“Welcome“, un film di Philippe Lioret. Con Vincent Lindon, Firat Ayverdi, Audrey Dana, Derya Ayverdi, Thierry Godard. Francia 2009.
Ritratto di un migrante e di un uomo giusto che sta dalla sua parte, “Welcome” avvince e commuove. E non c’è da vergognarsi se a un certo punto si piange
Uscito nel dicembre scorso, recuperato adesso in un’arena estiva
Quello sui nuovi migranti è già un genere cinematografico, con titoli che vanno da Cose di questo mondo di Michael Winterbottom a Honeymoons del serbo Goran Paskaljevic a due film visti quest’anno a Cannes, il francese Les mains en l’air (buono) e il belga Illégal (così così). Un genere quasi codificato con i suoi elementi ricorrenti, la fuga dal paese natale, la clandestinità, il viaggio verso una terra promessa, la difficoltà di restarci una volta raggiunta. Il rischio in questo caso è che la nobiltà delle intenzioni prevalga sulla narrazione, trasformando il film in manifesto appassionato ma poco coinvolgente. Il cinema è geneticamente spettacolo, non tollera a lungo eccessi di didascalismo e pedagogismo. Per fortuna evita il pericolo Welcome, che è sì denuncia delle condizioni di vita dei migranti, ma è anche un film che convince e avvince. Perché ha una storia, un plot, una trama, un congegno narrativo che funziona.

Bilal si allena ossessivamente in piscina, vuole attraversare la Manica per raggiungere a Londra la sua ragazza
Permettetemi una breve digressione personale. In tempi lontani ho lavorato nella redazione di Diabolik a inventare storie e scrivere sceneggiature per questo fumetto ormai classico. Le due sorelle Giussani, geniali mamme del personaggio, non si stancavano di ripetere che per costruire una storia ci vuole prima l’idea, poi viene il resto, l’idea è tutto, l’inizio, la cellula staminale che germina e crea la narrazione. Non ho mai dimenticato quella lezione di Angela e Luciana Giussani, anche se poi ho fatto altro, e quando vedo un film o leggo un romanzo mi chiedo: ma c’è l’idea? In La nostra vita di Luchetti, che ho visto pochi giorni fa, l’idea non c’è, in Welcome, che ho appena recuperato in un’arena estiva dopo averlo perso quest’inverno, l’idea c’è. Semplice, lineare, ma efficace. Le Giussani l’avrebbero approvata immediatamente.
Eccola: Bilal, un diciassettene curdo-iracheno arrivato clandestinamente fino a Calais, vuole raggiungere la fidanzata Mina a Londra. Non riuscendo a passare la dogana con le sue guardie di frontiera e i cani, si mette in testa di attraversare la Manica a nuoto. La Manica a nuoto: sta qui il mattone primo, il nucleo drammaturgico su cui è costruito (benissimo) tutto il film. Per riuscire nella sua folle impresa Bilal va in piscina a prendere lezioni di nuoto ed è lì che conosce Simon, l’istruttore. Simon è Vincent Lindon, che in Italia resta inchiodato a quella sua vecchia storia con Carolina di Monaco (lo chiamavano sprezzantemente Carolino, come ieri sera al cinema qualche signora ricordava) e che invece è attore di razza, oggi nel pieno della sua maturità. Faccia stropicciata, corpo appesantito, è perfetto nella parte di questo malinconico perdente di provincia, in procinto di divorziare dalla moglie, che vede oscuramente in quel ragazzino iracheno una chance di riscatto anche per sè. “Lui vuole varcare a nuoto la Manica per raggiungere la sua ragazza, io non ho neanche attraversato la strada per fermarti quanto te ne sei andata”, dice alla moglie che non ha mai smesso di amare. Simon addestra Bilal, lo prepara alla grande impresa anche se cerca di dissuaderlo, si coinvolge nella sua vita e lo coinvolge nella propria, lo ospita rischiando maldicenze e denunce. Lo fa perché forse vede in lui il figlio che non ha e vorrebbe, per realizzare attraverso di lui qualcosa di grande o solo per naturale generosità, per compassione verso chi è diseredato. Simon è un buono. Un giusto. Sa che non potrà mai risolvere i problemi dell’umanità, ma sa che i problemi di qualcuno può risolverli, e quel qualcuno per lui è Bilal.
Senza retorica il regista Philippe Lioret si addentra in questo strano, asimmetrico rapporto tra due che non potrebbero essere più lontani per età e appartenenze culturali, e che invece si incontrano. Descrive con precisione ma senza pedanterie didascaliche la vita di Simon e quella, speculare, fatta di fughe, nascondigli, paura della polizia, prigionie nei centri di permanenza temporanei (questa ipocrita invenzione della nuova Europa) dei clandestini come Bilal. Welcome, film forse troppo onesto e lineare per far impazzire i cinefili, ha comunque immagini che non si dimenticano. Come gli immensi spazi della dogana, illuminati a giorno dalle torri-faro, percorsi da tir che avanzano lenti e smisurati con i loro carichi leciti e no, e poliziotti, cani, armi nascoste e armi esibite. Apocalisse, giorno del giudizio, valle di Giosafat di questa Europa dove ci sono i sommersi e i salvati. E tra i salvati non ci sono i Bilal. Le frontiere sorvegliate e blindate, non-luogo per eccellenza di corpi e anime in transito, sembrano essere diventate un topos del cinema contemporaneo. Mi vengono in mente le scene sui passaggi tra Spagna e la marocchina Tangeri nel bellissimo Loin di André Téchiné, altro memorabile film sullo spaesamento.
Certo, Welcome in fondo è De Amicis, è Dagli Appenini alle Ande. Se si sovrappongono alla Propp i due testi i punti di contatto sono evidenti, un ragazzo che attraversa il mondo e sfida ogni pericolo per raggiungere la persona amata, qua la fidanzata, là la madre. Ma va bene così. Non c’è da vergognarsi se ci si appassiona a un film popolare e commovente, semplice e onesto. Che recupera temi antichi come quelli dell’umanità sofferente e delle persone buone che cercano di alleviarne il dolore. Non c’è da vergognarsi se vedendo Welcome a un certo punto si piange.
IL TRAILER
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