L’ascesa di Mark Zuckerberg, il ragazzo che a vent’anni ha inventato Facebook (ed era solo l’altroieri). Uno di molto talento e pochi scrupoli, pronto ad appropriarsi delle idee altrui, a sbarazzarsi di amici e nemici. Autistico, catatonico, calcolatore. Un sociopatico. Così ce lo descrive e racconta il film. Ma più che cronaca è romanzo. Lo Zuckerberg di TSN è invenzione narrativa, non il ritratto fotocopia del vero Z. È il Citizen Kane di Orson Welles aggiornato all’era del virtuale, è Michael Corleone che diventa Padrino eliminando tutti i rivali dentro e fuori la famiglia. Solo che qui la guerra non si fa a colpi di mitra, ma di avvocati.
The Social Network, regia di David Fincher, sceneggiatura di Aaron Sorkin. Con Jesse Eisenberg, Andrew Garfield, Justin Timberlake, Brenda Song, Rashida Jones, Max Minghella, Rooney Mara, Armie Hammer.
Non prenderei alla lettera la storia di Mark Zuckerberg – il ragazzo prodigio inventore di Facebook oggi a 26 anni uno degli uomini più ricchi al mondo – così come ce la racconta The Social Network. La sceneggiatura di Aaron Sorkin, brillantissima, per la quale si sono citati i nomi massimi del settore come Ben Hecht, riesce miracolosamente a drammatizzare, rendere avvincente e romanzesca una case history aziendale buona tutt’al più per un master in Bocconi. Ovvero, come un ventenne venuto dal nulla è riuscito a inventare in poco tempo il social network più ramificato al mondo. Il tutto nel non remoto 2004, praticamente l’atroieri. Ma, per l’appunto, la vicenda come ce la racconta Sorkin è romanzesca e romanzata, e fortunatamente, visto che si va al cinema per divertirsi, non per fare un corso di economia aziendale. Parecchio ispirato al libro Miliardari per caso di Ben Mezrich (edito in Italia da Sperling & Kupfer) e un po’ frutto di ricerche personali dello stesso Sorkin, lo script non ambisce a essere un resoconto fedele dello stato nascente di Facebook, una cronaca di presunta obiettività, anzi è dichiaratamente di parte e decisamente antipatizzante nei confronti di Zuckerberg.
La già celebre scena iniziale pre-titoli di testa di lui al pub con Erica, la sua ragazza in procinto di diventare ex, ci fa capire subito da che parte andrà il film. La conversazione è un duello all’ultimo sangue, solo uno sopravviverà, e non sarà Mark. Battute a raffica (anche se la traduzione italiana, ovviamente più gonfia di parole dell’originale, costringe il doppiatore ad accelerare ulteriormente il ritmo con il rischio dell’incomprensibilità, e poi l’audio non perfettamente tarato al Plinius di Milano, dove ho visto TSN, non aiutava), letteralmente come le raffiche di un kalashnikov, di un Uzi. Con una battuta su tutte, già famosa, la più devastante e letale, lei che dice a un incazzato e attonito Mark Zuckerberg (un perfetto, autistico, catatonico Jesse Eisenberg): ‘Tu pensi che le ragazze non escano con te perché sei un nerd, uno sfigato. Non è vero, non escono con te perché sei un grandissimo stronzo’.
TSN è questo, il racconto molto convincente di come la stronzaggine se unita al talento può creare qualcosa di grande. Mark dopo essere stato mollato da Erica, l’unica in tutto il film più tosta di lui, se ne torna nella sua cameretta di studente di Harvard (cameretta si fa per dire, un appartamentino stile Ottocento che è una meraviglia con tutti i suoi bei comfort anche tecnologici, altro che i pensionati studenteschi di casa nostra) e per vendicarsi, lo stronzo, mette sull’intranet del college notizie false e tendenziose sulla ex. La sputtana. Poi, per vendicarsi dell’intero genere femminile, MZ ruba dal sito dell’università le foto delle studentesse, le butta online e invita i maschi del college a dare i voti alle belle e alle cesse. Enorme, immediato successo, tutti attaccati giorno e notte al computer a votare, salta il server del college. Zuckerberg da lì capisce che si può andare avanti e arrivare lontano. Dunque, secondo TSN, quello che fa decollare Zuckerberg e gli dà la spinta iniziale è il revanscismo antifemminile, tutto comincia per colpa o per merito di quella ragazza che non gliel’ha data, e se vogliamo questo è il limite del film, che alla fin fine si basa sulla filosofia volgare da osteria (da pub, da happy hour, da lounge bar, da wine bar, da quello che volete tanto la sostanza non cambia) che, signora mia, a muovere il mondo è sempre quella roba là, la f***. Mark allarga man mano la sua creatura online, non si fa scrupoli a usare (rubare?) idee altrui, a manipolare chiunque gli capiti a tiro. Imbarca soci per usarne i quattrini e poi disfarsene quando non gli servono più, insomma uno stronzo che riesce a diventare Zuckerberg-il-ragazzo-che-inventò-Facebook. Aaron Sorkin, e con lui il regista David Fincher (che stavolta tiene a freno il suo esorbitante talento di metteur en scène mostrato in film come Fight Club e Zodiac per mettersi al servizio della storia, e lo fa egregiamente), però non sono riusciti a rendermelo così odioso.
