Questa classifica prende in considerazione solo i film della sezione Concorso internazionale, in corsa per il premio principale, il Pardo d’oro. Il festival si conclude il 13 agosto.
Le recensioni e le segnalazioni di film di altre sezioni su altre pagine di questo blog.
1) Low Life
2) Terri
3) Abrir puertas y ventanas (Aprire porte e finestre)
4) Dernière Séance
5) Another Earth
6) Onder ons
7) Crulic – Drumul Spre Dincolo
8) Hashoter
9) Din Dragoste Cu Cele Mai Bune Intentii (Best Intentions)
10) Un amour de jeunesse
11) Tokyo Koen (Tokyo Park)
12) Les Chants de Mandrin (Smugglers’ Songs)
13) Vol Spécial
14) Beirut Hotel
15) Sette opere di misericordia
16) El año del tigre
I COMMENTI
1) Low Life
di Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval (Francia).
L’ho adorato. Sì, lo so, è di quei film francesi di ambizioni smisurate e quasi mai realizzate, che puntano al Sublime e invece cadono spesso nel ridicolo. Ma questo cinema così radicale e autoriale, di una coppia di registi di cui non ho mai visto nulla fino a questo Low Life, merita nonostante la sua pretenziosità il massimo rispetto. Un film che qua e là il Sublime lo raggiunge davvero, che immerge quasi sempre nella notte i suoi personaggi pazzi d’amore ed ebbri di troppa vita come gli eroi romantici, come Rimbaud. Fanciulle folli e vibranti, poeti afghani che scrivono versi in persiano, sans-papiers che ricorrono allo sciamano, e altro, molto altro. Film, lo ripeto, dai molti limiti ma anche di altezze siderali. Non si può non amarlo.
2) Terri
di Azazel Jacobs (Stati Uniti).
Piccola grande commedia indie, con un ragazzo obeso osservato a sguardo asciutto e raccontato senza pietismi e sdilinquimenti politically correct. Terri si porta dietro la sua diversità (“siamo mostri”) senza troppe illusioni di riscatto perché sa come va il mondo. Ma non è un reietto: anche se va a scuola trasandato e in pigiama, Terri ha la sua dignità, una profonda vita interiore, è una brava persona, è saggio e solido. Grandissimo John C.
Reilly come preside mattoide.
3) Abrir puertas y ventanas (Aprire porte e finestre)
di Milagros Mumenthaler (Argentina).
Per i primi 40 minuti ti convinci di trovarti di fronte finalmente al Grande Film, a quel Santo Graal che tutti cercano a ogni festival, all’opera che fa gridare al miracolo, al capolavoro misconosciuto e finalmente portato alla luce. La 34enne regista argentina (con lungo soggiorno in Svizzera) Milagros Mumenthaler al suo primo lungometraggio folgora gli spettatori mettendo in scena tre sorelle per niente cecoviane in una Buenos Aires di anonimato piccolo-borghese. Sofia, Violeta e Marina non si sopportano, non perdono occasioni per ferirsi, umiliarsi, fare e farsi del male. Di loro non sappiamo niente, se non che la nonna è morta di infarto lasciandole sole. Ma i genitori? Buio assoluto. Un teatro della crudeltà tra salotto e camere (con letto dotato di meccanismo vibratore), vecchi televisori, vecchi computee, cose di buono e pessimo gusto. Uomini detestati e uomini desiderati (il vicino falegname). Soldi misteriosi che entrano, portati dalla sorella maggiore, vestita sempre troppo bene e troppo sexy e con telefonini sempre troppo nuovi per fare solo la studentessa di architettura. Mumenthaler ha il dono dell’ellisse, del sottinteso, non ci annoia con spieghe e fatti espliciti, semplicemente mostra, benissimo, il reticolo di relazioni crudeli che imprigiona le tre sorelle. Una se ne va senza salutare e senza nemmeno dire dove. La maggiore, Sofia, sospetta che Marina, così diversa fisicamente, sia stata adottata (un’allusione ai figli dei desaparecidos?). Ottimo cinema di perfidie e veleni (con anche qualcosa di Che fine ha fatto Baby Jane?), regia sicura e abilissima nel suggerire disagio e minaccia. Poi il film si blocca, si incarta, si ingorga, si ripete, si ammoscia, interrompe i già scarsi percorsi narrativi che sembrava fino a quel momento avere imboccato, si impiomba in un finale aperto e fintissimo abbastanza consolatorio che nega tutto quello che abbiamo visto fino a quel momento. Peccato. Per metà è un gran film. Se la regista avesse asciugato e tagliato une ventina di minuti, e ci avesse detto qualcosa di più delle ragazze e del loro passato, Aprire porte e finestre ci avrebbe guadagnato. Conunque, questa signora Milagros Mumenthaler è da tenere d’occhio.
