Recensione: LES GÉANTS di Bouli Lanners

I film visti nella rassegna ‘Cannes e dintorni’, Milano, 8-14 giugno 2011.

Les Géants
di Bouli Lanners, con Paul Bartel, Zacharie Chasseriaud, Marthe Keller, Martin Nissen. Belgio 2011.
Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes, il film del belga Bouli Lanners si è portato a casa due premi: immeritatamente. Trattasi di un classico racconto di formazione con tre ragazzini che molto ricordano i tanti adolescenti disagiati e senza famiglia dei Dardenne e un po’  I quattrocento colpi di Truffaut (e Stand by me). Ma, diversamente dai suoi modelli alti, Les Géants è un compito diligente che non decolla mai e non lascia tracce.

Inizio deludente della rassegna che meritoriamente porta a Milano i film (o almeno, una parte dei film) presentati in concorso a Cannes o in altre sezioni, principalmente nella Quinzaine des Réalisateurs. Questo Les Géants, ‘I giganti’, ha passaporto belga e col cinema dei massimi registi belgi, i fratelli Dardenne, ha affinità e parecchi debiti. Anche qui ci sono ragazzini soli e socialmente difficili, dei senza famiglia che si avventurano nella vita scontrandosi con la crudeltà del mondo adulto. Solo che il regista Bouli Lanners non ha la statura dei suoi maestri di riferimento, annacqua nel tedio la già tenue storia che racconta, non si decide tra dimensione iperrealista-naturalistica e ambizioni favolistico-espressioniste, è avaro di invenzioni narrative che sappiano interessarci e scuoterci dal torpore. I Dardenne, signori miei, sono di un’altra pasta, basta dare un’occhiata al loro appena uscito Il ragazzo con la bicicletta per capire la differenza rispetto ai pallidi epigoni come Bouli Lanners. Se in Les Géants nenanche per un momento riusciamo a interessarci alla storia dei due fratellini (e all’amico che si aggrega alle loro scorribande) mollati dalla madre, che sciaguratamente svendono la casa del nonno a un losco spacciatore e si ritrovano a dover sopravvivere senza tetto né legge in selve tenebrose e selvagge, e insediamenti umani ancora più ostili, con i fratelli Dardenne è altra storia. Alla premiatissima coppia (due Palme d’oro a Cannes e quest’anno il gran premio della giuria) bastano tre elementi narrativi scabri (un ragazzino abbandonato, una bicicletta cui lui è ossessivamente affezionato ripetutamente rubata e ritrovata, un padre fuggitivo che del rampollo non vuole sapere) per costruire una drammaturgia potente che ci avvince e trascina fino alla fine. Poi dicono i loro detrattori che quello dei Dardenne è cinema della sfiga e della noia. Mica vero, basta confrontare con questo molle e insipido Les Géants per capire che loro sono di un’altra categoria, ben al di sopra dei tanto narratori (anche un po’ voyeur) di vite derelitte che diligentemente li copiano e li clonano senza possedere però la scintilla del talento.

Il regista Bouli Lanners con i tre interpreti del suo film

Nel suo racconto di formazione Bouli Lanners cita e tiene d’occhio di tutto, mica solo i Dardenne, da Mark Twain con i suoi Tom Sawyer e Huckleberry Finn (quelle fughe sul fiume, tra i capanni abbandonati) fino al Truffaut dei Quattrocento colpi, senza mai brillare per originalità o per un sussulto purchessia. Tenta di far incontrare i fratelli Dardenne con i fratelli Grimm, trasformando la sua storia picaresca di ragazzini senza famiglia in una fiaba dark e gothic alla Hänsel e Gretel, sfiorando abissi di pericolo e abiezione. Ma anche su questo registro macabro-favolistico il regista manca di coraggio, e non ci consegna mai un momento palpitante, solo una sequenza di figure così esemplari e astratte e simboliche e archetipiche e immobili da sembrare uscite dalla Morfologia della fiaba di Propp o da una raccolta di miti (l’Infante abbandonato, i Piccoli Eroi, il Mostro Sadico, la Fata salvifica, che qui è una Marthe Keller luminosa e credibile che soccorre i tre, e ritrovata per la seconda volta al cinema in questi mesi dopo la sua riapparizione come Dottoressa Morte in Hereafter di Clint Eastwood, ed è sempre un piacere vederla).
Nel sottofinale qualcosa succede, scorre del sangue, ma neppure questo basta a far svoltare il film e a imprimergli la forza che non ha mai trovato. Ci si alza dalla poltrona annoiati e un po’ delusi, senza capire come a Cannes abbiano potuto assegnare a Les Géants ben due premi, l’Art Cinema award e il Prix SACD. Solo una cosa, una sola, rimane in testa: quando i tre piccoli balordi, riparati in un villa borghese deserta, si mettono della tintura per capelli e al risveglio si ritrovano biondi. E’ l’unico coup de théatre del film, il massimo dell’ironia e dello spiazzamento concessoci dal regista. Il resto è noia o, più elegantemente, déjà-vu.
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