“La nostra vita” di Daniele Luchetti. Sceneggiatura di Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Daniele Luchetti. Con Elio Germano, Raoul Bova, Isabella Ragonese, Luca Zingaretti, Stefania Montorsi. Italia 2010
Diffido dei film italiani, così ci voleva la penuria d’agosto per spingermi a vedere dopo quattro mesi “La nostra vita”. Purtroppo non mi ha fatto ricredere. È il solito film di casa nostra, non malvagio e qua e là interessante, ma incapace di volare alto.
Ho resistito quattro mesi poi ieri sera sono andato a vederlo, complice la scarsità filmica d’agosto, vincendo la fobia che ho per il cinema italiano (di oggi, non quello di ieri). La nostra vita è più o meno come l’aspettavo, non brutto, con parecchi momenti interessanti e qualcuno notevole, ma con una opacità e una fragilità di costruzione che lo rendono il solito buon prodotto italiano che non riesce a volare alto. Che cos’è La nostra vita? Un film su un uomo poco più che ragazzo che di colpo si ritrova senza moglie con tre bambini da crescere? O su un italiano dei giorni nostri morso dall’ambizione di status e denaro e disposto a tutto per averli? O sulla coabitazione cosiddetta multiculturale (che brutta parola) di questo paese nel suo terzo millennio? O sugli schumpeteriani spiriti animali che spingono un ragazzotto di Pomezia a giocarsi tutto per realizzare il suo sogno di imprenditore edile? Ci sono almeno quattro film in La nostra vita, e nessuno riesce a diventare una storia vera. Storie spezzate che non si incastrano.
Quello di Daniele Luchetti è un film indeciso a tutto e troppo paraculo per essere, come forse vorrebbe, uno spietato ritratto dell’Italia di oggi e del cinismo diffuso diventato carattere antropologico nazionale. La commedia all’italiana con i Sordi e i Gassman sapeva essere crudele, senza pietà e nemmeno speranze (rivedere I mostri, please), qui Luchetti il suo protagonista lo tratta con i guanti, con uno sguardo indulgente anche quando si comporta da galera (l’occultamento del rumeno morto in cantiere, ad esempio). I Risi e i Monicelli non l’avrebbero mai fatto, ma questa è un’altra Italia, questo è un altro cinema.
Peccato, perché Elio Germano nella parte del muratore poi capocantiere poi palazzinaro Claudio è bravo e il premio avuto a Cannes come miglior attore in coabitazione col Javier Bardem di Biùtiful non è immeritato. Peccato, perché alla sceneggiatura ci sono, insieme al regista Daniele Luchetti, Stefano Rulli e Sandro Petraglia, due che il mestiere lo conoscono. Eppure in un film che dura meno di un’ora e mezza il tempo sembra non passare mai, succede pochissimo, devi aspettare mezz’ora perché ci sia finalmente qualcosa di interessante. Il resto è bozzettismo, personaggi che chiacchierano molto e dicono poco, e un 30 per cento dell’intero film occupato da scene di papà Germano alle prese con i tre figlioli (il neonato si chiama Vasco, per via della passione dei genitori per il rocker di Zocca), il che francamente è un po’ troppo. Eppure bisogna riconoscere a Luchetti di aver osato sul piano dello stile e, qua e là, anche della narrazione. Buttando ogni tecnica consolidata di ripresa, il regista sceglie di filmare tutto o quasi con la macchina a mano, pedinando e perseguitando i personaggi come uno stalker, con inquadrature tremolanti e sporchissime per accentuare il senso di verità. Stile fratelli Dardenne o di certi autori indie alla Andrea Arnold. Il problema è che, se Elio Germano regge bene all’urto di questa impostazione radicale, il racconto no. E una scelta così, di filmare allo stesso modo i bambini che giocano nel lettone o la terribile notte di pioggia in cui la palazzina rischia di crollare, finisce coll’azzerare ogni climax e progressione drammaturgica. Luchetti decostruisce in nome dell’immediatezza assoluta, della realtà da restituire senza filtri, ma senza un plot forte (si decostruisce cià che è costruito, non ciò che non esiste) non può che fallire.
Certi frammenti però sono notevoli e riescono a restituirci un po’ dell’Italia odierna senza bussole né morale, e danno l’idea di ciò che La nostra vita sarebbe potuto diventare. Le scene del cantiere, ad esempio, con quel miscuglione etnico che va su e giù per ponteggi e i traffichini che speculano su appalti e subappalti. Il funerale con quella canzone di Vasco urlata con disperazione e rabbia. Il vicino spacciatore in sedia a rotelle (un irriconoscibile Luca Zingaretti) con la compagna senegalese ex prostituta. La task force di muratori che lavora in nero ed è in grado di tirar su una palazzina in poche notti levando dai guai Germano. Legalità e illegalità che convivono, come in tanti pezzi di questo paese.
In un film così non poteva mancare il suono in presa diretta. Che dà un’impressione di verità però rende quasi incomprensibili la parlata romanesco-basso laziale del film. Che colpa hanno quelli come me che sono del Nord profondo? A me dovete mettere i sottotitoli come in un film kirghizo, se no mi perdo, come mi è successo ieri sera, il 30-40 per cento dei dialoghi. Oltretutto in La nostra vita si esagera coi borborigmi, quel modo di recitare mangiandosi le parole che fa tanto iperrealismo ma rende tutto ancora più ostico. Diceva tempo fa una nostra attrice storica, non ricordo se fosse Rossella Falk o Gina Lollobrigida, o forse era Virna Lisi: “Sti attori del giorno d’oggi parlano tutti smozzicato, non ci si capisce niente”. E non aveva ancora visto La nostra vita.
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