i vecchi ruoli del patriarcato non solo non vengono divelti, ma vengono paradossalmente potenziati in senso repressivo e costrittivo. Non so quanto questa critica sia consapevole e voluta, certo conferisce al film una densità inaspettata. Un film che sa anche giocare con gli archetipi e i miti riproponendo in Yuri la figura eterna dell’Innocente, come peraltro già in Lazzaro felice di Alice Rohrwacher. E come in molto cinema italiano della tradizione, vedi Miracolo a Milano di De Sica-Zavattini o il Ninetto del Ragazzo dal fiore in bocca di Pasolini. Ma Patagonia intercetta altri temi e caratteri del nostro cinema classico. La fascinazione di Yuri per il girovago Ago è la stessa di tanti provinciali felliniani per la gente del circo e delle giostre, è la stessa della Gelsomina della Strada (un’altra Innocente illustre) per il Matto. Solo che l’angelico Yuri si ritrova oggi tra un’umanità più disincantata e nella relazione con Ago deve affrontare il buio e la crudeltà. Peccato solo che, a fronte di questo coraggio, Bozzelli addolcisca troppo sfondi e contesti. Se la costruzione dell’universo childish, infantiloide, in cui si muove la coppia protagonista è un’invenzione notevole, la sua riproposizione continua e quasi ossessiva, il saturare lo schermo con l’estetica dei palloncini colorati, orsacchiotti, cuori e cuoricini rosa finisce col depotenziare la carica disturbante dell’amore tossico tra Yuri e Ago. Ma Patagonia resta un esordio di tutto rispetto. Grande performance di Andrea Fuorto, l’Innocente, e di Augusto Mario Russi quale luciferino e serpentesco Ago (con molti rimandi a Pinocchio: Ago è insieme il gatto e la volpe, è Lucignolo e l’uomo del carrozzone). I panorami appenninico-abruzzesi sono una meraviglia, la nostra Patagonia.

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In sala. IL GRANDE CARRO, un film di Philippe Garrel (recensione). Premio per la migliore regia alla Berlinale 2023

