Bowling a Columbine
Quando Michael Moore ancora era sopportabile e non aveva messo su un ego ipertrofico e non se la tirava da salvatore dell’umanità, tribuno della plebe, raddrizzatorti e quant’altro. Quando insomma anzichè dar lezioni su capitalismo, 11 settembre, sistema sanitario e via esagerando, faceva molto bene il suo lavoro di documentarista. Columbine è quel posto a casa di Dio (dalle parti di Denver, Colorado) nel cui liceo si consumò nel 1999 una di quelle stragi scolastiche che ogni tanto colpiscono l’America, e ormai non più solo quella. Due ragazzi irrompono nelle aule, uccidono a colpi di fucile 12 studenti e un insegnante, poi si ammazzano. Perché? Domanda a cui media ed esperti vari hanno cercato da allora (il fatto è del 1999) di dare una qualche risposta, senza però mai riuscire a penetrare e spiegare l’orrore. Michael Moore da regista già allora militante la sua risposta ce l’ha, netta: tutta colpa della libertà lasciata agli americani di comprarsi un’arma e di usarla, tutta colpa dell’assenza di ogni regolamentazione in materia. Discutibile. Però svolge il suo teorema con grande efficacia, perché Moore sa girare e soprattutto mostrare. E al di là del predicozzo ideologico resta l’agghiacciante ricostruzione dei fatti, e quella sì che è cinema-cinema.
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