Rosemary’s Baby
Capolavoro, ma davvero. Il miglior Polanski del periodo americano insieme ovviamente a Chinatown. Uno dei massimi film di paura mai girati, un thriller-horror che prende molto sul serio la presenza del Male e del Maligno nel nostro mondo, nella nostra modernità, stilisticamente sofisticato senza mai scadere nell’estetizzazione, e film che stabilisce un paradigma, un modello, che verrà da quel momento (1968) in poi applicato in centinaia di esperienze cinematografiche successive. Circondato anche da una fama sulfurea e assai dark: poco dopo l’uscita nei cinema di Rosemary’s baby qual pazzo di Manson e la sua banda avrebbero massacrato nella villa di Polanski a Bel Air la moglie Sharon Tate (incinta, come la Rosemary del film) e con lei un gruppo di amici. E il Dakota Building, dove il film è stato girato, sarebbe diventato anche, nel 1980, la location di uno degli assassinii più celebri del secondo Novecento, quello di John Lennon, che proprio lì abitava. Anche rivisto oggi, il film mette i brividi. La storia della povera Rosemary, una Mia Farrow così perfetta che non si sarebbe mai più liberata dal personaggio, ci incatena alla poltrona come allora. Si è appena sposata con Guy (John Cassavetes, sì, il regista), attore in cerca di fama e denaro, ma la cui carriera stenta a decollare. Una coppia di anziani e sinistri vicini (Ruth Gordom, fantastica, e Sidney Bleckmer), che poi scopriremo essere membri di una cosca satanica, gli propongono un patto scellerato: avrà il successo se permetterà che Rosemary rimanga incinta del Demonio, che non vede l’ora di reincarnarsi e tornare in questo mondo a compiere i suoi misfatti. Lo sventurato dice di sì. E accade quel che deve accadere. Rosemary circuita, tradita e venduta dal marito, espropriata del suo corpo, alienata, è un personaggio femminile indimenticabile, e Mia Farrow, con quelle occhiaie, quella fragilità, aderisce al personaggio fisicamente, quasi dolorosamente. Scena finale pazzesca: dura un lampo, una frazione di secondo (quegli occhi gialli), ma non te la togli più dalla mente. Polanski dimostra qui di essere un maestro del thriller, più europeo, più mitteleuropeo, più ambiguo e spietatamente moderno di Hitchcock, cui è pari per grandezza. Con lui tornano a Hollywood (dopo Fritz Lang, Billy Wilder, Siodmak, Ulmer, Preminger) le ombre e i terrori dell’Europa profonda, quella che ha generato i mostri del nazismo, che il maligno l’ha concepito e cullato e fatto diventare grande. Attenti alla scena del party: tra gli invitati compare anche la povera Staron Tate.
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