Recensione: HOMME AU BAIN di Christophe Honoré. Porno gay? No, fassbinderiano

Il film più privato e personale del regista di Les chansons d’amour (e di Les bien-aimés, che ha chiuso Cannes 2011). Homme au bain mette in scena una coppia gay sul bordo della crisi: lui e lui hanno altre storie, si tradiscono e fanno del male. E tutto ci viene mostrato. Sembra l’ennesimo film sull’impossibilità dell’amore oggi, è invece uno studio crudele sull’amore come dominio e possesso, gioco di carnefici e vittime. Qualcosa che al cinema non si vedeva dai tempi di Fassbinder. E per interpretarlo Honoré ha chiamato il pornogay-divo François Sagat. Scelta che sembrava un azzardo e si rivela invece vincente.

François Sagat è Emmanuel in ‘Homme au bain’


Homme au bain
, regia di Christophe Honoré. Con François Sagat, Chiara Mastroianni, Omar Ben Sellem, Dustin Segura-Suarez, Rabah Zahi, Dennis Cooper. Francia 2010. Presentato al Festival di Locarno 2010. Visto al Festival Mix 2011 (rassegna del cinema gay-lesbico) di Milano.

Sagat e Chiara Mastroianni

A 40 anni esatti, Christophe Honoré è, tra i registi francesi, uno dei più amati dai nouveaux critiques, e uno dei più consolidati, nonostante non abbia ancora ottenuto un decisivo successo di pubblico. I suoi film all’apparenza svagati e senza un progetto narrativo forte se non quello di pedinare i personaggi nei loro percorsi e nelle loro traiettorie, sono nella produzione parigina attuale quelli che meglio sanno riprendere l’esprit lontano della Nouvelle Vague aggiornandolo alla contemporaneità, alla sensibilità e anche al disincanto (cinismo?) odierni. L’immediatezza, la pretesa e anche l’abilità nel cogliere la realtà e il vivere nella loro immediatezza che furono dei primi Godard e Truffaut, le ritroviamo intatte in Honoré, come è rintracciabile in lui quel marivaudage, quel gioco di conversazione e piccole trame esistenziali che era di Rohmer. Il suo amore dichiarato e senza vergogna per la musica pop e le canzoni lo apparenta anche a Jacques Démy, di cui è davvero l’unico erede, il solo autore francese contemporaneo in grado di raccontare con musica e canzoni le cose e le persone. Les chansons d’amour, forse il suo titolo più famoso, un culto tra i venti-trentenni francesi, è un Démy degli anni Duemila, molto più amaro e cupo però di Les desmoiselles de Rochefort o Les parapluies de Cherbourg. Di quei suoi modelli Honoré non riesce però ad avere mai la leggiadria, la grazia, e nemmeno le illusioni se è per questo. Le sue storie sono minime, il suo stile e la sua voce rifuggono da ogni magniloquenza e epicità, la sua macchina da presa sta addosso ai protagonisti e difficilmente si allarga a qualcosa di più ampio e grandioso, esattamente come in Démy e in Rohmer, ma il miracolo della loro leggerezza non si ripete mai in lui: anche perché Honoré non rifugge (alla Warhol) dallo sgradevole, dal turpe, dal laido, dal lato sporco dell’esistere, che anzi rappresenta e registra fenomenologicamente, non senza voyeurismo. Lato oscuro e sgradevole spesso incarnato da erotismi e sessi lividi e cupi (il sesso, come le canzoni, è una delle costanti e ossessioni del cinema di Honoré), come ben si vede nel suo film più scandaloso e commercialmente fortunato, anche se il meno personale, Ma Mère con Isabelle Huppert e un incestuoso Philippe Garrel.
Autore semiclandestino in Italia – i suoi film non sono stati quasi mai distribuiti nelle sale – bisogna rincorrerlo e scovarlo in festival, rassegne, eventi speciali, le sole occasioni in cui vengano proiettati i suoi titoli-samizdat. Negli ultimi due anni sono riuscito fortunosamente a vedere qua e là Dans Paris, La belle personne (a mio parere il suo vertice), Ma Mère, Les chansons d’amour e Non ma fille tu n’iras pas danser e mi sono convinto di trovarmi di fronte a un autore di rispetto, uno che si eleva di molte misure sopra il gruppo. In attesa che arrivi in qualche modo in Italia, o almeno a Milano, il suo ultimo Les bien-aimés, commedia con musica presentato fuori concorso a chiusura dell’ultimo festival di Cannes (con la coppia madre-figlia Catherine Deneuve-Chiara Mastroianni anche canterine oltre che recitanti), sono almeno riuscito a beccare recentemente il suo penultimo, questo Homme au bain. Proiettato in prima mondiale in concorso al festival di Locarno l’agosto 2010, e rimasto ingiustamente senza premi, è approdato qualche settimana fa a Milano nel Festival Mix, vale a dire l’annuale rassegna cittadina di cinema gay-lesbico, ed è lì che l’ho visto, in mezzo a una platea che l’ha malamente accolto e che, delusa, alla fine non ha risparmiato fischi e buuh.

