Recensione: INCEPTION è un immenso spettacolo, ma lasciamo stare Freud

Inception, di Christopher Nolan. Con Leonardo DiCaprio, Ken Watanabe, Marion Cotillard, Ellen Page. Usa/Gran Bretagna 2010.

L’errore è prendere sul serio Inception, con la sua bislacca e artificiosa teoria dei sogni che fa acqua da tutte le parti. Meglio non interrogarsi troppo sulla trama e goderselo per quello che è, un film d’azione di rara potenza e suggestione: il più riuscito degli ultimi anni (meglio anche di Avatar).

Scusate il ritardo. Ma Inception l’ho visto solo l’altro giorno, appena tornato da un viaggio oltreconfine (in Egitto, per l’esattezza e nel caso interessasse a qualcuno). Prima che partissi non era ancora uscito, visto che l’Italia per misteriose ragioni è stato l’ultimo, ma proprio l’ultimo paese al mondo in cui è stato distribuito. Pensavo di andarmelo a vedere ad Alessandria (d’Egitto, anzi chiamiamola per non confonderci col suo nome arabo di Al Iskandaryia), dove ho passato un paio di settimane, dato che da quella parti era uscito già tre mesi fa con largo anticipo sul nostro sempre più provinciale e periferico paese. Invece nei cinema del centro di Al Iskandaryia l’avevano già smontato, nessuna traccia del film di Nolan nè all’Amir, la multisala più moderna di downtown, né ai vetusti e gloriosi cinema Rio, Metro e Rialto, testimoni con i loro nomi europeizzanti e americanizzanti della stagione, durata fino agli anni Cinquanta, in cui l’Egitto guardava a Occidente.
Meglio così, forse. Mi sarebbe toccato vedere Inception in inglese con i sottotitoli in arabo, e vista l’ormai proverbiale complessità della sua trama chissà cosa avrei capito. A dir la verità non è che abbia capito tutto (missione impossibile per chiunque, forse anche per lo stesso regista) nemmeno vedendolo qui a Milano all’Arcobaleno, dove mi sono ritrovato accanto un ragazzino che sgranocchiava silenzioso e cupo il popcorn e suo zio, o forse era il nonno, che sbuffava e smadonnava soprattutto quando appariva Marion Cotillard.
Tutto o quasi è stato scritto su Inception, difficile aggiungere qualcosa. Il web straripa di ammiratori e detrattori che si azzuffano e si interrogano sugli enigmi irrisolti della storia. La quale nel suo impianto base è nota e tutto sommato abbastanza semplice, le complicazioni arrivano quando l’azione procede e il regista Christopher Nolan, anche sceneggiatore unico dunque responsabile assoluto del plot, si trova costretto a dare spieghe su spieghe ad hoc, usando fastidiosamente i personaggi di turno come grilli parlanti. Sappiamo che Cobb (Leonardo DiCaprio) è un ladro di idee. Penetra nella mente altrui nella fase in cui è più accessibile, quella del sogno, e ne percorre l’inconscio fino a estrarre ciò che cerca. Finché un magnate giapponese di una imprecisata multinazionale dell’energia gli propone l’operazione contraria, non estrarre ma innestare un’idea. L’inception, appunto. Il soggetto da prendere di mira è un concorrente americano, l’idea che gli deve essere inchiodata in testa è quella di smembrare il proprio impero economico onde lasciare campo libero sul mercato al tycoon del sol levante. Cobb raduna un team di specialisti, compresa una ragazza incaricata chissà perché (è uno dei tanti misteri del film, e le spiegazioni fornite non bastano a dissiparlo) di disegnare le architetture dei sogni altrui, e dà il via all’inception sulla vittima prescelta. Tutto sarà molto più complicato del previsto per lui e anche per noi spettatori. Anche perché Cobb dovrà vedersela con il suo inconscio e il suo passato, che lo mettono di fronte alla figura della moglie (Marion Cotillard) morta tempo prima. Una sottotrama (sappiamo da subito che Cobb è accusato di aver ucciso la moglie, ma non sappiamo come siano andate davvero le cose) che si aggiunge a quella principale e fa da controcanto psicologico all’azione frastornante che domina il film.
