Io capitano, un film di Matteo Garrone. Con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi, Doodou Sagna, Khady Sy, Bamar Kane, Cheick Oumar DiawConcorso. Voto 7+
Il miglior Garrone da molto tempo in qua. Eppure arrivato a Venezia accompagnato da voci malevole (“è talmente brutto che altri festiva non l’hanno voluto”). Che piacere vederle adesso smentite, quelle maldicenze. Io capitano è di gran lunga anche il migliore film italiano dei sei in concorso (un’esagerazione), l’unico che possa aspirare con qualche chance (a questo punto, dopo l’ottima accoglienza, neanche così poche) alla vittoria finale. Un film sui migranti che, partiti dall’Africa subsahariana, approdano a Lampedusa o sulle coste siciliane, tema già affrontata qualche anno fa nel notevole esordio di Jonas Carpignano Mediterranea e nel controverso Fuocoammare di Gianfranco Rosi vincitore a Berlino. Tema più che sensibile, anzi il tema di questo tempo, si pensi alle polemiche che ci frastornano ormai da anni sulla chiusura dei porti, sull’«aiutiamoli a casa loro», sui soccorsi nel canale di Sicilia, sulla presunta invasione straniera e sostituzione etnica ecc. Garrone segue il percorso esemplare verso l’Italia di due ragazzini, sedici anni soltanto, dal Senegal al Mali, poi Niger, Libia e da lì imbarco verso una qualche costa sud-italiana. Parecchio sappiamo, parecchio abbiamo visto e letto, ma giustamente Matteo Garrone con i suoi sceneggiatori (tra i quali sorprendentemente anche Massimo Ceccherini) ci fornisce ulteriori e precise informazioni su quel tragitto, a rischio di sfiorare a volte il didascalismo, ma è questo uno dei casi in cui vale la pena correrlo, il rischio. Io capitano è approdato in concorso solo due giorni dopo il film polacco su analogo tema di Agnieszka Holland Green Border, Confine verde, film che ha ottenuto il massimo dei consensi di pubblico e stampa e serio candidato, forse il più forte, al Leone. Inevitabile il confronto, vinto, a mio parere, da Garrone. Le differenze tra i due film sonocomunque tante, a partire dai contenuti: quello della Holland tratta della crisi umanitaria scoppiata circa un anno e mezzo fa nelle zone di confine tra Bielorussia e Polonia, con decine di migliaia di migranti – soprattutto da Siria e Afghanistan, ma anche da Nord Africa e Africa sub sahariana – attirati a Minsk dalle false promesse del despota locale nonché servo della Russia Lukashenka di farli poi entrare in Polonia, ovvero Unione ueropea. Promessa ingannevole, poiché l’obiettivo di Lukashenka si è poi rivelato essere quello di destabilizzare la Polonia con la bomba migratoria, missione che secondo alcuni osservatori gli sarebbe stata assegnata da Putin. E se Agnieszka Holland ricorre a modi cinematografici assai tradizionali ma di assoluta efficacia e solidità – realismo estremo nel restituire fatti e personaggi, ritmo concitato a mimare la caccia al migrante e la fuga dalle feroci polizie di frontiera, dolori e sofferenze mostrati senza il minimo filtro -, Garrone procede nel modo che è suo, del suo cinema: attingendo più che allo stretto realismo al mito, anche al fantastico e all’onirico in alcuni passaggi, al cinema etnografico e antropologico. Con la massima attenzione a non cadere nel ricattatorio e nella pornografia del dolore, rispettando i suoi personaggi, mettendosene alla giusta distanza. Un approccio non naturalistico che ricorda quello di Mati Diop e del suo Atlantique, giustamente premiato a Cannes 2019.
Seydou, aspirante musicista-cantante, e il cugino Moussa, scappano da casa (mamma di Seydou giustamente avrebbe mai dato il suo benestare all’impresa) per intraprendere l’agognato viaggio verso l’Europa di tutte i sogni e le speranze. Li avvertono dei pericoli, ma decidono lo stesso di giocarsi la loro carta. Segue la via crucis che era facile prevedere, ripercorsa da Garrone nelle sue inevitabili stazioni. Partenza da Dakar, passaggio in Mali dove i due cugini e altri migranti vengono presi in carico da un driver che li condurrà nel Niger, da decenni ormai uno dei paesi più pericolosi del mondo, occupato da milizie e predoni (e adesso in mano a militari golpisti supportati dalla Wagner). Verranno tagliegiato, quindi abbandonati in pieno Sahara, dovranno raggiungere in una marcia sotto il sole la Libia. E, una volta lì, saranno i signori locali della guerra a rapirli e torturarrli perché si facciano mandare il riscatto dalle famiglie. Qualcuno qui ha ritenuto troppo esplicito e dimostrativo questo itinerario, invece a mio parere Garrone non ne fa pesare l’esemplarità, anzi riesce a raccontarcelo come parte di un tessuto narrativo coerente. L’ultimo segmento, ovviamente, e non si fa chissà quale rivelazione a scriverlo, è la traversata clandestina su pericolante barcone verso l’Italia.
L’architettura sottostante ricalca quel Viaggio dell’eroe che è il titolo di un arcinoto manuale a uso degli aspiranti sceneggiatori, libro che abilmente volgarizza certo strutturalismo e la morfologia della fiaba di Propp per svelare il presunto eterno schema alla base di tanta letteratura e tanto cinema intorno a quelle figure superomistiche che si autorealizzano attraverso l’avventura e l’esplorazione. Io capitano di quello schema sembra l’applicazione, e però tutt’altro che pedissequa. Nel suo scheletro narrativo si possono scorgere infinite matrici (nel ragazzo Seydou qualcuno ha visto, e non a torto, Ulisse, Enea, Gilgamesh). Ma la parte migliore è l’ultima, è la traversata in mare con il sedicenne Seydou al comando, una responsabilità che gli è stata impostaai trafficanti. E nella sua paura di non farcela, di mandare a morire i passeggeri, donne, bambini, uomini, vecchi, si sentono gli echi del rimorso e del senso di colpa di Lord Jim, l’antieroe conradiano che mandò a morire per irresponsabilità i pellegrini verso la Mecca trasportati sula sua nave. Racconto fondamentale che divenne anche nei primi Sessanta un meraviglioso e oggi dimenticato film di Richard Books con Peter O’Toole. Tutta l’ultima parte di Io capitano è pervasa di memorie di altre avventure marinare, dall’Isola del tesoro a Moby Dick. Una traversata che porta a complimento il percorso di formazine di Seydou, perché il film è anche questo, la cronaca di un passaggio all’età adulta. Garrone resta fedele al proprio cinema di sempre, al suo senso per il racconto fatastico e onirico e per la faccia oscura, sordida e violenta dell’umano (la parte nella prigione libica). Qualche eccesso estetizzante (l’abbandono dei piveri migranti in pieno sahara avviene tra dune bellissime da fotografare), qualche concessione all’esotismo-orientalismo nell’osservazione della vita negli slums di Dakar. Ma sono peccati veniali che non mettono a rischio la riuscita dell’impresa.
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