Recensione. UN GELIDO INVERNO, un bel thriller antropologico

Un gelido inverno (Winter’s Bone), regia di Debra Granik. Con Jennifer Lawrence, John Hawkes, Kevin Breznahan, Dale Dickey, Garret Dillahunt, Shelley Waggener. Usa 2010.

Jennifer Lawrence è Ree

Un Sundance movie (e difatti ha vinto al Sundance, oltre che al Torino Film Festival) di povera gente e di ambienti derelitti, eppure mai retorico. Ree, 17 anni e già la famiglia sulle spalle, parte alla ricerca del padre scomparso. Sembra all’inizio un docu antropologico sull’America più selvaggia e tribale e white trash, si rivela un avvincente thriller quasi chandleriano.

Al cinema è il momento dell’Edipo al femminile, anche detto, se ricordo ancora qualcosa dei sacri testi, complesso di Elettra. Se la ragazzina del Grinta affronta prove di ogni tipo per trovare l’assassino del padre e vederlo impiccato, Ree, l’altrettanto ragazzina (là quattordici anni, qui diciassette) protagonista di Un gelido inverno, si inoltra pure lei in una ricerca difficile e pericolosa per rintracciare dead or alive l’adorato ancorchè delinquente papà sparito senza lasciare tracce. Sì, vero, lo deve trovare in ogni modo per una faccenda di cauzione da lui versata per uscire di galera dov’era finito per fabbricazione di metanfetamine, cauzione pagata pignorando la casa dove abitano Ree con i due fratellini e la catatonica mamma, chiusa nel suo autismo di sofferenza e ormai persa al mondo. Che se Ree non lo rintraccia e lui continua a latitare e non si presenta al processo, la casa viene portata via nel giro di pochi giorni all’infelice famigliola. Infelice eccome, abitando in uno dei punti più desolati e squallidi dell’America intera, un posto da fogna chiamato Ozark collocato da qualche parte delle montagne-colline del basso Missouri, Mid West del peggiore, del più duro e povero, del più sporco, con gente che vive in catapecchie-fattorie con qualche vacca, cavallo e animale da cortile, e tetti di lamiera, stamberghe di legni marci e ferri arrugginiti, e qua e là carcasse di macchine, copertoni che bruciano, nebbie e fumi che provengono da paludi e antri fuligginosi o forse direttamente dall’inferno. L’inferno dei vivi, dove Ree ha avuto la disgrazia di venire al mondo, dove gli uomini o lavorano con le bestie e come bestie oppure si danno alla cocaina e alle metanfetamine, la piaga che ha sconvolto la zona, l’ha ulteriormente degradata e creato potenti clan di produttori-spacciatori.
Che ne è di papà Jessup? Perché si è eclissato senza una parola alla famiglia? Sarà ancora vivo da qualche parte, magari con un’altra donna o l’hanno fatto fuori per qualche misterioso motivo? Ree non lo cerca solo per evitare lo sfratto, ma perché di quel padre delinquente che li ha abbandonati lei ha una nostalgia ineliminabile, perché nonostante tutto lo ama e non può non amarlo. Ree, troppo grande per la sua età e con troppe responsabilità eppure ancora bambina edipica, Ree, che ha sulle spalle l’intera famiglia – la mamma che ha rinunciato a vivere, i due fratellini cui deve ogni giorno trovare da mangiare e che deve accudire, altrimenti glieli strappano e c’è già chi è in agguato pronto a portarli via e ad adottarli, Ree, che deve camuffare la sua bellezza sotto panni lerci e malandati e berrettacci, e non può permettersi di essere gradevole e gentile perché in quel posto di selvaggi è costretta a cavar fuori gli artigli, ecco, Ree non può fare altro che partire in cerca del padre, per una potente spinta interiore e per necessità di sopravvivenza. Ha pochi giorni per scovarlo, meno di una settimana prima che le confischino la casa e lei si ritrovi, in pieno inverno, buttata fuori, e i fratelli mandati chissà dove.
Un gelido inverno ha tutte le stigmate del Sundance movie, e difatti al Sundance 2010 ha vinto quale miglior film americano. Racconta di povera gente, quella lontana da Manhattan e Beverly Hills, la faccia triste dell’America che ha visto il suo sogno trasformarsi in incubo, che anzi nell’incubo ci è nata ed è sempre vissuta, e la racconta con il massimo del realismo, del naturalismo, in uno stile sporco, immediato e diretto che intende restituire la vita per quella che è, che anzi intende abolire ogni barriera tra vita e sua rappresentazione. Con attori che, anche se professionisti, devono rinunciare a ogni orpello per farsi gente, corpo, faccia qualunque. Uno stile ampiamente a rischio di maniera e retorica, ma che in Un gelido inverno paga. Il film di Debra Granik, cineasta dall’impeccabile curriculum indipendente come il canone Sundance esige, schiva ogni sospetto di compiacimento e comunica autentico dolore e disagio, e non suona mai come l’ennesimo esercizio voyeuristico sull’umanità stracciona. L’umanità white trash del film è osservata con lo sguardo distante e non partecipe dell’antropologo, ma anche senza disprezzo o facili moralismi. Ree è un personaggio vero, non una semplice funziona narrativa o una figurina al servizio del Discorso Politico di Denuncia, ci appassioniamo a lei e alla sua ricerca del padre, ha lo spessore di chi la vita la vive e riesce a comunicarcela.

