L’orribile storia vera della povera Venere ottentotta che nel primo Ottocento fu esibita per via del suo smisurato sedere nei baracconi e nei più viziosi salotti d’Europa. Kéchiche, che con Cous Cous (e La schivata) ci aveva incantato, gira il suo Elephant Man, la sua Donna scimmia, e fallisce clamorosamente: dandoci un film ambizioso e mancato, predicatorio e rozzo, lugubre e risentito, interminabile e insopportabile. Con una protagonista completamente fuori parte.
Venere nera, regia di Abdellatif Kéchiche. Con Yahima Torres, Andre Jacobs, Olivier Gourmet, Elina Löwensohn. Francia 2010. Presentato a Venezia in concorso nel 2010.
Uno dei film più deludenti da parecchio tempo in qua, e uno dei più indigeribili. Il franco-tunisino Abdellatif Kéchiche si era dimostrato negli anni scorsi uno dei registi in ascesa del panorama europeo, azzeccando in rapida sequenza un film dopo l’altro, da Tutta colpa di Voltaire a La schivata arrivando a Cous Cous, che a Venezia 2007 aveva sfiorato il Leone d’oro ed era poi diventato un ottimo successo al box office in tutto il continente.
Vedendo invece questo torvo, livido, brutale, sgraziato, quasi inguardabile Venere nera vien da pensare che sia – e che ci sia – un altro Kéchiche rispetto a quello che nei film precedenti era riuscito meglio di chiunque altro a mettere in scena storie di immigrazione araba in Europa (in Francia, nella fattispecie) e complicati pur se minimi confronti tra civiltà nelle banlieu e nelle città mediterranee, e anche scontri tra nord e sud del mondo, in chiave di commedia, con una leggerezza profonda degna della grande commedia francese (e italiana), ma anche centroeuropea-americana alla Lubitsch e Wilder. Gli smaglianti dialoghi di Cous Cous e, soprattutto, della Schivata, il suo esito migliore, rivelavano, sotto l’apparente facilità da bozzetto etnico, una cultura sofisticata, un amore per i classici francesi, Marivaux in testa (che in La schivata viene recitato da un gruppo di ragazzi), e lasciavano presagire un successivo percorso d’autore parecchio interessante e personale.
Di quel Kéchiche, e di quei suoi film che muovevano dai bordi etnici per puntare al cuore del sistema cinema riuscendo a conquistarlo, qui non resta più niente. In Venere nera assistiamo a una delle operazioni più masochiste e autolesioniste che ci sia stato dato vedere al cinema, al tentato suicidio di un regista che mai avremmo sospettato capace di simili propositi autopunitivi. Kéchiche rinnega se stesso e la sua vocazione alla commedia quasi vergognandosene, e sceglie di girare una parabola dimostrativa, ultrapolitica fino alla militanza, brechtiana nel senso più teutonico e più ferrigno, in un film che è un j’accuse violento all’Europa, alla sua cultura, al suo colonialismo-razzismo, un film-manifesto duro, senza sfumature e alcuna complessità, semplificato fino al manicheismo, rigidamente e insopportabilmente ideologico. Abbandonando la levità di Cous Cous e buttando nella spazzatura l’amato Marivaux, va a ripescare la storia terribile e vera e assai paradigmatica ed eloquente (fin troppo) di quella che nel primo Ottocento passò alle cronache come la Venere ottentotta, una povera disgraziata che dal Sud Africa fu portata dal suo padrone-lenone, forse amante, a esibirsi come fenomeno da baraccone nei bassifondi londinesi, e da lì condotta da un altro e peggior lenone, a Parigi. A rendere oggetto di tanto voyeuristico interesse Saartjie Baartman, così si chiamava la poveretta, era il suo sontuoso sedere, enorme e sproporzionato rispetto alla sinuosità e all’armonia del resto del corpo, un particolare fisico che distingueva le donne della sua etnia di appartenenza, quella dei boscimani o ottentotti appunto. Le immagini d’epoca in cui appare sono perturbanti, mostrandoci una femminilità che travalica e svelle il canone occidentale di bellezza, che lo nega, che sfiora l’eccessivo e, per i nostri parametri, il mostruoso, e che pure riesce a imporsi come modello di fascinazione.
Saartjie fu portata in Europa nel 1810, a vedere le sue carni e il suo smisurato deretano accorsero folle schiamazzanti e sguaiate, ma anche scienziati ansiosi di scrutare le sue abnormità e di catalogarle. La sua folgorante parabola si consumò nel giro di pochi anni. Esposta nelle fiere e nei salotti privati come un esemplare ai confini tra l’umano e il subumano, attirò folle e suscitò turbamenti e lazzi, finì in un bordello e alla sua morte, nel 1817, fu fatta letteralmente a pezzi ed alcune parti di lei (i genitali smisurati e ricoperti da una peculiarità anatomica chiamata il gembiule delle ottentotte) esposte al Musée de l’Homme di Parigi quale trofeo di una scienza già avviata verso i trionfi e la hybris del positivismo.