4) Dernière Séance
di Laurent Achard (Francia)
Dopo tanti film che nun se possono proprio guarda’, come si dice dalle parti del Colosseo, eccone uno qui a Locarno finalmente costruito con una storia degna di questo nome e in grado di non scontentare lo spettatore che eventualmente dovesse staccare il biglietto. E scusate se è poco. Film di genere e di molti generi, questo Dernière Séance, ma sempre a modo suo. Dunque, in un cinema ormai prossimo alla definitiva chiusura (gli spettatori per i film d’essai, che son quelli proiettati lì, ormai latitano) dove si dà French CanCan di Jean Renoir, il proiezionista-cassiere-tuttofare Sylvain consuma le sue passioni estreme. Che sono da una parte la cinefilia, dall’altra l’uccisione di sconosciute con successivo stacco chirurgico di un orecchio. Un serial killer pazzo per le grandi dive del passato e ossessionato dal ricordo di mamma, due cose che naturalmente molto c’entrano con la sua mania omicida. Benissimo scritto, costruito e girato, il che è molto di questi tempi di altissime ambizioni e scarso mestiere. Dernière Séance, L’ultimo spettacolo, evita abilmente anche le secche della ripetitività, che è spesso il limite dei film con assassini seriali (per l’appunto). Anche piuttosto camp: quando in un film ci sono le foto di Bette Davis, Joan Crawford, Marlene Dietrich e Anna Magnani – e qui ci sono tutte, e molte altre ancora – il marchio camp non glielo toglie nessuno. Citazioni a valanga, ovviamente, da Psyco a Il fantasma del palcoscenico di De Palma a Goodbye Dragon Inn di Tsai Ming-Liang. Alla proiezione per i giornalisti non è piaciuto granchè, molti hanno storto il naso, niente applausi. Ma si sa, i film di genere ai festival, sacrari dell’arte filmica, non sono mai molto amati.
5) Another Earth
di Mike Cahill (Stati Uniti).
Al cinema van di moda il cosmo e i pianeti. Dopo i corpi celesti di The Tree of Life e il pianetone invasore di Melancholia di Lars Von Trier, arriva la Terra-bis di questo film americano. Lassù c’è un pianeta che è la copia esatta di questo nostro mondo qua, ci siamo noi, ci sono le nostre vite. Lo strano è che tutto questo si mescola (bene) a un film di disagio esistenziale, di colpa, dolore ed espiazione. Sci-fi più che umana, sulla scia di Tarkovsky e di Moon di Duncan Jones.
6) Onder ons
di Marco Van Geffen (Olanda)
Ewa si trasferisce dalla Polonia in una città olandese per fare la ragazza au pair. Finisce da una coppia con bambino che sotto la scorza dell’apparente tolleranza e civiltà e disponibilità nasconde un fondo di durezza (soprattutto lei). Ewa ci mette del suo per complicare la faccenda, non parla, a domanda non risponde, sembra sempre nascondere qualcosa. Non finirà bene, dovrà tornarsene in patria. La solita storia di piccoli conflitti quotidiani e abissi di incomprensione tra immigrati e europei del benessere vista decine di volte al cinema, e molte volte anche in questo festival di Locarno. A fare la differenza è però la struttura narrativa. Il regista olandese Marco Van Geffen, che sa girare con rigore e pulizia e un occhio partecipe e insieme distanziato, sceglie di mostrarci la storia di Ewa da tre diversi punti vista: quello della coppia che la ospita, quello dell’amica Aga, anche lei polacca, anche lei ragazza au pair, e quello della stessa Ewa. E ogni volta rivelandoci dettagli ed esplicitando sottintesi precedenti. Funziona piuttosto bene. Colpo di scena finale un po’ telefonato e anche assurdo la sua parte (ma Ewa non poteva banalmete avvisare Aga col cellulare? Chi ha visto o vedrà il film capirà cosa voglio dire).
7) Crulic – Drumul Spre Dincolo
di Anca Damian (Romania/Polonia).
Tra i favoriti al Pardo d’oro, applauditissimo alla proiezione stampa. Vita e martirio di un rumeno emigrato in Polonia finito in carcere con l’accusa di furto di carta di credito. Si proclama innocente, fornisce le prove, ma la malagiustizia e l’ottusità burocratica non danno scampo. Incomincia lo sciopero della fame che lo porterà alla morte. Ricostruzione di una storia vera che ha scosso la Romania. La novità è il ricorso da parte del regista all’animazione, che rende al meglio la clasustrofobia, il senso di minaccia, lo sgretolamento progressivo della dignità, la dissoluzione di corpo e psiche. Strepitosa la ricostruzione dell’infanzia sotto Ceausescu. Notevolissimo, con grandi invenzioni visive, ma con il limite di essere fin troppo didascalico e dimostrativo. E non tutti i fatti sono spiegati con chiarezza. Un Accattone ai tempi delle graphic novel. La voce narrante è quella del morto, come in Viale del tramonto di Billy Wilder.