una scena

Honoré non ha mai nascosto di essere gay, nei suoi film amori e innamoramenti omosessuali non mancano mai, eppure il suo cinema non è mai di minoranza e identitario, è autore che se si tiene lontano dai codici e canoni e generi che spesso imprigionano il cinema gay, quello militante e quello esibizionista-pornografico. Anche se proprio qui, in Homme au bain, Honoré tenta un’operazione ai limiti dell’impossibile, raccontare una storia d’amore tra uomini utilizzando (anche) stili e modi propri del cinema pornogay, con innumerevoli e talvolta estenuanti scene di sesso esplicito, e per sottolineare l’azzardo, chiama a far da protagonista una star assoluta del porno gay, il francese (ma professionalmente americano) François Sagat, fisico possente e muscolare scolpito dal bodybuilding (e si spera solo da quello), una perfetta icona con i suoi deltoidi, bicipiti e addominali dell’immaginario erotico omosessaule. Diciamo che Honoré, che il sesso esplicito l’ha sempre messo nei suoi film, stavolta va parecchio in là fino a tentare un quasi-pornogay d’autore, dal porno mutuando non solo il suo interprete principale ma anche l’indifferenza con cui talvolta (non sempre) il sesso viene praticato dagli interpreti, e dal regista osservato e mostrato. Homme au bain si presenta allo spettatore come un film sporco e imperfetto, girato con camera a mano, inquadrature approssimative e volutamente incerte: quello che un tempo (e in tempi di altre categorie estetiche) si sarebbe detto filmino casalingo, un private movie girato per sè e pochi amici, e che pure Honoré ha deciso di presentare a un festival e far circolare. Quasi volesse esibire un pezzo di sè, mostrarci shakespearianamente e anzi shylockianamente una libbra della propria carne, del proprio cuore. Lo stesso co-protagonista del film, Omar, un trentenne che lavora nel cinema non si capisce se come regista o altro, è in tutta evidenza un alter ego di Honoré, un suo avatar neanche tanto camuffato.

sul set

La storia. Gennevilliers, banlieu piccolo-borghese di Parigi: Omar e Emmanuel sono una coppia omosessuale che vive insieme, ma è ormai logorata da misteriosa stanchezza, di cui ignoriamo i motivi ma vediamo gli effetti, soprattutto su Omar (sarà di origine magrebina? non lo sappiamo), che ormai vuol disfarsi dell’altro. Anche se questo altro, Emmanuel, ha il corpo e il sesso e la faccia di François Sagat e nessun gay al mondo se ne priverebbe (è uno dei motivi che rendono strano, anche inverosimile eppure affascinante il film). In partenza per New York dove presenzierà a una manifestazione cinematografica (è regista? deve presentare un suo film? non è molto chiaro), Omar dà l’ultimatum a Emmanuel: quando torno non ti voglio più vedere qui.
Subito incominciano i tradimenti reciproci, ma è meglio dire le scopate con altri. Omar a Manhattan, dove l’ha accompagnato un’amica attrice (Chiara Mastroianni, attrice-feticcio di Honoré), aggancia uno studente di cinema del Québec e se lo porta ripetutamente a letto (e niente ci viene risparmiato di quanto succede sopra e appena sotto le lenzuola). Anche Emmanuel a Parigi tradisce Omar, ma per lui è tutto più emotivamente complicato. Lui ama Omar, non ne sopporta il rifiuto, si butta in una storia dopo l’altra, in un letto dopo l’altro, ma non riesce a tirarsi fuori da quell’inamoramento, disegna il ritratto di Omar sulle pareti di casa, passa una notte con un ragazzo che molto assomiglia a lui, piange davanti al ritratto.
Honoré nelle note che accompagnano  il film dice di aver voluto raccontare la storia di due persone che pur amandosi non riescono a stare insieme e si feriscono e si umiliano a vicenda e si tradiscono per dimostrare a sé e all’altro il proprio non-amore. Il che suona assolutamente credibile e molto contemporaneo, e il suo film sembra davvero un referto di chirurgica esattezza sulla malattia emozionale di massa che sembra aver colpito qui e ora la nostra civiltà. Ma a me Homme au bain sembra altro, o almeno anche altro. Sembra soprattutto uno studio sull’amore come dominio. Sul rapporto a due come partita di potere con carnefici e vittime. I grandi melodrammi ci hanno mostrato infinite volte questa terribile asimmetria che spesso attraversa i rapporti amorosi. E qui la vittima è, nonostante le apparenze, e senza il minimo dubbio, il fisicamente possente Emmanuel. Emmanuel ama e piange per l’amato, ma non è riamato. Emmanuel è solo un povero ragazzo, e un ragazzo povero, che ha dalla sua solo l’arma del corpo e nient’altro, che grazie a quel corpo riesce ad avere una storia con Omar, socialmente superiore a lui, ma che da lui non riesce a farsi rispettare e amare, e che da lui viene rifiutato. Emmanuel è un povero corpo meraviglioso usato da tutti, e che si porta dietro questa maledizione esistenziale. Accolto nei letti ma mai davvero voluto, mai accettato. Intorno a lui si muove una folla di personaggi, i suoi amanti di una notte o di qualche notte, che se lo scopano e se ne fanno scopare come se fosse un oggetto da collezionare o un sex toy. Non sono degli altoborghesi, sono dei mezzi intellettuali arroganti incapaci però di vedere in Emmanuel qualcosa-qualcuno che vada oltre quel corpo, e ciò che quel corpo anima e muove, e rende umano. C’è una scena terribile in Homme au bain, tra le più crudeli e disturbanti che si siano viste di recente al cinema, e non è una scena di sesso esplicito. È quando Emmanuel, appena abbandonato da Omar e rimasto solo e senza soldi, sale dal vicino, un signore maturo dall’allure intellettuale, un esteta, uno straniero capitato in quella banlieu per chissà quali motivi (cameo dello scrittore-cult americano Dennis Cooper!). Vuole prostituirsi, Emmanuel, fare una marchetta. Si spoglia davanti al maturo signore, si esibisce in pose goffamente plastiche e statuarie per sedurlo, mette in mostra la sua merce. Ma l’altro rifiuta, con parole che restano dentro (al povero Emmanuel, e agli spettatori): Sei tropo goffo, sei kitsch, i tuoi muscoli sono ridicoli, venire a letto con te significa degradarsi, la bellezza e l’erotismo sono un’altra cosa. Io non ti voglio.