Il grande carro (Le Grand Chariot), un film di Philippe Garrel. Con Louis Garrel, Damien Mongin, Esther Garrel, Lena Garrel, Francine Bergé. Concorso. Voto 8 e mezzo
Recensione scritta lo scorso febbraio dopo la proiezione al festival di Berlino. Il
grande carro avrebbe poi vinto l’Orso d’argento per la migliore regia.
Ma quelle che vediamo passare sullo schermo sono marionette, come tutti hanno scritto (me compreso) dopo la proiezione alla Berlinale, o burattini? Risposta: burattini signori, burattini. Secondo la Treccani digital difatti “il burattino è costituito da una testa, alla quale è congiunta una veste aperta in basso in cui il burattinaio infila la mano, animandolo. (…) Il termine burattino tende a essere usato come sinonimo di marionetta, che è invece a figura intera, azionata per mezzo di fili.” Coloro che vediamo all’opera in Le Grand Chariot – Il grande carro o forse si potrebbe mglio dire Il carrozzone – “infilano la mano” nelle loro creature di legno, carta e stoffa, sono quindi, indubitabilmente, burattinai. Mestiere di nobile tradizione che riemerge in questo nuovo lavoro firmato Philippe Garrel, anni 74, molto affezionato al festival di Berlino (anche il suo precedente Le sel des larmes era stato presentato in concorso qui), detto non senza pigra approssimazione “l’ultimo esponente della Nouvelle Vague”: lavoro che si è giustamente preso il premio per la migliore regia sfiorando l’Orso d’oro. Da sottolineare come pure Nicolas Philibert, il vincitore con Sur l’Adamante, sia un ultrasettantenne (quota 72 per la precisione) e come il portoghese João Canijo, premio della giuria per l’estenuante Mal Viver, nemmeno lui sia un ragazzetto (anni 66). Il trionfo del boomer della fascia più matura, ed è un aspetto della Berlinale 73 che una qualche riflessione la meritebbe (finora non si segnalano mugugni e vibrate proteste e indignazioni da parte dei millennial: stiamo a vedere). Allora: Il grande carro, forse il miglior Garrel degli ultimi anni per la ricchezza e molteplicità della linee narrative, per come vengono tenute sotto controllo e armonizzate, per la naturalezza con cui si passa dal registro drammatico alla leggerezza quasi rohmeriana dei giochi amorosi.
Il burattinaio padre e ormai patriarca al centro della storia non ha mai abbandonato – siamo dalle parti di Parigi – il mestiere di famiglia e lo sta trasmettendo agli eredi, un giovane uomo e due giovani donne che volentieri, apparentemente senza frizioni o recriminazioni, già lo affiancano nelle messinscene e nella meticolosa preparazione degli spettacoli. Un quadro familiar-professionale senza elementi dissonanti di cui fa parte, amatissima, la nonna, la mamma di papà, che molto ha vissuto e combattuto. Si unirà poi come fondamentale aiuto per la compagnia un giovane pittore-scenografo assai inquieto. Qualcosa sta per succedere, e succederà, rompendo l’equilibrio e segnando la fine di quel piccolo Eden. Ognuno seguirà la propria vocazione, personale e professionale, facendo i conti con l’impossibilità di continuare insieme, mentre il mestiere dei burattini sembra avviato al tramonto anzi condannato (sarà una metafora garrelliana della situazione attuale del cinema?).
Si ha l’impressione che ci sia qualche tracci aautibiografica, che Garrel regista abbia immesso qualcosa di sé nella figura del padre burattinaio, nella sua ostinazione nel tenere compatta la famiglia e salvare il carrozzone. Un padre padrone però gentile e amorevole, che non può che soccombere all’avanzare dei tempi nuovi. Che Il grande carro sia anche (anche) un’autonarrazione lo suggerisce la presenza come attori dei tre figli del regista, il divo Louis in testa (ma quanti film gira l’anno? e noi in Italia a lamentarci dell’onnipresenza di Favino e Servillo), più Esther e Lena. Altro indizio: il padre di Philippe e nonno di Louis, Maurice, prima di intraprendere la sua carriera al cinema era stato burattinaio. Il risultato è un film che sa di autoanalisi e bilancio esistenziale, da cui si irradia un calore non retorico né bassamente sentimentale e che sa trovare toni crepuscolari piuttosto lontani dal Philippe Garrel abituale. Con una musica emotiva di fondo che potrebbe fare di Il grande carro un buon successo di pubblico (almeno in Francia). E con quanta finezza la storia di famiglia si intreccia alle parabole passionali e alle complicazioni amorose dei quattro giovani co-protagonisti, in una ronde alla Marivaux riadattata senza forzature a questi tempi fluidi e post-patriarcali. Con un personaggio, quello del pittore che si rifiuta al mondo, al successo, anche agli affetti certi, in nome di una lacerazione che è la nota upa, ma anche la messa a terra di un film che altrimenti rischierebe la rarefazione per troppa soavità. Tutti bravi, come dicevano i vecchi recensori. Con citazione doverosa per la nonna di Francine Bergé.

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Venezia 80. EVIL DOES NOT EXIST (Il male non esiste) di Ryusuke Hamaguchi – recensione

Aku Wa Sinzai Shinai (Evil Does Not Exist – Il male non esiste) di Ryusuke Hamaguchi. Con Hitoshi Omika, Ryo Nishikawa, Ryuji Kosaka, Ayaka Shibutani, Hazuki Kikuchi, Hiroyuki Miura. Voto 7 e mezzo

