Il discorso del re (The King’s Speech), un film di Tom Hooper. Con Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Guy Pearce, Jennifer Ehle, Claire Bloom. GB/Australia 2010.
Please, non scambiamolo per un film trasgressivo solo perché il re balbuziente dice qualche parolaccia (per esigenze terapeutiche). Il discorso del re è un ottimo prodotto, godibile, benissimo costruito e ancora meglio recitato da tre attori in stato di grazia (sono attori di scuola inglese, del resto). Però è un ottimo film medio, mica un capolavoro. Prevedibile e senza mai un sussulto, uno scatto, una deviazione dal tracciato. Una di quelle irresistibili macchine acchiappaOscar che il cinema inglese sa realizzare così bene, che si portano a casa una mucchio di statuette e anche di soldi. E che poi, l’anno dopo, nessuno si ricorda più.
Bertie è un brav’uomo con una moglie giudiziosa e devota e due bambine che gli vogliono un gran bene, Lizzie e Maggie. L’unico cruccio in quella vita tutto sommato quieta è la balbuzie che lo tormenta, e quel Be-Be-Bertie con cui lo canzona il fratello maggiore David, più figo, elegante e fortunato con le donne di lui. Bertie in fondo di quell’impedimento a parlare sciolto si farebbe anche una ragione, se non fosse che è il duca di York, il secondo nella linea di successione al trono d’Inghilterra, sul quale sta ancora seduto, per quanto vecchio e malandato, papà Giorgio V. E in quanto duca di York deve ogni tanto parlare in pubblico, anche alla radio che si sta affermando proprio in quel periodo, gli anni Trenta, come gran strumento di comunicazione allargata (“Prima a un re bastava saper indossare l’uniforme e andare a cavallo, adesso deve diventare un attore”, commenta sconsolato papà Giorgio V in una delle migliori battute del film), e allora son tormenti. Il povero Bertie suda, spinge il fiato fuori dalla gola, gonfia le guanciotte (son quelle di Colin Firth, che ha un bel faccione), ma niente, le parole non escono. A Wembley Arena un giorno, dovendo parlare in nome del re-padre, è costretto a interrompere il discorso tra la costernazione e l’imbarazzo generali.
Le ha tentate tutte, compresa la cura Demostene delle pietre in bocca che un presunto esperto gli ha prescritto. Così la moglie, con quell’aria da casalinga spiccia e pratica che sa il fatto suo, tenta l’ultima carta, contatta un australiano, un attore fallito emigrato a Londra, che ha messo su uno studio di logopedista e pare faccia miracoli in casi del genere. Ci vuole un po’ a convincere il marito a farsi curare dal nuovo terapeuta, ma alla fine, come tutte le mogli che ci san fare, ci riesce. Incomincia per il principe la rieducazione, nella casa-studio un po’ smandrappata ma così shabby-chic del signor Lionel, rieducazione che prevede metodi poco ortodossi. Come darsi del tu (“io Lionel, tu Bertie”), come liberare gli istinti repressi, parlare cantando, dire le parolacce, riesumare sepolti traumi infantili (Lionel, che ha imparato il mestiere in patria occupandosi di reduci dalla Grande Guerra diventati afasici causa traumi, è un empirico che mescola buonsenso, intuito, esperienza e anche qualcosa della psicanalisi che proprio allora comincia a diffondersi su larga scala). Il principe balbuziente si indigna, oppone in principio qualche resistenza, sempre da Buckingham Palace in fin dei conti arriva, poi cede, rendendosi conto che quelle bizzarrie hanno su di lui ottimi effetti e che il suo eloquio visibilmente migliora. Finché non succede l’imprevisto, il fratello David – nel frattempo salito al trono con il nome di Edoardo II dopo la dipartita di papà – decide di abdicare causa Wallis Simpson, l’americana di dubbie origini di cui è innamorato e che lui, come sovrano (e capo della Chiesa d’Inghilterra), non potrebbe mai sposare perché divorziata (“A Buckingham Palace non può entrare una donna con due mariti viventi!”, ammonisce il primo ministro). Sicchè Be-Be-Bertie si ritrova a succedergli, re non volente e sempre balbuziente, per quanto in via di miglioramento grazie a Lionel. C’è il discorso dell’intronizzazione da tenere a Westminster e, superato l’ostacolo, c’è qualcosa di ancora più impegnativo: il discorso via radio per comunicare alla nazione l’entrata in guerra contro Hitler (il quale sì che se la cava bene con microfoni e torrenziali discorsi alle masse, e Bertie guarda invidioso e sconsolato l’orrendo ma efficacissimo ometto con i baffi arringare in un cinegiornale le folle in quel di Norimberga, ed è una delle scene migliori, perché finalmente si cerca di penetrare e dar conto della demoniaca capacità affabulatoria e manipolatoria di Hitler, si tenta di capirci qualcosa senza liquidarlo solo come una grottesca marionetta-macchietta tipo Il grande dittatore di Chaplin).