Resto convinto che Zuckerberg il successo se lo sia meritato, che la stronzaggine l’ha di sicuro aiutato ma non gli sarebbe bastata se non avesse avuto del genio, e che nessuno dei suoi rivali, di quelli che poi lo hanno denunciato per furto di idee vincendo anche qualche causa milionaria, sarebbe riuscito a fare quello che lui ha fatto. Come dice lo stesso Mark (nel film): ‘Tutti dicono di avere avuto l’idea di Facebook, però io l’ho fatto”. Ben detto ragazzo, hai ragione.
Sorkin-Fincher ce lo dipingono come un posseduto, un essere autistico senza relazioni con il mondo e le persone che ha un’idea dentro e la vuole realizzare a ogni costo. Uno che crede in se stesso come solo i folli e i grandi outsider riescono a fare, al di là di ogni ragionevolezza. Ripeto: non sono per niente convinto che Zuckerberg, il vero Z., sia così. Quello di TSN è una ben riuscita creatura narrativa che si è autonomizzata dalla cronaca e dalla realtà che l’ha inizialmente partorita. L’ascesa di MZ è finzione e ricalca infinite storie di finzione che abbiamo visto, letto, ascoltato. L’uomo senza scrupoli che sale tutti i gradini del potere, che è spietato con i nemici e pronto a tradire gli amici, che si pone contro il mondo pur di arrivare dove nessuno è mai arrivato, l’abbiamo visto ad esempio in Citizen Kane di Orson Welles, di cui TSN può essere ritenuto la versione reloaded, aggiornata ai tempi della rete, anche perché pur sempre di media si tratta. Ma TSN è anche il Riccardo III shakespeariano e Mark Zuckerberg (quello secondo Sorkin, s’intende) è un po’ anche Michael Corleone che sbaraglia tutti i concorrenti dentro e fuori la famiglia e si issa sul trono del Padrino, è il Tony Montana-Scarface di De Palma che, disceso da un miserabile boat cubano, sale fino al vertice del narcotraffico di Miami. Con la differenza che la guerra ad amici e nemici in TSN non si fa a colpi di mitra ma di contratti e di avvocati, e non è differenza da poco (è l’esatta differenza che passa tra una società criminale e una democrazia magari imperfetta in cui però la violenza è avocata a sè e gestita dallo stato, soggetta a regolamentazione e non lasciata ai singoli individui).
Come ha fatto notare un’amica con cui ho visto il film, in TSN, a parte la ragazza che all’inizio dà il meritato benservito a Mark, non c’è spazio per veri personaggi femminili. Le donne sono tutte ahinoi pupe pronte a inflarsi nel letto o a tirar giù lo zip dei pantaloni al primo che capita, purché con abbastanza soldi sulla carta di credito e abbastanza fama. A conferma che il film è fondato su una visione del mondo e delle cose (e degli umani) alquanto volgare. O se vogliamo darwiniana, secondo la quale le donne vanno laddove c’è il quattrino e il potere, non dagli sfigati, e gli uomini lo sanno, per questo si danno da fare per diventare dei vincenti. La pensa così Mark, anche se il film ce lo descrive qua e là personaggio più sfumato, spinto non tanto dalla brama di possedere, ma piuttosto da una pulsione interna insopprimibile e ossessiva all’autoaffermazione. Ma schiavo di quella visione brutale dell’esistenza è Eduardo, l’amico-socio che mette i primi mille dollari nell’impresa e poi viene piallato da Mark (lo interpreta l’inglese Andrew Garfield, magnifico attor giovane su cui fossi un produttore o un regista scommetterei subito). Lo sono i gemelli wasp Winklevoss (interpretati entrambi da Armie Hammer, raddoppiato in digitale). Lo è, soprattutto, l’essere demoniaco che a un certo punto si introduce nella vita di Mark, Sean Parker, colui che lo cambia per sempre, lo strappa da Harvard e lo impianta sulla West Coast, a Palo Alto, dove le idee possono diventare grandi e trovare i soldi per camminare, e dove per i ragazzi capaci e ambiziosi c’è, oltre alla villotta con piscina (che, l’abiamo capito, è l’equivalente californiano della villetta a schiera brianzola), coca a profusione, party, alcol e ragazze ragazze ragazze, le più belle, quelle che vedi sui manifesti di Victoria’s Secret (Victoria’s Secret, TSN ce lo conferma, in America è un mito assoluto, la modella in slip e reggiseno VS è in cima alla scala dei sogni dell’uomo americano, è la femmina il cui possesso consacra lo status di maschio alfa). Sean Parker non è uno qualsiasi, è quel signore che a 19 anni si inventò Napster e il download musicale alle spalle delle case discografiche, decretandone la fine come industria. Parker adocchia Mark Zuckerberg, intuisce che è fatto della sua stessa stoffa, lo leva dal piccolo mondo e lo lancia nel business trovando i finanziatori che consentiranno a Facebook uno sviluppo esponenziale. Parker è un vincente-perdente, ha inventato Napster ma gliel’hanno chiuso, ha perso cause, deve risarcire milioni di dollari, è pieno di debiti. Ma quando qualcuno (Eduardo, mi pare) gli dice: ‘Tu hai perso, le case discografiche hanno vinto’ lui ribatte orgoglioso con una battuta fulminante (copyright Sorkin): ‘Però io ho cambiato tutto. Tu lo apriresti un negozio di dischi oggi?’.