La vicenda di Saartjie Baartman è terribile e grandiosa, racconta di cosa fu il rapporto tra Europa e Occidente verso l’Africa e il Sud del mondo, rivela l’etnocentrismo e il razzismo, è uno specchio che ci restituisce un passaggio cruciale del nostro mondo, della nostra cultura, della nostra civiltà e inciviltà. Non bastasse, c’è già nella parabola della Venere ottentotta il voyeurismo di massa e quello che diventerà, di lì a un secolo e mezzo, la società dello spettacolo potenziata dai media.
Non c’è bisogno di aggiungere niente, e difatti Kéchiche non aggiunge niente. Ma nemmeno toglie, nemmeno sottrae, purtroppo. Ricostruisce, ripropone, non trascura un dettaglio che è uno, ci racconta per tre interminabili ore ogni snodo della vicenda senza una messa tra parentesi, con una minuziosità ossessiva e pedante. Ho visto Venere nera nella sua versione originale e integrale, l’unica con l’imprimatur di Kéchice, così come fu presentata in concorso a Venezia l’anno scorso, e l’ultima mezz’ora son quasi collassato. Ha fatto bene la Lucky Red a distribuirlo in queste settimane scorciato di una ventina di minuti, cosa che pare abbia fatto imbestialire il regista, il quale non si è reso conto, in un attacco di egolatria, che da qualche taglio il suo film ha tutto da guadgnare. Ma anche questo fa capire come Kéchiche si sia inoltrato in un’impresa di cui ha finito col perdere il controllo, diventandone schiavo e forse vittima.
Non è la prima volta che il cinema affronta il tema dell’esibizione del diverso e, specularmente, del voyeurismo verso il mostruoso: da Freaks di Ted Browning fino a The Elephant Man di David Lynch passando per quel capolavoro che è La donna scimmia di Marco Ferreri. Ma in quei film c’era sempre il filtro dello stile, e una consapevole distanza, che è precisamente ciò che manca qui. Kéchiche si abbandona invece alla sua materia, ci si perde dentro, ci si confonde. Venere nera, ossessivamente, replica infinite volte (a un certo punto abbiamo perso, esausti, il conto) la stessa scena. Saartjee e il suo pubblico, Saartjie costretta a farsi guardare e poi toccare, Saartjie esposta e venduta dai suoi lenoni. Come ipnotizzato dallo spettacolo turpe che mette in scena, Kéchiche non riesce a staccarsene, lo ripete e lo moltiplica in versione man mano sempre più laida, sporca, brutale, lurida. Dal baraccone londinese degli inizi si finisce nei salotti pervertiti di Parigi e poi nei bordelli, e il corpo di Saartjie, sempre più manipolato, sempre più sfatto, precipita nel degrado fino alla malattia – la sifilide – e alla morte. Sicuramente il regista voleva così mostrarci tutti i vizi della colpevole Europa nei confronti dell’innocente Sud del mondo, ma finisce col restare invischiato nella sua materia narrativa rischiando di tramutarsi lui stesso in voyeur e sfruttatore della sua Vénus noire.
Kéchiche, come ci avevano mostrato i suoi film precedenti, è ottimo nel raccontare con ironia e grazia e tenerezza brani di vita qualunque, gente qualunque dalle piccole grandi storie. Ma qui, alle prese con una vicenda enorme che lo sovrasta, perde il controllo. Gira un film risentito e torvo, di un non europeo che vuole ricordarci tutta la perfidia di cui noi Europei siamo stati capaci e vuole farci sentire in colpa. Un film predicatorio e ricatattorio per il quale rinuncia alle sua notevoli qualità e che inevitabilmente si rivela disastroso. Sbaglia tutto per eccesso di ambizione e di ego, per la voglia di misurarsi con i Grandi Temi e i Grandi Discorsi, per non voler assecondare la sua vocazione di commediante e per la coazione a trasformarsi in predicatore e vendicatore dei torti. Non ha nemmeno l’occhio giusto nella scelta della sua protagonista, lui, che in Cous Cous e in La schivata non aveva sbagliato una faccia, un corpo, un gesto. Yahima Torres è completamente fuori parte. Ha quell’enormità nel sedere che caratterizzava la Venere ottentotta, ma non ne ha la sinuosità, perfino la grazia naturale e selvaggia così come traspare dai ritratti dell’epoca. È goffa, sgraziata, francamente non si capisce perché nel film la folla deliri per lei e i peggiori libertini se la contendano. L’interprete sbagliata per un’operazione già impervia di suo, e che diventa un ulteriore elemento di debolezza trascinando, scena dopo scena, il film nel baratro.
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