Il responsabile delle risorse umane, un film di Eran Riklis. Con Mark Ivanir, Guri Alfi, Noah Silver, Rozina Cambos, Julian Negulesco. Israele, 2010.
Chi era Yulia, rimasta uccisa in un attentato kamikaze a Gerusalemme? Un uomo cerca di scoprirlo: ne accompagnerà il corpo fino al suo villaggio natale, in una plumbea Romania ai confini del mondo. Un road-movie israeliano con toni da commedia grottesca che conferma una vecchia regola: per fare un buon film ci vuole una buona storia. E qui c’è.
Per fare un buon film servono innanzitutto una buona storia e una buona sceneggiatura. Ricetta semplice fino alla banalità, però applicata non così spesso come si dovrebbe. La conoscevano bene invece i produttori della Hollywood storica e anche i nostri produttori fai-da-te della stagione d’oro del cinema italiano, quella tra tardi anni Quaranta e primi Settanta. Si son versati fiumi di lacrime e di inchiostro sulla fine della storia (e della sceneggiatura) perfetta e della sempre più diffusa incapacità di costruire trame decenti. Bene, Il responsabile delle risorse umane è un film con una buona storia, una storia che funziona, con personaggi che hanno un corpo e un’anima, non lasciano indifferenti, da amare o detestare. Si dirà: merito di Abraham Yehoshua, dal cui romanzo è tratto il film. Però il produttore-regista israeliano Eran Riklis, quello di La sposa siriana e Il giardino di limoni, è un artigiano che i suoi prodotti li sa confezionare bene, secondo un gusto medio-alto sintonizzato su quello di un pubblico sì di nicchia però internazionale e non così risicato, e qui non spreca nulla di quello che Yehoshua gli porta in dote. Non darà al suo film una grande impronta autoriale, ma impagina con diligenza e mestiere, sceglie gli attori giusti, azzecca i toni e i tempi della commedia e del dramma quando occorrono. Il film si lascia vedere e man mano coinvolge, fino a farti venire anche qualche groppo in gola.
Il responsabile delle risorse umane all’inizio non è molto interessante. La parte israeliana, con il protagonista alle prese con la solita moglie insoddisfatta, bovaristica e rompiscatole la sua parte (‘ma tu no non ci sei mai, ma tu non hai mai tempo per me, ma tu sei troppo preso dal tuo lavoro, ma tu mi trascuri’) e con una figlia mocciosa il cui problema è avere papà al fianco nella prossima gita scolastica, langue. Sì, c’è la vicenda della povera Yulia, che innesca poi il film, ma anche quella all’inizio fatica ad appassionare e avvincere (drammaturgicamente, intendo). Yulia è una povera rumena venuta a Gerusalemme in cerca di un lavoro e finita ammazzata al mercato in un attentato kamikaze palestinese. Lei non è israeliana, è una capitata lì per caso e per necessità di portare a casa un po’ di soldi. Un giornalista fiuta lo scandaletto, quando capisce che Yulia è stata abbandonata all’obitorio senza che nessuno si sia dato da fare per riconoscerla e darle degna sepoltura, scaricata anche dal panificio industriale di cui era dipendente (le hanno trovato in tasca il cedolino-paga). La proprietaria dell’azienda deve arginare lo scandalo che sta montando a mezzo stampa, decide quindi di mandare il suo responsabile delle risorse umane (quello cui toccano sempre le rogne e i lavori sporchi, si sa) prima a indagare sulla morte di Yulia, poi in Romania ad accompagnare la bara fino a destinazione, cioè la famiglia della defunta.
Non appena il protagonista atterra in Romania con la bara, Il responsabile delle risorse umane prende vita e ritmo, assume subito un tono da commedia on the road tra il picaresco e il surreale con innesti di humor yiddish e con impreviste affinità (sarà la location) con certo cinema rumeno dell’ultimo decennio, quello più virato sul livido-grottesco tipo La morte del signor Lazarescu, Racconti dell’età dell’oro o Morgen. Il viaggio con la bara aggrega personaggi bislacchi e divertenti, oppure torvi e truci da dark-movie transilvanico. A partire dalla consolessa israeliana, un mostro di sboccata vitalità rimasta in quella città ai confini di tutto (dove sarà? In Bucovina? Nella Bassa Galizia?) per amore di un locale, subito sposato e subito nominato viceconsole benché non conosca una parola di ebraico. Poi man mano entrano in scena il plumbeo (più plumbeo dei disadorni paesaggi che gli stanno intorno) marito divorziato della povera Yulia, il loro figlio quattordicenne finito tra i ragazzi di strada e ripescato perché sappia che fine ha fatto la madre. Intanto, il viaggio incominciato in furgone continua per forza di cose su un blindato ex sovietico, arrugginito ma ancora capace di percorrere sferragliante e poderoso le strade innevate di quella parte di mondo dimenticata da Dio. Il film diventa una specie di ballata estremo-balcanico, cioè piuttosto sul triste, come di ubriachi prima euforici poi depressi, con pure qualcosa dello strazio tzigano. Intorno posti che non aiutano l’umore, falansteri periferici col cemento divorato dalla lebbra, fabbriche dismesse da incubo metallaro, bunker sotterranei multipiano che solo la paranoia di un Ceausescu poteva immaginare e realizzare, e pianure, pianure sconfinate così grigie da stringere il cuore.
Il responsabile delle risorse umane qui dà il suo meglio, in questo vagare di un pugno di vivi stralunati che trasportano una bara in una landa desolata. La parte finale nel villaggio da cui Yulia era partita, con la vecchia madre piangente, è prevedibile. Però certe cose non si dimenticano. Il figlio disadattato che al termine di questo percorso scopre forse un senso del vivere, il virile abbraccio tra lui e il protagonista. E quella chiatta che scorre lenta sul fiume (il Danubio?), con sopra i vivi e i morti, che ricorda una delle più belle sequenze di quel capolavoro che è Lo sguardo di Ulisse di Angelopoulos. Non c’è mai un accenno all’ebraismo degli shetl che in quella parte d’Europa prosperò per secoli e poi fu spazzato via in un attimo dai nazisti: il film pudicamente lo sottace. Ma quell’universo si sente lo stesso, aleggia su tutto il racconto, lo permea di inconfondibile spirito yiddish. Si pensa a un altro film (e a un altro romanzo) simile a questo e però più ebraicamente esplicito di questo, Ogni cosa è illuminata.
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