Sagat al Festival di Locarno

Vedendo quella scena, mi è venuto in mente il Fassbinder di Il diritto del più forte dove un povero proletario (interpretato dallo stesso Fassbinder, con il suo enorme corpo goffo e sgraziato) ascende a una classe sociale superiore diventando l’amante di un odioso riccastro, ma poi viene umiliato e rigettato da lui. Finirà molto male. Una parabola dura, molto anni Settanta e molto brechtiana, forse troppo didattica e dimostrativa per essere apprezzata dal pubblico medio ed escapista di oggi. Honoré, non so quanto consapevolmente, ha girato con Homme au bain un film finalmente fassbinderiano (altro che Almodovar), crudele e di disincantata lucidità sul sesso e sull’amore come veicoli di dominio privato e sociale, qualcosa che nel cinema si era perso appunto dagli anni Settanta. Il corpo di Sagat-Emmanuel è il corpo di chi sta socialmente in basso e si illude di usarlo come mezzo di ascesa e riscatto, senza rendersi conto che sarà proprio quello a impedirglielo, sarà proprio quella diversità fisica a condannarlo all’inferiorità. Genialmente, il regista ha chiamato un pornodivo. Solo con quel corpo così sfacciatamente perfetto dunque onirico dunque irrealistico poteva svolgere il suo teorema sulla crudeltà dell’amore, e renderci subito consapevoli anche visivamente della diversità, alterità di Emmanuel rispetto a coloro che lo circondano e lo manipolano. Omar è fisicamente un ragazzo come tanti, non particolarmente attraente, e così sono tutti coloro che si portano a letto Emmanuel nel corso del film (e sono tanti). Sagat quando appare sullo schermo occupa tutto lo spazio filmico, azzera e pietrifica chiunque intorno a sè, li schiaccia fisicamente, matericamente quasi, ma ne viene schiacciato emozionalmente. In fondo, Emmanuel è Sagat, e Sagat è Emmanuel. Una pornostar è un paria sociale, nonostante si finga talvolta il contrario (vedi il tentato e mai riuscito sdoganamento di Rocco Siffredi, per non parlare della povera Moana Pozzi), e nel film Sagat immette questo suo peso, e tutto il dolore che ne proviene. Nell’apparente meccanicità, nell’astratta perfezione, il suo corpo finisce invece con l’esprimere paradossalmente la sconfitta, l’umiliazione, la minorità sociale e individuale, e la faccia, la faccia di Sagat è di un’innocenza commovente e perfino straziante. Il film è lui, non per le sue qualità attoriali, ma per quel grumo di disagio esistenziale che si porta dietro insieme alla sua magnificenza fisica.
Vengono in mente, vedendolo sullo schermo usato e dileggiato da quei suoi arroganti compagni di letto, i poveri sottoproletari-borgatari pasoliniani, e quelli che sono oggi gli eredi in letteratura di quei borgatari, i culturisti che affollano le pagine dei romanzi di Walter Siti (che spero prima o poi riesca a vedere Homme au bain e ne scriva da qualche parte). Tutti vincenti nella carne e perdenti altrove. È questo a rendere grande il film di Honoré ed è forse per questo che a molti gay intervenuti al Festival Mix non è piaciuto. Si aspettavano la solita escursione nell’immaginario erotico con un trionfante Sagat, si sono ritrovati uno straziante melodramma di umiliazione e sconfitta.

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[youtube http://www.youtube.com/watch?v=FiX7_n74XE8&w=560&h=349]

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