Non è l’Hamaguchi maggiore di Drive My Car, questo Il male non esiste è, volutamente, un piccolo film, nato come cinema del reale, come testimonianza della vita di una villaggio di campagna e collina non molto distante da Tokyo e della comunità che lo abita, Mizubiki. E poi svoltato, non è dato sapere quanto inaspettatamente, in un film di finzione che però conserva uno sguardo osservativo, documentaristico. Fino dall’esemplare incipit che è quasi un manifesto teorico, un lungo, lento piano sequenza attraverso un bosco, con la mdp puntata in alto verso rami e cielo. Capiremo che quella sequenza intendeva comunicare l’armonia tra umano e naturale di cui il film ci mostrerà la progressiva disgregazione. Dall’equilibrio al caos, è questo il tragitto che Hamaguchi percorre. Tenendo la propria attenzione su Takumi, un giovane vedovo che con la piccola figlia Hana vive al limitare dei boschi, in una vita immersa in quell’assoluto naturale che lui non vuole prevaricare e di cui cerca di essere un ospite rispettoso. È cinema mostrarci, come fa Hamaguchi, per molti e molti minuti Takumi che spacca la legna con un rigore da cerimoniale (dopotutto siamo in Giappone) e che con lo stesso rigore riempie contenitori di acqua sorgiva? Sì, lo è (con buona pace di quelli “però qua non succede niente” che non si capisce perché vadano ai festival e non se ne stiano a casa loro a guardarsi Netflix). Quello di Hamaguchi è cinema puro dall’anima zen, per il nitore, per l’aerea leggerezza, e cinema in sottrazione, del vuoto e della purificazione. Quasi impossibile parlare qui di trame, tutt’al più ci sono microincontri e collisioni tra personaggi. L’amonia viene minacciata quando da Tokyo arrivano due tizi, un signore e una signora, a sottoporre all’assemblea di villaggio un progetto di glamping, orrendo neologismo nato dalla fusione tra glamour e camping, ovvero un camping fighetto per gente cool ansiosa di depurarsi dalle tossine della metropoli e vivere una (presunta) immersione nella natura. È Takumi il più intransigente difensore dell’integrità del villaggio, il più fiero avversario del glamoing, così convincente da affascinare i due venuti da Tokyo e destabilizzare la loro fiducia nel progetto. Ma il vulnus c’è ormai stato e l’ordine non tornerà e sarà un fatto inaspettato a sanzionarne l’impossibilità. Un finale enigmatico e spiazzante lascia gli spettatori con molte domande e poche risposte. Eppure un film così monacale e rigoroso ha strappato uno degli applausi più convinti. Assistendo all’assemblea di villaggio dove anche l’avversione al glamping viene espressa con la massima urbanità e nei modi controllatissimi da”Giappone impero dei segni”, si pensa a cosa succederebbe in analoga situazione italiana: volerebbero urla e stracci, si arriverebbe alle mani. Il Giappone è lontano.

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Venezia 80. GREEN BORDER di Agnieszka Holland (recensione): crisi umanitaria ai confini dell’Ue

