Vedere oggi “Vivre sa vie” di Jean-Luc Godard

Vivre sa Vie (Questa è la mia vita), di Jean-Luc Godard. Con Anna Karina, Saddy Rebbot, André Labarthe, Guylaine Schlumberger, Brice Parain, Peter Kassowitz. Francia 1962

Anna Karina è Nana

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Non è lo sperimentalismo godardiano a intrigarci oggi di Vivre sa vie, ma la storia straziante della sua Nana. Messa in scena (quanto consapevolmente?) come una sacra rappresentazione.

Ho appena visto in Cineteca, qui a Milano, Vivre sa Vie (Questa è la mia vita il titolo italiano) di Jean Luc Godard. Controllo la data di uscita e leggo: 1962. Sono passati 48 anni. Quarantotto. Mezzo secolo. Impressionante, perché Vivre sa vie è un monumento della modernità al cinema, un manifesto della rottura e discontinuità rispetto al passato e della proiezione della macchina filmica verso il futuro. Rivederlo oggi è come riassistere al lancio della navicella Sputnik o fermarsi a guardare un grattacielo del periodo del boom. Oggetti nati come inno e trionfo della govinezza e adesso irrimediabilmente deteriorati dal tempo. Non c’è nulla oggi di più vetusto della modernità. Nemmeno Vivre sa vie riesce a sottrarsi completamente a questo destino. La sua evidente ed esibita rivoluzione linguistica, quella che ne fece il momento più avanzato dello sperimentalismo Nouvelle Vague, ora è la parte che meno ci interessa, anche se a una prima lettura sembra essere il senso e il cuore stesso del film. Come scrive Alessandro Baratti nella sua recensione su Gli Spietati.it, «l’autentico protagonista del film non è Nana (un’Anna Karina in stato di beatitudine) né, più ampiamente, il fenomeno della prostituzione nella Parigi dei primissimi anni Sessanta, ma il linguaggio: il linguaggio come strumento e calco del pensiero, il linguaggio come sistema di rappresentazione, il linguaggio come luogo di ricerca e sperimentazione». Ben detto e ben scritto, però concordo solo in parte. Credo che il linguaggio di Vivre sa vie sia solo un primo strato sotto il quale si nasconde un altro film (che ha a che fare con altro, ad esempio con il sacro, come dirò più avanti). Vero, Godard usa la mdp con una libertà mai vista, con l’ebbrezza di chi tutto può sperimentare, come fosse una penna con cui disegnare velocemente lo spazio dello schermo. Alterna ossessivi primi piani a camera fissa, indagini quasi da interrogatorio poliziesco dei volti (quello della protagonista Anna Karina soprattutto), a piani sequenza e panoramiche in cui il soggetto si annulla nel paesaggio. E poi, in omaggio alla lezione brechtiana del teatro epico-didascalico-politico, per cui una vicenda deve illuminare lo spettatore sui meccanismi sociali che la sottendono e la costituiscono, divide la narrazione in dodici blocchi, dodici tableaux, ognuno dei quali presentati da una didascalia. Abbondano le voci fuori campo, i sottotitoli, le spiegazioni del contesto sociale.Anna Karina Ora, tutto questo enorme e pesante apparato teorico potrebbe travolgere il film, invece fortunatamente lascia intatto il suo nucleo narrativo. Godard la sua lezione la fa con mano sorprendentemente leggera e, anche se ci vuole brechtianamente istruire sulla sua protagonista Nana, povera ragazza di provincia che finisce col fare la prostituta e percorrere tutte le tappe della degradazione fino alla tragica morte, grazie a Dio non prevarica mai sulla storia. 5o anni dopo continuiamo a interessarci a Nana, non alle rivoluzioni linguistiche del suo regista. Eppure lo stile innovativo di Godard non è senza conseguenze sul tessuto stesso della trama e i suoi personaggi, basti osservare quanto Nana sia lontana da un’altra prostituta cinematografica, la Cabiria felliniana di solo qualche anno prima, o dal contemporaneo Accattone di Pasolini, personaggio per molti versi analogo. Godard spezza il tessuto narrativo classico e questo gli consente di prendere le distanze dal melodramma e dal coinvolgimento emotivo. La vita di Nana scorre davanti ai nostri occhi come se fosse cinéma-vérité o un trattato fenomenologico. Ma la freddezza dell’approccio è solo apparente. Godard non riesce per fortuna ad astrarsi e ad astrarci dal destino della sua povera protagonista. Sembra che la osservi con distacco, in realtà la segue con pudore, partecipa e ci fa partecipare alla sua vita. Man mano che si procede, i dodici tableaux perdono la loro didascalicità brechtiana e diventano le dodici stazioni di una Via Crucis. La vita di Nana è un calvario e Godard ne fa, non sappiamo quanto consapevolmente o meno, una sacra rappresentazione. Vivre sa vie è la storia di un martirio, e la scena che lo rivela e lo prefigura è la commozione di Nana nel buio di un cinema di fronte alla Giovanna d’Arco di Dreyer, la straziante Renée Falconetti che si prepara a morire sul rogo. Lo sparo finale di Vivre sa vie che squarcia il silenzio e sembra squarciare lo stesso schermo ci fa capire quanto Godard sappia scuoterci, quanto si commuova e sappia commuovere anche noi. Un miracolo che puntualmente si rinnova cinquant’anni dopo alla visione del film. Merito anche della protagonista Anna Karina, più vera del vero, il cui primo piano percorre e domina tutte le scene, con il suo misto di bellezza, innocenza e fragilità. Indimenticabile.
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