Meglio non rivelare come finisce il film, anche se è facile intuire. Perché è questo il limite di Il discorso del re, peraltro godibile e sagacemente scritto, costruito e diretto. Il limite di una storia chiusa e prevedibile che, una volta stabilite le sue premese narrative, si dipana senza il minimo sussulto e sorpresa fino alla scena conclusiva, climax di tutto il film, lungamente attesa e artigianalmente preparata a dovere perché deflagri con la sua carica di emotività sullo spettatore e magari gli sprema pure qualche lacrima. Questo è il cinema del resto, questa è l’arte della narrazione, una bella storia che acchiappi chi guarda o chi legge. Però qui dopo venti minuti di visione uno, volendo, può anche chiudere gli occhi, infilarsi gli auricolari dell’iPod e astrarsi, tanto s’è già capito tutto. Il discorso del re è uno spettacolo riuscito e solidamente assemblato, ma è alla fin fine una macchina narrativa inerte, che avanza col pilota automatico e secondo un software di progammazione predefinito, che ripercorre tracciati déjà vu senza nemmeno immaginare possibili deviazioni. Definiamolo un perfetto prodotto all’inglese, o una macchina da Oscar (e difatti di nomination il Discorso del re ne ha avute ben dodici, un’esagerazione che non si giustifica). Uno di quei film british che hanno alla base un soggetto di ferro, una sceneggiatura che non sbaglia un colpo, dialoghi ben scritti e qua e là acuminati (scuola Wilde-Shaw-Maugham-Coward), scenografie con la giusta tappezzeria e le giuste chicchere da tè, un regista senza grande personalità (e se ce l’ha che la sappia tenere a freno) che si metta al servizio della storia e non la prevarichi mai con certe ubbie e manie francesizzanti nouvellavaguistiche o italianizzanti di stile e ricerca linguistica e varia autorialità. Infine, attori eccellenti di quella scuola britannica di origine teatrale che continua a sfornare gente che sa rendere credibile ogni ruolo e capace di abolire, quando recita, ogni distinzione tra vita e finzione, tant’è vera e naturale. Il discorso del re è tutto questo, è il film inglese di questo 2011, è il film inglese che ogni anno riesce a scalare il box office americano e poi del resto del mondo. Che riceve una pioggia di Oscar e poi l’anno dopo tutti se lo dimenticano, tanto c’è già un altro film inglese dello stesso tipo pronto a prenderne il posto.
Il discorso del re di Oscar ne vincerà (a proposito, l’appuntamento è per la notte del 27 febbraio, ormai ci siamo quasi). Molto probabilmente se lo porterà a casa Colin Firth, che è un Bertie che sa alternare bene le frustrazioni e il senso di inadeguatezze del balbuziente alla caparbietà e all’orgoglio del principe. Più difficile l’impresa per Helena Bonham-Carter, alias signora Tim Burton, che qui è un incanto come moglie pratica e di buonsenso, che se la dovrà vedere con la favorita Melissa Leo di The Fighter. Quanto a Geoffrey Rush, il logopedista Lionel, è anche lui nominato, ma è difficile che ce la faccia sul Christian Bale di The Fighter. Della terna d’attori di The King’s Speech Rush è quello che convince meno, bravo, bravissimo, ma troppo bravo, con tendenza non sempre trattenuta all’istrionismo e all’overacting. Spero solo che Il discorso del re non vinca come miglior film, non se lo merita in un anno in cui ci sono in corsa Inception e The Social Network, questo sì un gran prodotto, un lucido, implacabile ma anche appassionante, quasi shakespeariano racconto sul potere, l’ambizione e l’avidità ai tempi della rete, che surclassa per profondità e potenza il film interpretato dal trio Firth/Rush/Bonham-Carter e diretto da Tom Hooper.
