Da Sydney, Rossella Venturi. Recensione dall’Australia di uno dei film favoriti agli Oscar e stranominato ai Golden Globes, ma che noi vedremo solo il 28 gennaio. The King’s Speech, storia del papà di Elisabetta che sale al trono senza volerlo e non riesce a parlare in pubblico per via della balbuzie. Guarirà grazie a un terapeuta speciale e potrà dichiarare guerra a Hitler dai microfoni della Bbc. Con un Colin Firth in pole position per tutti i premi possibili.
The King’s Speech (Il discorso del re), regia di Tom Hooper. Con Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Guy Pearce. Michael Gambon, Timothy Spall. GB/Australia 2010.
Quando devi dichiarare guerra a Hitler, se non balbetti è meglio. 1939: re Giorgio VI, padre dell’attuale Queen Elizabeth e marito della Regina Madre, deve dare il drammatico annuncio alla radio. Ma è da quando è bambino che le parole gli si fermano in gola. Aristocraticissima infanzia infelice, la nanny che gli dà i pizzicotti per farlo piangere e così non lo portano fuori, invece suo fratello maggiore sì, abissi di disistima che gli si scavano dentro per gli anni a venire. Tanto se sei il secondogenito mica dovrai fare il re. E invece.
È la storia di The King’s Speech, premi ovunque da Toronto in poi, sette nomination ai Golden Globes (una in più di The Social Network), perfetta macchina da Oscar lanciata verso gli Academy Awards. Qui a Sydney esce il 26 di dicembre ma l’altro giorno al Verona (una specie di Anteo a Paddington, quartiere simile a una Notting Hill tropicale) c’è stato un advanced screening, con tanto di introduzione live di Buz Luhrman. Storia royal vera – adattata dall’americano David Seidler e diretta da Tom Hooper, talentaccio di padre inglese e madre aussie che ha fatto John Adams e Elizabeth I per la HBO – che sarebbe anche troppo a tavolino British se non fosse un po’ sporcata di Australia.
Si parte nel 1925: quando Prince “Bertie” Albert (Colin Firth, il futuro Giorgio VI) deve parlare alla folla della British Empire Exhibition, visto che suo fratello è in giro a spassarsela con l’americana bi-divorziata Wallis Simpson (l’inglese Eve Best). Parole strozzate, scena muta, grande imbarazzo dei sudditi. Il poveretto, spronato dalla moglie (Helena Bonham Carter) ne ha provate di ogni per curare quell’impedimento nervoso, niente. Finché arriva Geoffrey Rush che con metodi da outback (declamazione di parolacce, alcol, lezioni nell’appartamento shabbymisero di Rush) piano piano lo porterà davanti al maledetto microfono con cui dichiarerà guerra alla Germania nazista. Perché nel frattempo, da quando entra in scena Rush, papà Giorgio V muore, sale al trono il fratello più cool David (un ottimo Guy Pearce ) che poi come Edoardo VIII fa lo scherzo di abdicare per amore o giù di lì. E a Bertie tocca fare il re. Per fortuna, visto le frequentazioni hitleriane del fratello.
Film tutto di attori, la chemistry buddy-buddy Firth-Rush funziona, Firth anche troppo osannato dai critici, Rush leggero e chirurgico come sempre.

La grande O rosa al neon sull'Harbour Bridge che ha concluso il grande party-show di Oprah Winfrey a Sydney.
In questi giorni, intanto, Rush è impegnato in città (clima pochissimo estivo finora) al piccolo Belvoir Theatre con The Diary of a Madman, tutto esaurito. Sold out anche Zio Vanja con Cate Blanchett alla Sydney Theatre Company, il teatro che l’attrice dirige insieme al marito Andrew Uptown. Rush e Queen Cate (c’era una volta Nicole) non si sono fatti vedere al kolossal di Oprah che, in versione ambasciatrice del turismo australiano, ha militarmente occupato la città. Con tanto di grande O rosa al neon sull’Harbour Bridge e il povero Hugh Jackman imbragato per una discesa dall’alto con mostruoso schianto finale contro l’Opera House e occhio nero, Kidman, Urban, un Russell Crowe ciccionissimo presenti. Ma altro che Oscar: la prossima puntata è W.E., il film che Madonna ha appena finito di girare ripescando la lovestory Wallis-Edward. E per la Simpson ha scelto Andrea Riseborough. Era la Thatcher in The Long Walk to Finchley della Bbc.
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