8) Hashoter
di Nadav Lapid (Israele).
All’inizio sembra la versione israeliana di Poliss, il film di Maïwenne premiato a Cannes, con la storia e le storie di un tosto gruppo di poliziotti antiterrorismo. Poi il film vira in qualcos’altro, e di colpo entra in scena un gruppo anarco-rivoluzionario che prende in ostaggio durante un matrimonio alcuni oligarchi della nuova Israele per protestare contro l’ingiustizia sociale, la sempre più marcata differenza tra molto ricchi e molto poveri. Naturalmente capiamo subito che poliziotti e rivoluzionari entreranno in collisione. Film che il suo regista in conferenza stampa ha dichiarato essere militante: “Ha anticipato le proteste sociali che di lì a poco hanno scosso Israele”. Una sonda lanciata nelle contraddizioni di un paese che qui conosciamo poco e al quale guardiamo solo attraverso pigri stereotipi. Invece questo film ci dice parecchio, ci dice che la società israeliana è plurima, stratificata, per niente compatta, percorsa da conflitti e crepe, insomma parecchio più interessante di come la vulgata giornalistica ce la descrive. Non è l’aspetto militante e di impegno sociale a rendere bello il film, ma le sue pulsioni sotterranee, quei demoni quasi dostojevskiani che si agitano sotto l’apparente normalità.
9) Din Dragoste Cu Cele Mai Bune Intentii (Best Intentions)
di Adrian Sitar (Romania/Ungheria).
Un trentenne si precipita da Bucarest alla cittadina natia perché hanno ricoverato in ospedale la madre per una crisi cerebrale. Non è una cosa grave, la signora si rimette presto, ma il figliolo, apprensivo e assai edipico, non ne è per niente convinto, teme il peggio, vorrebbe portarla in un ospedale più attrezzato, tormenta medici e staff perché consentanao al trasbordo della paziente. Il film è girato meravigliosamente e con un’impronta stilistica forte (i personagfi sono quasi sempre ripresi frontalmente), il regista ha il dono alla Mike Leigh di cogliere la vita al naturale. Ma la storia no, quella non c’è, non si può tirare un’ora e quaranta minuti solo con le paranoia di un ragazzone preoccupato senza motivo per mammà. Non aspettatevi la solita Romania stracciona degli stereotipi, qui si respira un medio benessere e gli ospedali sembrano funzionare bene.
10) Un amour de jeunesse
di Mia Hansen-Løve (Francia/Germania).
Camille ha 15 ed è innamorata pazza del suo Sullivan: “Se mi lasci ti uccido e poi mi uccido”. Un amour fou piccolo piccolo, tra due ragazzetti che non fanno altro che rotolarsi tra le lenzuola. Lei è una mantide apparentemente inoffensiva che lo vuole sempre e solo per sè, lui non ci sta, si rende conto che c’è qualcosa di malato, scappa. Si ritrovano per caso qualche anno dopo. Lei sembra più assennata, sta con un professore-mentore che potrebbe essere suo padre, ma riprende clandestinamente la storia con Sullivan. La regista è quella del molto lodato Il padre dei miei figli, che qui impagina con eleganza molto parigina la sua storia un po’ alla Truffaut e un po’ alla Rohmer. Il film è flebile ma tremendamente chic, di quelli che tanto piacciono a Elle e Vogue France. Si dice anche che vincerà qualcosa qui a Locarno, anche se alla stampa non è piaciuto granchè.
11) Tokyo Koen (Tokyo Park)
di Shinji Aoyama (Giappone)
Parte come Blow-up: un ragazzo in un parco fotografa gli sconosciuti che gli passano davanti. Con tanto di camera (del regista Aoyama) che si alza a inquadrare lo stormire di fronde, esattamente come in una celebre inquadratura del capolavoro di Antonioni. Sembra un omaggio e un quasi remake, Tokyo Koen: poi però cambia tutto. Il ragazzo viene ingaggiato da un uomo misterioso perché segua e fotografi ogni giorno una donna con bambino al parco. A questo punto sembra che stia per incominciare un thriller alla Brian De Palma, invece no, il film non è nemmeno questo. Passa parecchio tempo (e ci annoiamo parecchio) prima di capire che si tratta del racconto di formazione del suddetto ragazzo, che di nome fa Koji, che si muove nella Tokyo contemporanea all’interno di una rete di rapporti complicati: una sorellastra che di sicuro lo ama, un fratello minore scontroso, una strana ragazza che piange il ragazzo perduto e innamorata dei film di zombie. E poi c’è la madre morta ma incombente. Un film esasperante, di minuzie e dialoghi qualunque che non riesce a interessare granchè. Invece poi, anche se un po’ tardi, Tokyo Koen decolla, o almeno ci si abitua, e un po’ ci si affeziona a Koji, un bravo ragazzo in cerca di sè. E Blow-up? Blow-up è un’altra cosa.