Stiamo a vedere come funzionerà la furbissima macchina da premi che è The King’s Speech, ma, per quante statuette vincerà, è probabile che già l’anno prossimo ce ne saremo dimenticati, come già è successo a un’infinità di acchiappaOscar del passato di marca inglese (o inglese-australiana). Chi se li ricorda più Il leone d’inverno, Un uomo per tutte le stagioni, Momenti di gloria o, in tempi meno lontani, Shine o Shakespeare in love? Tutti pluripremiati, tutti grandissimi e insperati successi di pubblico, tutti finiti nel cono d’ombra senza mai diventare dei veri classici.
Il discorso del re non ha abbastanza coraggio per essere un gran film, è un ottimo film medio, il che non è la stessa cosa. Del film medio ha la mancanza di spigoli, la levigatezza, la carica rassicurante e mai disturbante. Sì, ci sono dei momenti il cui lascia intravvedere il film diverso che avrebbe potuto essere e non è, ed è quella messinscena, soprattutto all’inizio, delle dirette radiofoniche come un inoltrarsi in una giungla sconosciuta e pericolosa per il povero, incespicante Bertie, giungla affollata da oggetti-creature mostruosi che sbarrano il cammino, pencolano dal soffitto, si ergone da terra, a forma di ragno, di baccelli, perfino gonfi e allungati come dirigibili Zeppellin, già arma volante dell’odiato e temuto nemico germanico. C’è in quelle scene, ben orchestrate dal regista Tom Hooper, uno scatto visionario che porta Il discorso del re oltre la sua piattezza, ma sono solo momenti. Peccato, la balbuzie di un sovrano nell’era dell’affermazione della radio e dei cinegiornali sarebbe stato un magnifico tema per un magnifico film se fosse diventato l’asse narrativo, e non solo il pretesto per la solita parabola dell’uomo svantaggiato che poi vince le sue paure e trionfa. Sì, certo, il film ci fa credere anche di essere altro, civetta con la trasgressione, per via di quegli eterodossi (ma poi neanche tanto) metodi terapeutici del brillante signor Lionel. Ma non basta far dire fuck you e bastardo-merda-bastardo a un principe per comunicarci qualcosa sulla paura e la fascinazione del potere e sulla complessità della comunicazione: ci vuole altro. Questi sono piccoli frisson per sorprendere il pubblico e meglio compiacerlo e sedurlo. Missione riuscita, visti i risultati. Che Il discorso del re sia fintamente trasgressivo e in realtà conformista lo si vede anche da come tratta l’abdicazione di Edoardo e la sua storia con Wallis Simpson, lui dipinto come un plagiato dalla furba e manipolatrice americana (quando muore il padre la sua unica preocupazione è Wallis, mica il regno di cui di lì a poco si dovrà assumere la responsabilità), lei come una viziosa arrampicatrice sociale che il suo re se lo giostra come una marionetta, una che lo tiene in pugno “con certe arti apprese in certi stabilimenti di Shanghai”, come ricorda perfida la futura cognata, la moglie di Bertie. Davide/Edoardo è spazzato via dal film con una violenza che lascia esterrefatti, e tutto gli viene rinfacciato, le presunte simpatie filohitleriane, la fatuità, il pensare solo a cavalli e champagne, e quella Wallis mascolina cresciuta in oscuri bordelli cinesi. Vero, le ricerche storiografiche questo hanno fatto emergere su di lui e su di lei, però in un film così privo di spigoli, così accomodante verso Buckingham Palace e il Palazzo tutto, sgomenta tanta acredine verso David/Edoardo. Un po’ più di pietas, senza cadere nel sentimentalismo, non avrebbe guastato.