Tutto è molto lambiccato e pretenzioso. L’ambizione evidente di Nolan è di realizzare un film che faccia da spartiacque nella storia del cinema fantastico, come lo furono a loro tempo Blade Runner e ancor prima Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e Metropolis di Fritz Lang. Si mira in alto, altissimo, mescolando materiali facili come quelli dell’action movie a materiali colti e nobili come le teorie sul sogno, con il progetto di fornire un prodotto multistrato, esattamente come a più strati sono i sogni di Inception, che si presti a più piani di lettura e di godimento. Ogni scena gronda riferimenti cinematografici ed extrafilmici, da Orson Welles a Escher a Hitchcock. Ma tutto rimane in superficie, i rimandi alla psicanalisi, freudiana e junghiana, sono risibili, poco pertinenti e del tutto esteriori, come di chi si sia fatto un corso accelerato in materia leggendo qualche scheda su Wikipedia. Nolan ruba qua e là qualcosa dalla terminologia psicanalitica (inconscio, proiezione, inconscio collettivo, senso di colpa) ma nulla coglie della freudiana interpretazione dei sogni: secondo la quale la dimensione onirica esprime sì l’inconscio, ma lo fa attraverso depistaggi, simbolismi, operazioni di camuffamento, dunque attraverso enigmi che vanno decrittati e interpretati. In Nolan invece il sogno è lineare, piatto, bidimensonale, privo di ogni profondità, ambiguità e mistero, i fatti si susseguono in modo assolutamente logico e prevedibile. Ogni elemento, diversamente che in Freud, rimanda solo a se stesso e non sta mai a rappresentare qualcos’altro. Semplicemente si tratta di una vita parallela che si svolge secondo le leggi della prima vita, come in un gioco di ruolo, anzi come in un videogame in cui per un po’ ci capita di interpretare un personaggio. Bislacca poi la teoria dei presunti tre strati in cui si articolerebbero i sogni, di cui non c’è traccia nella psicanalisi e che Nolan ha probabilmente preso dagli studi della neurobiolologia sul sonno e i vari livelli di profondità. Ma il sonno ovviamente non è il sogno.
Da un film non ci si aspetta però una lezione accademica, il pressappochismo teorico di Nolan non è di per sè un limite. Il cinema è cinema, non una dispensa universitaria. Solo che Nolan bara e non sta ai patti con lo spettatore, ci enuncia all’inizio le regole del suo gioco (la sua teoria dei sogni) ma poi le contraddice e le nega a seconda delle esigenze del momento. Come quando scopriamo, e con noi lo scoprono anche gli stessi personaggi del film fino ad allora tenuti all’oscuro, l’esistenza di un quarto livello, una sorta di limbo o inconscio collettivo (che di junghiano però non ha niente se non il nome) in cui precipiterebbe con scarse probabilità di ritorno chi muore durante una delle fasi del sogno. La rivelazione ovviamente aggiunge drammaticità al plot, ma suona un po’ troppo come aggiustamento di comodo in corso d’opera. Lo stesso vale per il miracoloso ipnotico inoculato dall’esperto Yussuf che fa precipitare al livello più profondo di sonno senza però inibire il risveglio perché non intacca i sensori dell’equilibrio situati nell’orecchio. Una trovata che neanche nei fumetti più sciatti verrebbe ammessa. La poco piacevole sensazione è di essere presi in giro e che Nolan giochi sporco con noi spettatori, il che conferisce a Inception un’aura inesorabilmente antipatica.
Però un film va giudicato per come funziona, non per la sua coerenza logica o la lealtà verso lo spettatore. Allora bisogna ammettere che sul piano dell’entertainment Inception funziona molto, molto bene, che è uno spettacolo come non se ne vedevano da tempo al cinema, meglio anche del sopravvalutato e prevedibile (al di là del mirabolante aspetto tecnico) Avatar. Se ci si lascia andare alla visione e si lasciano perdere le obiezioni ai troppi buchi del plot si entra in una dimensione fantasmagorica che non dà un attimo di tregua. L’idea del penetrare e uscire dai sogni, anche se pretenziosa e irrisolta, è brillante e potente, per nulla scontata e riesce a dar vita a un film anomalo ma di enorme fascino. Alcuni momenti, come la Parigi capovolta che si ripiega su se stessa o il crollo del mondo inconscio ricreato da Cobb per sè e la moglie, non si dimenticano. E il design è sempre all’altezza delle ambizioni (il fortino nella neve richiama perfino, non so quanto consapevolmente, le sette torri di Anselm Kiefer installate qui a Milano all’Hangar Bicocca). Nolan fallisce nella pretesa di rappresentare con credibilità il mondo dei sogni ma realizza uno spettacolo immenso e centra senza volerlo un altro obiettivo. Inception, con il suo andirivieni tra più dimensioni della percezione, è il film definitivo su una delle malattie del nostro tempo, l’incapacità ormai di massa a distinguere tra realtà reale e mondi paralleli e virtuali, quelli indotti dalle droghe, dalla compulsione ai videogames, dalla dipendenza da internet e dai vari gadget digitali. Cobb, sballottato tra reale e non reale fino a non distinguerli più, siamo noi.

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