Zielona Granica (Green Border – Confine verde), un film di Agnieszka Holland. Con Jalal Altawil, Maja Ostaszewska, Tomasz Włosok, Behi Djanati Atai, Mohamad Al Rashi, Dalia Naous. Con. Concorso. Voto tra il 6 e il 7
Come avrebbero detto i flani di un tempo: grande successo di pubblico e di critica, l’applauso più lungo alla Mostra di Venezia. Dietro a questo (abbastanza inaspettato alla vigilia) trionfo c’è Agnieszka Holland, signora della mdp di lungo corso che si è sempre mossa tra eurocinema diciamo arthouse e incursioni in quello americano più mainstream, senza disdegnare la serialità, un’artigiana di eccellente mestiere mai del tutto assurta però alla categoria “autori”. Questa, con Green Border, potrebbe essere la volta buona, tantopiù se arrivasse il Leone, come da molti pronosticato, o comunque un premio importante. Del resto, ha realizzato un film cui è difficile resistere. Cinema tradizionale e robusto (diciamo all’esatto opposto di un Bonello, per stare al concorso di quest’anno), senza troppe ricercatezze formali ma al servizio del racconto, cinema di contenuti dove il cosa prevale sul come (disturbando i puristi dello specifico cinematografico e dell’egemonia dello stile): con il rischio però, trattando un tema sensibile e di stringentissima attualità come i migranti, di essere ricattatorio verso lo spettatore. Di quegli oggetti cinematografici che per un recensore sono sempre complicati da maneggiare (se ti azzardi a sollevare qualche critica o semplicemente una qualche riserva ti piovono addosso accuse di crudeltà mentale, se non peggio). Green Border: il confine verde è quello, di boschi e di campi che separa la Bielorussia dalla Polonia, dunque anche linea di separazione tra Ue e extraUe. Diventato punto nevralgico del continente quando, più o meno un anno e mezzo fa, è stato il teatro di una crisi umanitaria. In seguito alle promesse del tiranno Lukashenka di facilitare loro il passaggio dalla Bielorussia alla Polonia, quindi l’entrata nell’agognata Unione europa, erano infatti affluiti a Minsk decine di migliaia di migranti provenienti da Medio Oriente (soprattutto Siria), Iraq, Afghanistan, Nord Africa e Africa subsahariana. Una nuova rotta dopo quelle balcanica e mediterranea. S’è capito ben presto che si trattava di un inganno, probabilmente orchestrato con la Russia putiniana, allo scopo di creare un’emergenza profughi e destabilizzare Polonia e l’intera Ue. Migranti usati come arma di una guerra ibrida. Sicché, mentre militari e polizie varie della Bielorussia spingevano i profughi verso la frontiera polacca costringendoli con la minaccia a passare illegalmente sotto il filo spinato, l’altra polizia di frontiera, quella polacca, con analoga spietatezza ributtava fuori chi era riuscito a entrare. In un tragico ping pong che è durato per mesi e ha creato una crisi umanitaria con migliaia di vittime e dispersi. Una vicenda atroce, passata perlopiù nell’indifferenza della civile Europa. Questo il nocciolo duro di Green Border, che, pure con modalità ispirate al cinema del reale – uso del bianco e nero, macchina da presa mobile a inseguire i personaggi -, ricostruisce finzionalmente quanto successo. Con abilità e mestiere Agnieszka Holand apponta più linee narrative, per poi alternarle e farle entrare in collisione. L’asse principale è quello di un gruppo (una esemplare parte per il tutto) di migranti composto da una famiglia di siriani, una signora afghana, e tra di loro anche due bambini. Ne seguiremo il calvario, il disumano rimbalzo tra Polonia e Bielorussia, assisteremo alla violenza delle polizie di frontiera (e quella polacca anche più dura della bielorussa). C’è anche una paradigmatica microstoria di un bravo ragazzo, un uomo buono e giusto, finito senza rendersi conto di quanto lo aspettava nella polizia di confine e testimone delle violenze perpetrate. E c’è un gruppo di attivisti impegnati ad aiutare cladnestinamente gli immigrati. Lo schema narrativo è quello dello scontro tra Bene e Male, senza zone grigie in mezzo, è quello della caccia da parte degli uomini della legge a chi, non per colpa sua, è considerato fuorilegge. Come in un western. Perché Green Border è anche questo, è cinema di genere per quanto mascherato, oltre che un robusto film di denuncia civile. Holland non si e non ci risparmia niente, costruendo un film turgido, tutto di pieni, di climax, di picchi drammaturgici e drammatici. Dove tutto è esplicito, tutto è detto e mostrato, anche i passaggi più atroci (assitsiamo perfino alla morte di un bambino inghiottito dalle sabbie mobili di una palude). Colpire più che al cuore alle viscere dello spettatore. E allora, come sempre in simili casi, ci si chiede se non sia pornografia del dolore questa, se non si sia oltrepassato il confine tra ciò che è rappresentabile e ciò che non lo è. Questione antica quanto il cinema, e questione posta molte volte a proposito del cinema sulla Shoah. Davvero, vedendo quei terribili ceffi con i cani feroci della polizia di frontiera, si pensa alle SS che rastrellavano e deportavano gli ebrei nei campi di sterminio o li fucilavano in massa come a Babi Yar. Le eterne ombre della MittelEuropa e dell’Europa orientale. Non so quanto sia voluto, ma Green Border traccia, con la sua rappresentazione, una continuità tra gli orrori del confine verde e le infinite efferatezze passate di quella infelice parte del nostro continente (leggere l’agghiacciante Terre insanguinate dello storico Timithy Snyder, Bur, per rendersi conto di cosa sia stato il Novecento in quei paesi). Una linea di sangue che sembra non finire mai. Sicuramento questo della Holland è cinema urlato, refrattario all’ellisse e alla giusta misura, ma è impossibile non riconoscerne l’efficacia e la necessità.