D’altra parte il cinema inglese ci ha abituati da molto tempo a prodotti ambigui come questo, apparentemente anticonvenzionali e invece allineati, film in cui la convenzione gioca con l’anticonvenzionale e la trasgressione, ma assorbendoli e depotenziandoli. In The King’s Speech l’operazione sta nel cortocircuitare il massimo del formalismo e della convenzione sociale, un re d’Inghilterra addirittura, con un mondo a lui opposto e completamente estraneo di plebei immigrati dall’Australia, di sedicenti esperti dai metodi discutibili. Ma, a pensarci bene, quanti di ne abbiamo visti di film inglesi così? Intendo, basati su un analogo schema narrativo. Full Monty prende un gruppo di operai e li fa spogliare trasformandoli in stripper, in Irina Palm una nonna diventa addirittura masturbarice di mestiere in un peep-show, L’erba di Grace ci mostra una casalinga qualsiasi che per arrotondare coltiva marijuana. Si potrebbe continuare con gli esempi, tutti connotati da una normalità-ufficialità che entra in contatto con il rimosso, il probito. Il re balbuziente che dice le parolacce ripropone lo stesso formato narrativo-retorico, cortocircuitare gli opposti per ottenere la massima deflagrazione spettacolare, tanto poi tutto si sistema e rientra nei ranghi. Viene da chiedersi come mai proprio il cinema britannico si sia specializzato in questo particolare schema di racconto, quello del sublime, dell’armonico, o solo del normale, che viene contaminato-degradato dall’intrusione di ciò che sta in basso, dell’istintuale, riuscendo però sempre a sconfiggerlo, a depurarlo, a inglobarlo in sè. Mi viene in mente l’Inghilterra così com’è e come in fondo è sempre stata, divisa in classi e caste come nessun’altra società occidentale, con un’aristocrazia che continua a coltivare i propri cerimoniali e a marcare la propria separatezza, contrapposta a un popolo che spesso manifesta una carica plebea anche questa sconosciuta o quasi in altre società euroamericane (l’hooliganesimo della tifoseria calcistica, ecc.). Certi film forse riflettono questa dualità e cercano oscuramente di interpretarla, di rappresentarla e di ricomporla. Lo fa a meraviglia Il discorso del re, che contrappone e poi fa incontrare e collaborare due tipi sociali estremi e opposti, il sovrano da una parte e il signor nessuno, anche in odore di truffa, dall’altra, e il sospetto ciarlatano aiuta il re ad essere un re migliore. Però, sorry, forse da queste parti non siamo abbastanza inglesi per urlare al capolavoro.
(P.S.: nel film compare anche Claire Bloom nella parte della regina madre, madre cioè di Bertie/Giorgio VI, una bellissima signora che ancora conserva lo sguardo e i tratti gentili dell’attrice che incantò con Luci della città di Chaplin, con Tavole separate da Rattigan, con La spia che venne dal freddo di Martin Ritt, che fu anche accanto a Alberto Sordi in Il maestro di Vigevano di Elio Petri e che, non dimentichiamolo, è stata la moglie di Rod Steiger e di Philip Roth, sì, lui, lo scrittore).
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=S3vXVZundqQ&w=640&h=390]
Pingback: I film recensiti in questo blog | NUOVO CINEMA LOCATELLI
Pingback: I film recensiti in questo blog/2 | NUOVO CINEMA LOCATELLI
Pingback: Javier Bardem e Christian Bale: magri, magrissimi da Oscar | NUOVO CINEMA LOCATELLI
Pingback: ‘Black Swan’ trionfa agli Spirit Awards: foto & altro | NUOVO CINEMA LOCATELLI
Pingback: OSCAR live! Cronaca minuto per minuto | NUOVO CINEMA LOCATELLI
Pingback: I film recensiti in questo blog | NUOVO CINEMA LOCATELLI
Pingback: FILM STASERA IN TV: gli imperdibili 10 (lunedì 7 marzo 2011) | NUOVO CINEMA LOCATELLI
Pingback: MIDNIGHT IN PARIS: il nuovo Woody Allen sfonda a sorpresa al box office Usa | NUOVO CINEMA LOCATELLI