La regista Debra Granik

Debra Granik ha anche l’accortezza e l’intelligenza di tenersi lontana da ogni facile populismo, i suoi poveri sono capaci di slanci solidali (la vicina che aiuta Lee e i suoi fratelli), ma anche delle peggiori nefandezze, e la povertà non rende necessariamente migliori, anzi è più probabile il contrario perché quando la torta è piccola e bisogna spartirsela in tanti non c’è posto per i buoni sentimenti. La gente di Un gelido inverno è spesso brutta, sporca e cattiva, e spazza via ogni facile illusione sulla naturale propensione al bene di chi sta ai gradini più bassi della scala sociale.
Un gelido inverno si presenta come un film neo-neo-realista, ci fa anzi credere di essere quasi un docu etnografico, o docufiction, sulle lande più sperdute e profonde dell’America, su una comunità colta nei suoi usi primitivi e tribali dove vige la legge darwiniana e belluina del più forte. In realtà, se ci avvince e ci appassiona e non ci annoia è perché dietro a quell’apparenza austera e senza bellurie e fronzoli c’è la struttura narrativa di un thriller, e di un solido thriller. La ricerca del padre da parte di Ree è una classica detection che la porta, secondo ben collaudate regole narrative di genere, in ambienti torbidi e sconosciuti, tra gente pericolosa fino alla scoperta dell’inevitabile verità. Winter’s Bone è Chandler nello squallore dell’America dimenticata da Dio e dagli uomini, e non tra i ricchi californiani. L’ambigua sospensione tra bene e male però è la stessa, l’opprimente senso di minaccia anche, pure qui c’è il boss malavitoso, anche se non è il gangster metropolitano ma un animalesco figuro circondato dalla sua tribù di sgherri, gente che non vorresti mai incontrare nella vita e donne-matriarche più crudeli e più aduse all’esercizio della violenza e dell’intimidazione del peggior galeotto. Ree verrà pestata, rischierà di essere uccisa perché nella sua ricerca di papà va a sollevare un verminaio che non poteva immaginarsi, interessi di cosche e famiglie legate al giro di cocaina e anfetamine. Puro Chandler, sì. Fino al climax, la sequenza notturna nella palude e quel braccio tirato fuori dalla melma, e non si può non ripensare alla scena conclusiva di Un tranquillo weekend di paura di John Boorman, con un altro braccio che affiora a rivelare tutta la turpitudine che era stata occultata. Del film di Boorman si riprendono, quasi in un omaggio citazionista, anche la crudeltà dell’America rurale, primitiva e separata dal mondo civilizzato, e il disincanto nei confronti della fiducia rousseauiana nella naturale bontà dell’essere umano.
Un gelido inverno convince perché, al di là delle apparenze da docu, è un film molto costruito e molto scritto, con uno storytelling impeccabile. Anche la fotografia, grazie alla camera Red, svolge un ruolo primario nella narrazione restituendoci un mondo di toni lividi, cieli sporchi, fango, fumo, paesaggi di cenere, ombre e buio. Gli attori non sembrano attori, inseguendo l’utopia neorealista della totale immersione nella vita. Se Jennifer Lawrence, bellissima ragazza come abbiamo visto sul red carpet degli Oscar, è coraggiosa e di sbalorditiva bravura spogliandosi di ogni glamour, altrettanto memorabile è la performance di John Hawkes, l’ossuto e tossico Teardrop unico sostegno di Ree nella sua detection. Scena da non dimenticare, quella con Ree che, alla disperata ricerca di soldi per salvare casa e famiglia, si presenta in un ufficio dell’esercito per arruolarsi. Non la spaventa andare in Iraq o Afghanistan, tanto lei l’inferno lo ha già conosciuto. La rimandano indietro, è ancora minorenne, ripassi l’anno dopo. La scena dura un paio di minuti sì e no, ma racconta molto di questa America.
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