Locarno, 6 agosto
Let’s the bullets fly. Regia di Wen Jiang. Interpreti: Kun Chen, Yun Fat Chow, You Ge, Wen Jiang, Wu Jiang, Carina Lau, Fan Liao, Mo Zhang, Yun Zhou. Cina/Hong Kong (China) 2010. Sezione: Fuori concorso.Let’s the bullets fly è il più bel film finora visto a Locarno. Fuori concorso, purtroppo e ovviamente. Come si poteva mettere in competizione un film smisurato e davvero bigger than life che in Cina ha battuto ogni record di incasso per un prodotto nazionale e ha quasi eguagliato l’imprendibile Avatar? Colpisce in Let’s the bullets fly, come in moltissimo cinema che viene dal Far East, l’altissima spettacolarità, che ormai sta superando perfino gli standard hollywoodiani, però molto spesso combinata con una forte impronta autoriale, soprattutto nello stile, nella scrittura cinematografica (ed è l’eredità della grande scuola hongkonghese dei John Woo ecc.).
Questo non è uno wuxiapian, non ci sono acrobatici scontri di arti marziali, qui la gran quantità di violenza è sempre ritualizzata e stilizzata, però debitrice della tradizione e del cinema d’Occidente, soprattutto lo spaghetti western. La storia, complicatissima e ardua da seguire (i sottotitoli in inglese in negativo sono spesso invisibili e i dialoghi velocissimi non lasciano il tempo di leggerli), ha come cornice la Cina degli anni Venti, nell’anno nono dalla fine dell’Impero, in una Repubblica in cerca di identità e legittimazione, in un paese disorientato esposto a ogni vento e ogni violenza interna ed esterna. C’è un rifeudalizzazione, le città cadono nelle mani di locali signori della guerra con milizie private, boss che gestiscono affari pubblici e malaffari privati.
Un fuorilegge assalta un treno, finge di essere il governatore della regione, entra nella cosiddetta Città delle Oche dove imperversa il signorotto locale con i suoi sgherri e le sue crudeltà. Stringe con lui un’alleanza per mettere le mani su un carico d’argento, ma è un patto che entrambe le parti non vedono l’ora di infrangere per impossessarsi di tutto il malloppo. Inganni, controinganni, scambi di identità doppi e tripli, banditi che si travestono da guardiani della legge e ufficiali che si fingono banditi. Rovesciamenti e doppigiochi, e sangue sangue sangue. Le citazioni di Sergio Leone sono plurime ed esplicite, a partire dalla sequenza iniziale con la locomotiva (trainata da cavalli bianchi!) sbuffante nel nulla del deserto che viene dritta da C’era una volta il West. E il gioco d’astuzia del fuorilegge per mettere mani sulla ricchezza della città ricorda molto da vicino la strategia dello Straniero in Per un pugno di dollari. Quello che sbalordisce è che il fluviale racconto, due ore e più, è orchestrato e condotto come una musical in cui i dialoghi, i movimenti dei corpi, gli scoppi di violenza, gli spari, i rumori delle armi sono elementi di una partitura meticolosamente costruita che si tengono l’un l’altro. E la scrittura filmica, sontuosa, barocca, è la visualizzazione di questa partitura. Di una bellezza da togliere il fiato, ma anche spettacolo energetico, pulsante, avvincente e popolare al massimo grado. Capolavoro. L’applauso più lungo e convinto sentito finora a Locarno.