L’esplosivo piano di Bazil (Micmacs à tire-larigot) di Jean-Pierre Jeunet. Con Dany Boon, André Dussollier, Nicolas Marié, Jean-Pierre Marielle, Yolande Moreau, Julie Ferrier, Omar Sy, Dominique Pinon. Francia 2009.
Il regista dell’inquietante Amélie – la fanatica missionaria della felicità obbligatoria – ci consegna un altro film in apparenza gentile, in realtà duro e ferrigno. Sembra una fiaba, è invece la storia di una vendetta. L’esplosivo piano di Bazil è un film che (re)incarna l’eterno sanculottismo di certa Francia, con la piattezza e lo schematismo di un fumetto.
Quello di Jean-Pierre Jeunet non è il mio tipo di cinema. Non amo le visioni a ruota libera, le regressioni infantiloidi, le trame che si riduconono a puro pretesto per fughe nel fantastico. Non mi è piaciuto questo L’esplosivo piano di Bazil, non mi era piaciuto nemmeno il celebrato capolavoro della ditta, quel Favoloso mondo di Amélie che con i suoi incassi vertiginosi deve aver affrancato per sempre il suo autore da ogni bisogno materiale permettendogli di librarsi nei cieli della pura creatività. Dico, Amélie, chissà perché passato alla cronaca come inno alla positività e alla felicità, e invece racconto sinistro delle gesta di una pazza malvagia e sogghigante (ruolo giustamente affidato alla più antipatica attrice in circolazione, vale a dire Audrey Tautou) che piegava la realtà e purtroppo anche l’esistenza delle persone ai suoi sogni di onnipotenza e di controllo. Amélie con la sua proterva compulsione a fare del bene a ogni costo e a imporlo anche a chi non ne vuol sapere, è uno di quei tipi che se appena appena gli dai uno sgabello, un podio, un predellino, ti manipolano le folle e le portano dritte in qualche catastrofe totalitaria agitando il sogno di chissà quale utopie.
Ora, pensavo che Jeunet con Amélie avesse giocato consapevolmente con la doppiezza del suo personaggio, che avesse creato apposta quel mondo pseusofiabesco a più strati, con una superficie laccata e di dolcissioma glassa e sotto una polpa amara e avariata. Invece, vedendo questo suo nuovo Bazil devo ricredermi. Temo che Jeunet a certe bambanate che ci propina (ho rivisto proprio l’altro ieri in Cineteca Rocco e i suoi fratelli e lì, nella Milano popolare 1960, bamba e derivati sono parole strausate) creda davvero, che sia il primo a prendere sul serio le sue favolacce cupe.
La storia: Bazil bambino perde il papà sminatore in un incidente sul lavoro nel Sahara, sicchè la mamma dà fuori di testa e lui viene affidato a un collegio di monache che neanche il peggior Magdalene e il più tristo degli istituti almodovariano stile Mala educacion. Siamo negli anni Settanta, e Jeunet deve averne una vaghissima idea, perché di quei collegi repressivi come ce li mostra lui in quel periodo non c’era più traccia da un pezzo, che anzi già la pedagogia di massa si era adeguata all’ideologia permissivista del laissez-faire, quella che “gli infanti non vanno conculcati e repressi ma lasciati liberi di esprimersi”. Altro che monache sadiche con la bacchetta e i poveri orfani tutti in fila al freddo in cortile. Ma quando mai? Ma dove?
Bazil diventa grande ma la sfiga delle armi maledette continuo a colpirlo, letteralmente. Mentre fa il turno di notte nella videoteca dove lavora viene beccato in fronte da un colpo partito dalla pistola di un delinquente, sopravvive ma dovrà campare per sempre con quel pezzo metallico nel cervello. Il che lo rende un uomo sospeso tra realtà e surrealtà, sempre deragliante dai binari e a rischio allucinazione. E, bisogna ammetterlo, è una delle invenzioni più felici del film, perché fa di Bazil un personaggio perfettamente congruo a quei continui slittamenti nel fantastico che Jeunet opera lungo il percorso narrativo.
Finito a dormire sotto i ponti, che a Parigi per fortuna non mancano, con suole di scarpe che si aprono e dita che sbucano dai calzini tipo le vecchissime gag di Charlot (stracitato, stracitatissimo come tutto lo slapstick del cinema muto), viene recuperato da un tizio che lo porta a vivere in una comune di neo clochard, alloggiata in un antro scavato in un cimitero degli oggetti, una colossale discarica di piccole e grandi ferraglie dismesse. Una comunità di marginali un po’ Corte dei miracoli un po’ Opera da tre soldi e molto Dickens, governati dalla matriarca Tambouille che prontamente adotta Bazil. L’orfanello così trova finalmente famiglia e può riaffacciarsi alla vita. Ma un giorno per caso si trova di fronte ai palazzoni delle industrie d’armi che gli hanno rovinato la vita, quella che ha fabbricato la mina di papà e quella responsabile della pallottola che gli si è conficcata in testa. Subito balena nel fino a quel momento mite Bazil l’idea di vendicarsi. Organizza un piano per punire i truci responsabili delle due fabbriche d’armi, aiutato dagli amici clochard che non vedono l’ora di mettere a frutto le proprio abilità per il suo bene. C’è l’uomo cannone, la contorsionista, il riparatore di ogni congegno, la geniale cervellona capace dei più astrusi calcoli in una frazione di secondo, il logorroico che parla solo per luoghi comuni e frasi fatte. Tutti faranno la loro parte, in quella che ben presto diventa ben più della personale vendetta di Bazill ma una crociata, una guerra del Bene contro il Male.