Parker introduce Mark a tutti i vizi californiani che l’austera East Coast non pratica, o almeno non pratica così spudoratamente. Arrogante e malinconico, lascivo e innocente. Gran personaggio, Sean Parker, il più interessante del film, cui un sorprendente Justin Timberland presta un fascino serpentesco e faunesco e il suo carisma pop. Mark si disferà anche di lui (così almeno lasciano intendere le battute finali) quando si renderà conto che è diventato un partner troppo ingombrante e poco presentabile per un’azienda con ormai un’immagine da difendere.
Alla fine Mark resta vincente e solo. Sì, con qualche causa persa in tribunale, che però non ha intaccato il suo predominio. Sta seduto a vent’anni su una montagna di potere e dollari come a nessun ragazzo della sua età è mai successo, eccetto forse uno che si chiamava Alessandro Magno. Il potere rende soli, la stronzaggine non paga, moraleggia ancora una volta il film. Eppure, nonostante tutto, io continuo a stare dalla parte di Zuckerberg, a pensare che non sia un mostro. Meglio uno stronzo di talento come lui che uno stalentato. Gli stalentati che non sanno di esserlo e presumono di averlo, il talento, quelli sì che sono una sciagura.
Ulteriori considerazioni suggerite dalla visione di TSN:
a) L’America, piaccia o no, resta il paese delle opportunità e il sogno americano non è sempre quell’inganno ideologico di cui tanto volentieri si sparla. Un ragazzo di vent’anni (diconsi venti) se ha idee, ambizioni e del genio può trovare un finanziamento da cinquecentomila dollari e provare a volare. Lì a meno di trent’anni si può arrivare in cima al mondo, qui pensate che a parità di merito e capacità possa succedere altrettanto?
b) L’America, nonostante sia la società più aperta del pianeta, è ancora ben divisa e strutturata in classi e caste, con potenti seppure poco visibili barriere tra alto e basso. L’aristocrazia wasp colpisce ancora e tende più all’esclusione che all’inclusione, puoi fare un mucchio di soldi ma difficilmente sarai ammesso in quei bei club dove si fumano avana e nelle belle magioni con tutta quella boiserie da romanzo di Henry James. Un conto sono i soldi, altro la legittimazione sociale. L’ebreo middle-class Mark Zuckerberg, che pure a Harvard è riuscito ad arrivare, sa benissimo di non appartenere a quell’élite e che difficilmente vi sarà ammesso e la rivalità tra lui e i gemelli Winklevoss, wasp, ricchi, con conoscenze ovunque, belli, pure muscolosi campioni di canottaggio, naturalmente pieni di ragazze strafiche, è pura, classica, marxiana rivalità di classe. L’ascesa di Mark è anche la sua rivincita sociale.
c) Nelle università americane contano ancora moltissimo le confraternite. Se entri in quella giusta avrai molte chiavi di accesso in più al potere, e farai parte parte di una tribù che ti appoggerà per tutta la vita e su cui potrai contare nei momenti difficile. Le confraternite sono il vero sistema mafioso dell’ultrademocratica società americana, la sopravvivenza oscura del familismo primitivo e della legge clanica in un mondo che, a parole e ideologicamente, ha abbattuto ogni appartenenza identitaria di gruppo privilegiando il nudo, singolo individuo.
d) In America si può realizzare un film molto critico su un personaggio famoso chiamandolo con il suo nome e cognome. Prima di varare TSN i produttori (tra cui c’è anche Kevin Spacey) avranno dovuto di sicuro interpellare e pagare un esercito di legali, poi però il film è stato fatto, è uscito, nessuno lo ha bloccato. Anche questo piaccia o no è democrazia. Ve lo immaginate un film del genere in Italia? L’unica cosa abbastanza simile che mi viene in mente è Il divo di Paolo Sorrentino su Andreotti. Ma Andreotti, quando il film fu fatto, ormai era un ex potente. Zuckerberg no, oggi è in cima. Non è differenza da poco.
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