Un’escalation di orrori, crudeltà e mostruosità per raccontare la guerra tra due clown per l’amore di un’acrobata. Ma il film di Alex de la Iglesia ambisce anche a essere metafora politica e non si capisce bene il perché. Quello che vediamo per quasi due ore è un repertorio di immagine sordide, illuminato qua e là da bagliori di talento e formidabili invenzioni visive. Che però non bastano. Ma come hanno fatto a Venezia a dargli due premi?
Balada triste de trompeta, regia di Alex de la Iglesia. Con Antonio de la Torre,
Carlos Areces, Carolina Bang. Spagna 2010.
Presentato alla 67esima Mostra del cinema di Venezia, dove il regista Alex de la Iglesia ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia e l’Osella per la miglior sceneggiatura.
Visto a Milano nella Panoramica dei film di Venezia e Locarno.
Non se ne può più del cinema movidesco spagnolo, quello nato all’alba degli anni Ottanta nella Madrid da poco post-franchista e che ancora oggi, a quasi trent’anni di distanza, non smette di ammorbarci. Passi per il capostipite Almodovar che, pur rifacendo da una vita sempre lo stesso film, ha acquisito la grazia e la statura del maestro. Ma gli epigoni, quelli sono tremendi. Alex de la Iglesia per esempio, inopinatamente appena uscito dalla Mostra di Venezia con ben due premi (Leone d’argento per la miglior regia e Osella per la miglior sceneggiatura) per il suo orrido Balada triste de trompeta. Che è cinema movidesco allo stato puro, quasi un manifesto del genere, nella sua mescolanza ormai senile di sesso ossessivo e semipornografico (il sesso nei movida-movies è ingrediente indispensabile anzi fondativo), di veteroideologismi anni Settanta che coniugano rivoluzione dell’eros e ribellione politica, di estremismi estetici di ogni tipo, di gusto per l’orrido, il bizzarro, il repellente, il mostruoso. Il movida-movie è fragoroso, colorato, sgangherato e fracassone, e le spara grosse come i bambini che infilano le dita nella pupù poi vanno in salotto tra gli ospiti e passano le dita sul divano e sui muri. Epatez le bourgeois, messieurs!
Vedere Balada triste de trompeta è una tortura, nulla ci viene rispamiato di questo vetusto repertorio. Anzi no, ci viene risparmiata la solita processione di trans del cinema spagnolo, ma il resto c’è tutto. C’è un circo di vari animali e freaks, con una coppia di clown – Sergio è quello che dà le botte e Javier è il clown triste che le prende – entrambi innamorati della bella acrobata Natalia. Ne succederà di ogni. L’acrobata è pazza del clown che mena, e che mena di brutto anche lei e più la mena e più lei ne va pazza. Javier cerca di salvarla dal mostro, che però è sexy come sanno da sempre tutte le belle che si accompagnano alle bestie, ma complicherà solo le cose a sè e agli altri. Quello che segue è una trucida, interminabile guerra tra i due clown per il possesso della bionda che li trasformerà entrambi in creature dell’orrore fino al duello finale, in una scena che cita due volte Hitchock, prima Intrigo internazionale poi Vertigo.
Il lurido e il sordido che de la Iglesia riesce a mettere in scena è al di là dell’immaginabile, ma questo non è il peggio. Si fosse limitato a raccontare, pur nel suo modo truculento-sanguinolento, il dannato triangolo tra Sergio, Javier e Natalia, lo si sarebbe anche potuto sopportare. Purtroppo però il regista non vuole solo spiegarci che l’amore fa male e che, signora mia, laddove c’è eros c’è anche thanatos, no, lui la butta anche sul politico e, come hanno scritto da Venezia molti zelanti recensori, questo triangolo sadico e masochista, e questo circo di derelitti vogliono essere la metafora della triste e repressiva Spagna franchista (dimenticavo, la vicenda si svolte nella Spagna 1973 della dittatura ormai crepuscolare, con un antefatto nel 1937 durante la guerra civile). Dico: vogliamo scherzare? Che c’entra la storia di Spagna con quei due che si inseguono e si massacrano per tutto il film per la bionda? Ma Alex de la Iglesia, schiavo del movidismo, non può limitarsi a raccontare i suoi deliri, no, ce li deve far passare come atto politico. Così mescola come capita e senza neppure lo sforzo di fornire agli spettatori una spiegazione decente (e l’hanno pure premiato per la sceneggiatura, roba da pazzi) i suoi dementi protagonisti prima alla guerra civile, poi al franchismo trionfante degli anni Sessanta. Poi ha il fegato di mettere di mezzo perfino l’attentato Eta all’ammiraglio Carrero Blanco (sì, quello che anche Gillo Pontecorvo ricostruì nel suo lontano e dimenticatissimo Ogro). Non bastasse, de la Iglesia, che si sarà capito è uno che non si ferma davanti a niente, in una scena mette di fronte addirittura il clown e il generalissimo. Signori, qualcuno avrà la bontà di spiegare perché un povero clown impazzito per amore di un’acrobata e per lei diventato anche assassino dovrebbe simboleggiarci la Spagna oppressa che si ribella al franchismo? Eppure è questo che ci suggerisce Balada triste de trompeta quando, subito dopo l’attentato a Carrero Blanco, ci mostra Javier che si avvicina alla macchina di quelli che si suppone hanno messo l’esplosivo e gli chiede: ma voi di che circo siete?
Basta. Aggiungo solo che a de la Iglesia il talento visivo non manca, non riconoscerlo sarebbe pura malafede. La mia rabbia di fronte al film non mi impedisce di apprezzare la forza di alcune scene circensi e soprattutto la parte finale, quella hitchockiana appunto, notevolissima per costruzione e tensione. E ammetto che il clown dal viso deturpato armato di mitragliette e in costume da ecclesiastico con tanto di mitria papale in testa è un’invenzione visiva formidabile.
UNA SCENA DAL FILM
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