Recensione: HEREAFTER non è (purtroppo) il capolavoro che speravamo

Hereafter, regia di Clint Eastwood. Con Matt Damon, Cécile De France, Bryce Dallas Howard, George McLaren. Usa 2010.

Clint Eastwood sul set con Frankie McLaren, che interpreta il piccolo Marcus.

Il leonino Clint stavolta affronta il tabù di tutti i tabù, la morte. Peccato che la storia non lo aiuti e scada in un kitsch new-age che neanche il tocco di Eastwood riesce a riscattare. Restano però dei momenti magnifici (quando il regista si interessa più all’al di qua che all’al di là dei suoi personaggi) e la già celebre sequenza dello tsunami.

Cécile De France è la giornalista Marie LeMay, sopravvissuta allo tsunami.

Non è un capolavoro, Hereafter. Non poteva esserlo con quella sceneggiatura impossibile. Clint Eastwood è di un coraggio leonino nell’affrontare il tabù di tutti i tabù, la morte, e nell’affrontarlo gira un film qua e là magnifico, con momenti di intensità sublime, anche commovente fino alla strazio, ma strutturalmente, irreparabilmente minato da una storia imbarazzante. Anzi, tre storie che finiranno con il collidere alla fine, e lo capiamo subito anche perché di ArriagaIñarritu ne abbiamo visti e pure Kieslowski e la sua Doppia vita di Veronica. Tutte hanno al centro un personaggio che ha visto la morte in faccia. Marie è una giornalista-anchorwoman francese sopravvissuta allo tsunami, George è un operaio americano con il dono, da lui percepito come un fardello, di poter parlare con i defunti, Marcus è un bambino londinese cui è appena morto il gemello in un incidente e che non si rassegna alla perdita del suo alter-ego.
Impossibile farcela con una materia di questo genere. Clint Eastwood è un disciplinato soldato della macchina da presa, uno che ha sempre fatto il suo dovere e non si è mai tirato indietro di fronte a niente, che ha accettato di girare di tutto, compresi Space Cowboys e I ponti di Madison County, e si è difeso con onore. Ma anche lui alla fine esce da questo Hereafter con le ossa rotte. Vogliamo parlare delle sedute di George (Matt Damon), che toccando il “paziente” di turno subito avverte la scossa e vede-sente i cari defunti del paziente suddetto che gli vengono incontro e gli raccontano i più celati segreti? Vogliamo parlare delle visioni dell’oltre-vita che colgono Marie da quel maledetto momento in cui si è trovata sommersa dall’onda? Visioni di ombre che vagano in una luminescenza di media intensità e sembrano le descrizioni di una medium in crisi di fantasia e ispirazione. Questo, diciamolo con tutto il rispetto per il grande Clint, è kitsch, è paccottiglia new age. Non è una roba seria. Come non è una roba seria il personaggio della scienziata (scienziata?) – una Marthe Keller tornata al cinema e ancora in forma – che sostiene esservi prove documentate e in-con-fu-ta-bi-li che l’al di là esiste, che molti sono andati e tornati di qua per raccontarcelo, e il fatto che tutti costoro l’abbiano descritto allo stesso modo (una grande luce, serenità ecc. ecc. ecc.) è la prova ultimativa che esso esiste.

Matt Damon è il sensitivo George Lonegan

Cécile De France

Spira un’aria malsana tipo quei libracci infami di incerti editori che un tempo si vendevano nei chioschi delle stazioni. Eppure, alle prese con un materiale narrativo di questo genere, Hereafter riesce lo stesso a essere un film rispettabile. Merito di Clint, che fa un lavoro magnifico e mette a segno nonostante tutto scene memorabili. Lo fa riducendo al minimo necessario – e per quanto gli consente la sceneggiatura – le svenevolezze new age e puntando tutto sui personaggi e le loro storie terrene, interessandosi più al loro al di qua che all’al di là che essi vedono o immaginano. Se Clint fallisce nel rappresentare l’oltre-vita, e non potrebbe essere altrimenti, è invece grandioso nel rappresentare la concretezza della vita, nel raccontarci le sofferenze, le lacrime, i corpi piegati nel dolore, le facce, gli occhi gonfi, la desolazione, la rassegnazione, il furore, anche la speranza. Eastwood, ed è uno degli elementi che fanno di lui un maestro vero, ha un’attitudine compassionevole verso i personaggi, li ama, sta dalla loro parte, sa restituirceli nella loro pienezza e li tratta con un tocco rispettoso che pochi altri hanno avuto nella storia del cinema, a me viene in mente De Sica, il De Sica che filma pudico Umberto D mentre chiede l’elemosina o la Ciociara che abbraccia piangendo la figlia stuprata. È formidabile e ci commuove, Herefater, quando ci mostra la madre tossica che spiega a Marcus che lei non lo potrà più seguire, che lui dovrà andare in un’altra famiglia, è formidabile quando Marcus, ancora lui, attraverso il sensitivo George riesce finalmente a comunicare con il gemello morto, e non importa che tutto questo sia assurdamente new age e ridicolo, importa solo che questo lo faccia stare meglio e lo riappacifichi con se stesso. Poi c’è la sequenza iniziale e giustamente già celebre dello tsunami, così spettacolare e spaventevole che ti sembra di esserci. Hereafter è pieno di momenti alti, nonostante la dissennatezza dell’impianto narrativo generale. Il regista perde la battaglia, non l’onore, grazie anche agli interpreti. Cécile De France, la giornalista Marie, è così brava da riuscire ad appassionarci al suo autodistruttivo personaggio che butta via la carriera di giornalista per scrivere un libercolo sull’al di là. Matt Damon schiva ogni ridicolo e ogni retorica come sensitivo che parla coi morti: molti attori al posto suo ci avrebbero lasciato la faccia. C’è da chiedersi però come mai uno stimato sceneggiatore quale Peter Morgan, quello di The Queen e Frost/Nixon per intenderci, abbia deciso di giocarsi tutto con una storia così improbabile. Anche lui, come la sua giornalista Marie che anziché scrivere la biografia di Mitterrand manda all’editore un libro sull’oltre-vita, si è lasciato alle spalle le storie di presidenti, primi ministri e regine per buttarsi in questo stampalato Hereafter. Marie almeno ha una giustificazione: è stata travolta dallo tsunami. Ma lui, Morgan, perché l’ha fatto?

In fuga dallo tsunami

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