La più grande sceneggiatrice italiana se n’è andata. Una protagonista della Golden Age del nostro cinema, compagna di lavoro di Antonioni, Monicelli, De Sica. Con una passione speciale: Luchino Visconti. “Sa come ci chiamavano noi del suo giro? Gli Alluchinati”.
Addio Suso. Se n’è andata a 96 anni, dopo una vita di cinema, forse la più grande sceneggiatrice che abbiamo mai avuto. Anzi, togliamo il forse. Scorri la lista dei film che ha scritto, da sola o con altri talenti come lei, e resti sbalordito. Quasi tutto Visconti, da Bellissima a Gruppo di famiglia in un interno passando per gli immensi Rocco e Il gattopardo. Antonioni (I vinti, Le amiche). De Sica (Ladri di biciclette, Miracolo a Milano). Poi Monicelli, Zampa, Maselli, Blasetti, Comencini, Clément, Rosi, Zeffirelli, Bolognini. Che vogliono dire I soliti ignoti, Gli indifferenti, Un’estate violenta, La bisbetica domata, La sfida, Le mura di Malapaga, Metello. Basta così, anche se si potrebbe continuare a lungo. Ma questi titoli rendono già l’idea di chi sia stata Suso Cecchi d’Amico – con quel cognome che sta al crocevia di due grandi dinastie intellettuali – e di cosa sia stato il cinema italiano nella sua Golden Age. Quella, per capirci, che va dai tardi anni Quaranta fino ai primi Settanta, quando Roma era la seconda potenza dell’impero cinematografico dopo Hollywood, grazie ai talenti che ci lavoravano, a produttori improvvisati ma spesso geniali e coraggiosi, alle folle che ancora amavano i film italiani e riempivano le sale.
Per capire il magistero di Suso Cecchi d’Amico (oggi per un nome così si userebbe l’acronimo SCd’A, chissà cosa ne direbbe lei) basta riguardarsi I soliti ignoti, la commedia perfetta, da proiettare nelle scuole di cinema come lezione agli aspiranti autori di script. Di quella sapienza e di quella generazione si è perso quasi tutto, oggi il piccolo cinema italiano ha, tra le cause profonde della sua crisi, anche la mancanza di sceneggiatori adeguati, qualcuno dice soprattutto. Le Suso se ne vanno e non lasciano purtroppo eredi degni.
Ha vissuto una bellissima vita, irripetibile. Passando in allegria ma sempre con ferreo impegno da un capolavoro all’altro, tra colleghi e amici che si chiamavano Anna Magnani, Luchino Visconti, Ennio Flaiano. Visconti soprattutto. Molti anni fa la intervistai nell’ambito di una serie di incontri romani che comprendevano, oltre a lei, Silvana Mangano, il costumista Piero Tosi e il regista Mauro Bolognini. Di quel lontano pomeriggio con Suso conservo, devo dire, ricordi sfumati e una cassetta riposta chissà dove che non riesco a ritrovare. Ricordo una donna severa, aureolata da quei capelli che ne facevano un’icona. Piuttosto distante, una signora decisa dal tono spiccio e assai poco sentimentale e confidenziale. Incuteva una certa soggezione. Parlò soprattutto di Visconti, “Luchino”, come lo chiamava.
Con lui era stata una storia speciale, più che con qualunque altro grande nome del cinema con cui aveva lavorato. Ne difendeva la memoria con la forza leonina della vestale. Mi disse: “Sa come ci chiamavano, noi che eravamo pazzi di Luchino, che gli stavamo sempre intorno come una scorta personale? Gli Alluchinati, ci chiamavano”. Gli Alluchinati.
Ecco, di quell’intervista con Suso Cecchi d’Amico ricordo soprattutto questo. Suso l’Alluchinata. Quello che mi colpì allora, e ancora adesso a pensarci, è che una donna dall’immenso talento come lei non rivendicasse nulla per sè, ma si mettesse al servizio della memoria e della fama di un altro. Grande come Visconti, ma pur sempre altro.
L’understatement doveva essere una sua sua regola. Una mia amica, intervistandola in tempi più recenti, le chiese di quando lavorò con Visconti alla sceneggiatura del Gattopardo: “Vi rendevate conto che stavate creando un pezzo di storia del cinema?”. Lei: “Si capiva che stava venendo fuori qualcosa di bellino”. Qualcosa di bellino. Suso Cecchi d’Amico era così. Non se ne fanno più come lei, purtroppo.
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