Il film è a drammaturgia piatta, un lungo fumetto che si snoda in orizzontale senza sussulti e sorprese, senza profondità e complessità. Ma un fumetto di quelli di una volta, mica le graphic novel fighette di oggi, un cartone da pomeriggio di vecchia tv con personaggi che sono figurine bidimensionali a psicologia zero, i buoni rigorosamente separati dai cattivi e un’estrema semplicità narrativa. I buoni sono i poveri, i cattivi sono i ricchi. Punto. Il denaro corrompe e produce malvagità, è più che mai lo sterco del diavolo, e questa visione popolare-ottocentesca (ma forse primordiale, chissà) guida tutto il film e lo rende più rétro perfino delle sue scenografie, fissate a un’era che non valica gli anni Trenta-Quaranta del Novecento. Jeunet è volutamente polveroso e anchilosato nella storia che racconta, nel proprio immaginario, nelle favole o negli incubi che mette in scena. Il digitale nei suoi orizzonti non esiste (l’unica videocamera che compare nel film non funziona ed è già modernariato), il virtuale figuriamoci. Il suo mondo è materiale, di metallo e ferro, è la nostalgia di un Ottocento tutto macchine e fabbriche con ruote dentate e catene e locomotive sferraglianti e sbuffanti. I suoi protagonisti vivono in una discarica di quella civiltà vetero-industriale, di quella stagione ormai lontana dell’Occidente, hanno scavato la propria nicchia riparandosi tra i suoi rifiuti, amandoli, riciclandoli, anche facendoli rivivere, come fa uno dei compari di Bazil, che crea strani carillon e poetiche figurine semoventi assemblando fili, viti, bulloni e scarti vari. Quello di Bazil (e di Jeunet) è uno strano ecologismo che i rifiuti se li tiene, non li distrugge, semmai li riusa anche se preferisce conservarli come memorie di un glorioso passato.
La battaglia contro i due malvagi fabbricanti d’armi, subito ribattezzati mercanti di morte, prosegue finchè verranno catturati e consegnati a un tribunale del popolo che dovrà deciderne il destino. Ora, è proprio qui che il film svela il suo fondo oscuro, una vena populista-giustizialista da tricoteuse che assapora lo spettacolo della ghigliottina. Bazil è un film neosanculotto, che incarna quel fosco ribellismo plebeo che percorre da sempre (almeno dalla Révolution) il corpo profondo della società francese. Infastidisce la sua rozzezza da libello anticapitalista anni Settanta, quel suo schematismo per cui i padroni delle due fabbriche diventato tout court mercanti di morte pervertiti e sadici.
Il film demonizza e mostrifica, invece qualche amara verità le anime belle alla Jeunet prima o poi la dovrano pure trangugiare, ad esempio che se le frabbriche di armi prosperano è anche perché c’è chi le compra e le usa da qualche parte di questo disgraziato mondo. Sì, il film qualche vago accenno a questo lato oscuro lo fa quando ci mostra gli emissari di un despota africano affamato di fucili mitragliatori e lanciarazzi, ma è poco più che una digressione. La demonizzaazione è tutta per i due industriali europei e, attraverso di loro, per tutti noi. Con siffatta morale a un certo punto vien voglia di scappare dal cinema, ma si resiste sperando che il film prenda un’altra piega. Invece si arriva fino a quella torva, rabbrividente scena finale del processo popolare degno della Cina della Rivoluzione culturale. Né riesce a consolarci l’abilità di Jeunet di creare sogni e visioni, perché anche questi sono quasi sempre ferrigni e pesantissimi. È tutto il décor a essere greve, del resto. Abbonda – nel design dei marchi delle due aziende, nelle architetture, negli interni dei due padroni e nei loro oggetti – l’Art Déco, uno degli stili più amati dala subcultura queer-camp e anche qui trionfante, stile che però non è certo dei più aerei. Sono infiniti gli omaggi a tutto il cinema pauperistico (e circense) della storia, da Notre Dame de Paris a Chaplin arrivando a Mary Poppins (le scene tra i comignoli) e al Fellini di La strada. Meritoriamente si cita nei titoli di coda Pierre Etaix, attore-autore-clown-disegnatore-gagman che negli anni Sessanta mandò nei cinema film oggi quasi dimenticati come Yoyo e Le soupirant.
Tra le cose buone la prestazione di Dany Boon come Bazil, stralunato, in una performance tutta corporale e facciale da cinema muto. Il film è difficile da sopportare, però lui è grandissimo. O forse è la stima e la gratitudine che proviamo per Dany Boon da quando ci ha fatto ridere con Giù al Nord, di cui era interprete, regista e mente creatrice, e con il remake italiano, da lui personalmente sorvegliato, Benvenuti al Sud. Chissà se ha dato qualche consiglio di sceneggiatura a Jeunet: il quale però sembra tirare avanti per la sua strada all’inseguimento dei suoi fantasmi e di quel cinema onirico e antirealista che secondo alcuni fa di lui l’erede di Fellini. Titolo che però vede in lizza anche altri candidati, Terry Gilliam e Tim Burton in testa, per non parlare di quel Tarsem Singh che Andrea Bruni, critico dall’occhio infallibili amante dei territori estremi del cinema, segnala come gran talento visionario. Singh, regista molti anni fa di The Cell e poi di The Fall, si prepara a girare una nuova versione di Biancaneve. Progetto che inizialmente doveva essere affidato, guarda caso, proprio a Jean-Pierre Jeunet.
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