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Venezia 80. Chi vincerà come migliore attrice/attore? Questi i favoriti

Caleb Landry Jones (“Dogman”)

Dei favoriti al Leone ho già scritto. Per gli altri premi difficile, è pressochéi impossibile formulare pronostici ssesnati: Leone d’argento, premio alla migliore sceneggiatura, alla regia ecc. in realtà sono quasi sempre utilizzati per dare un riconoscimento (un tempo si sarebbe detto di consolazione) a quei titoli arrivati nella rosa finale ma poi battuti sul filo di lana. Rientrano in questa logica risarcitoria pure le due Cope Volpi, per la migliore attrice e per il migliore attore, anche se iqui qualche pronostico lo si può formulare. Allora proviamoci, tenendo conto che negli ultimi dieci anni la Coppa Volpi ha acquisito un peso crescente anche sul piano internazionale, con interpreti poi arrivati alla nomination all’Oscar o a vincerlo, come la Olivia Colman della Favorita. Ai festival di Berlino e di Locarno hanno abolito la distinzione di genere, si premia la migliore interpretazione senza ulteriori specifiche “binarie”. Venezia e Cannes sono rimasti (finora) alla tradizione. E però la questione prima o poi si porrà, anzi si pone già adesso. Tra le migliori performance attoriali di questo concorso c’è infatti quella del/della protagonista transgender del film polacco Kobieta Z…, ruolo oscilante tra i generi interpretato da un’attrice, Malgorzata Hajewska-Krzysztofik. Nel caso, Coppa Volpi come migliore attrice o attore? Ricordo che il regolamento di Venezia impedisce di dare più di un premio a un film. Per cui, se il Leone lo vincesse ad esempio Poor Thing di Lanthimos, verrebbero esclusi dalla Coppa Volpi Willem Dafoe e Emma Stone.

Coppa Volpi al migliore attore. I favoriti:
Calab Landry Jones (Dogman di Luc Besson)
Franz Rogowski (Lubo di Giorgio Diritti)
Michael Fassbender (The Killer di David Fincher
Willem Dafoe (Poor Things di Yorgos Lanthimos)
Peter Sarsgaard (Memory di Michel Franco)
(io lo darei a Michael Fassbender)

Coppa Volpi alla migliore attrice. Le favorite:
Carey Mulligan (Maestro di Bradley Cooper)
Emma Stone (Poor Things di Yorgos Lanthimos)
Malgorzata Hajewska-Krzysztofik (Kobieta Z.. di Malgorzata Szumowska e Michał Englert)
Jessica Chastain (Memory di Michel Franco)
Léa Seydoux (La Bête di Betrand Bonello)
Alba Rohrwacher (Hors-Saison di Stéphane Brizé)
(io lo darei a Alba Rohrwacher o a Léa Seydoux)

Premio Mastroianni all’attrice/attore più promettente:
Seydou Sarr (Io capitano di Matteo Garrone)
Cailee Spaeny (Priscilla di Sofia Coppola)

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