Se dalle vostre parti lo danno ancora in qualche cinema, e finora ve lo siete perso, correte a vederlo. 13 assassini è un film di samurai come i grandi titoli di Kurosawa, ma con una consapevolezza della violenza che appartiene tutta al suo regista Takashi Miike. Il quale qui va oltre gli eccessi del suo passato e ci consegna un film di perfezione classica, tributo all’etica e all’estetica dei samurai.
13 assassini. Regia di Takashi Miike. Con Kôji Yakusho, Tsuyoshi Ihara, Takayuki Yamada. Giappone 2010. Presentato in prima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia 2010 (in concorso). Uscito nei cinema italiani il 24 giugno scorso.
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Il giapponese Takashi Miike, cineasta anarchico e irregolare con alla spalle una lunga scia di film cruenti, sorprende con questo 13 assassini sia i suoi cultori sia coloro che, come me, non erano finora tra i suoi fanatici supporter. Sorprende, perché il film è sì di sangue e di violenza belluina, ma adottando la forma del jidai geki – il tradizionale film storico di samurai che sta al cinema giapponese come il western a quello americano – attenua la proprie correnti aggressive planando verso i territori di un’armonica classicità (ma evitando la mollezza del manierismo).
Costruzione e sviluppi narrativi di questo Takashi Miike richiamano davvero – anche se può sembrare pura retorica dirlo, e un pigro luogo comune – i film maggiori di Akira Kurosawa degli anni Cinquanta, quelli che svelavano al pubblico d’Occidente il remoto mondo nipponico premoderno popolato di cavalieri erranti e delle loro spade vendicatrici e raddrizzatorti. Tutto in 13 assassini ha la solidità geometrica di quel cinema passato, che nemmeno i sovraccarichi di energia e tensione (le scene con il sadico shogun, la ferocia della battaglia nel villaggio-trappola) e di ironia (il personaggio del vagabondo del bosco) riescono a destrutturare. È come se Miike si fosse votato all’autodisciplina, facendo propria la dottrina samurai del controllo della propria aggressività e dell’autocontrollo emozionale, per mettersi al servizio di una causa, che non può che essere il bel cinema tout court.
Forse è questa identificazione profonda, palese anche se mai esplicitata, a rendere 13 assassini così personale pur nella sua devozione ai canoni del genere, così intenso e vibrante, onesto e anche commovente. Miike opera un transfert e diventa il protagonista del suo film, il saggio e maturo Shinzaemon Shimada che raduna un gruppo di samurai come lui, pronti anche alla morte pur di portare a termine la missione. Che poi è quella di uccidere per il bene collettivo il feudatario Naritsugu, sadico e depravato signorotto che terrorizza la contrada con i suoi esercizi di crudeltà (compreso il taglio di braccia, gambe e lingua a una incolpevole donna). L’obiettivo verrà raggiunto, attirando in un villaggio trasformato in gigantesca trappola il villain con il suo seguito. La battaglia che ne seguirà, con furiosi corpo a corpo di cui Miike naturalmente non ci risparmia alcun dettaglio raccapricciante (sennò non sarebbe più lui), porterà allo sterminio dei cattivi ma anche al sacrificio di gran parte degli eroici samurai, ed è questo che ci appare straordinario. Il film riesuma con la massima serietà, e con tutta l’aria di crederci senza riserve, l’etica oltre che l’estetica dei guerrierri del medioevo nipponico, recupera il loro codice d’onore, che prescrive di morire piuttosto che venir meno al proprio dovere e deflettere. Sotto i nostri occhi riprende vita un mondo che a noi, cinici consumatori della contemporaneità, appare sconosciuto e alieno, fatto com’è di uomini-uomini che non si vergognano della propria virilitas, che anzi ne vanno fieri, che non temono la morte e ne fanno un perno della propria esistenza, che antepongono a tutto, alla vita stessa, il proprio onore. Il regista disseppelisce e fa rivivere questo repertorio di valori dimenticati, quando non sbeffeggiati dall’occidente moderno e post-moderno del pensiero debole, della vita debole, delle non-certezze, della vita liquida. Qui tutto è solido e ferrigno, le spade e gli uomini, disposti a sbudellarsi ove necessario (e la necessità è: salvare il proprio onore) nella cerimonia del seppuku, il suicidio rituale che difatti vediamo praticare a un samurai a inizio del film, quasi a darne subito il segno (e seppuku che lo scrittore-esteta nostalgico del Giappone feudale Yukio Mishima adottò su se stesso, dopo averlo messo in scema in un suo film sublime e terribile, Patriotism).
Onore e sacrificio. Il sogno della bella morte in battaglia. Virilitas, ma anche pietas. Tutto questo un tempo sarebbe stato liquidato come paccottiglia nostalgica politicamente sospetta. Ma oggi? Davvero possiamo permetterci, nel nulla e nel nichilismo in cui siamo sprofondati, di disprezzare quei valori? Samurai del cinema, Takashi Miike ce li restituisce smaglianti e vitali, in un un film pressochè perfetto in cui le pulsioni violente e irregolari del suo cinema passato non si placano ma vengono imbrigliate in una forma potente che dà loro un senso. Forse i suoi cultori ne saranno infastiditi, io trovo invece che Miike abbia fatto un salto che lo colloca molto in su nel ranking dei cineasti di oggi. 13 assassini è un film indispensabile, forse il migliore di questa estate.
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