12) Les Chants de Mandrin (Smugglers’ Songs)
di Rabah Ameur-Zaïmeche (Francia)
Riccardo Freda da un materiale così avrebbe tratto un furibondo cappa e spada. Invece siamo in quel cinema di ambiente settecentesco che si attiene rigorosamente e con pedanteria alle ricerche storiografiche degli Annales, ai casi giudiziari studiati da Michel Foucault e alla lezione cinematografica del Rossellini di Louis XIV (e di Straub) senza però averne l’occhio assoluto. Insomma, c’è poco da divertirsi. Un gruppo di contrabbandieri negli ultimi anni dell’Ancien Régime, vive nel culto del capo Mandrin, giustiziato sulla ruota dai soldati di Sua Maestà. Ne portano avanti l’opera di contrabbando (sete dall’Oriente, armi, ma anche i libri scandalosi di Diderot e Voltaire) e ne ricordano le gesta facendo stampare clandestinamente la sua storia. Diventano eroi popolari, adorati dalla gente che già odia il re, mentre dragoni e gendarmi danno loro la caccia Tutto un sorvegliare e punire made in Foucault che però non basta a fare buon cinema, e abbastanza punitivo verso noi spettatori. L’unica sequenza con un minimo di azione è la liberazione di un compagno dalla fortezza in cui è prigioniero. Ma il resto è nobile noia. Poemi recitati per intero in tempo reale, musica con strumenti d’epoca. Il film è inerte, la storia non palpita mai. Si ripassasse il regista la Carmen di Bizet con i suoi contrabbandieri, loro sì molto divertenti.
13) Vol Spécial
di Fernand Melgar (Svizzera).
Mockumentary girato in un centro di permanenza temporanea del cantone di Vaud, uno di quei posti in cui blindano gli immigrati irregolari, o ritenuti tali dalle autorità, in attesa dell’epulsione: del volo speciale, appunto, che li riporterà al paese d’origine. Tutte le storie cui assistiamo sono vere, quelle dei detenuti e quelle di chi li sorveglia. Un film che si inserisce nell’ormai nutritissimo filone del cinema sui sans-papiers, da Welcome a Illégal. Questo ha il pregio della verità, di andare oltre certi facili schematismi: lo staff dei sorveglianti è umano, più che umano, riconosce e cerca di preservare la dignità dei detenuti. Ma non può cambiare la dura realtà dei fatti, che è quella dell’espulsione (e torna alla mente la tolleranza repressiva di marcusiana memoria). Un film nobile, che ha commosso e coinvolto stampa e pubblico (la ragazza inglese seduta accanto a me piangeva come una fontana). Anche un film necessario. Però manicheo e troppo simile nella sua politically correctness ai film sui migranti già visti. Il regista Malgar ha fatto sapere che girerà un sequel: andrà a ripescare i detenuti di Vol spécial dopo il rimpatrio forzato per raccontare le loro nuove vite.
14) Beirut Hotel
di Danielle Arbid (Libano/Francia).
Peccato, la storia prometteva moltissimo, ci si aspettava un grande film, e invece niente, delusione. Beirut, oggi: Zoha canta in un club, Mathieu è un avvocato francese in misteriosa missione tra Libano e Siria. Scatta tra i due un amore torrido che consumano nel chiuso di un albergo come i protagonisti del lontano Intimacy di Chéreau (l’attrice libanese che interpreta Zoha si chiama Darine Hamzé ed è di strepitosa sensualità, una di quelle bellezze mediterranee da togliere il fiato, anche se troppo polposa per i nostri anoressici canoni europei e di almeno un paio di taglie di troppo rispetto alle nostre dive). Intorno ai due si scatenano intrighi, doppigiochi, rapimenti, spie e controspie, loschi figuri che controllano e minacciano. È Beirut, bellezza, dove lo scontro di civiltà si fa sentire anche tra le lenzuola. Poteva essere il Casablanca dei giorni nostri, invece è un film sballato e mancato, con una regia che appiattisce tutto e incapace di cogliere ombre e ambiguità, e con due interpreti goffi e imbarazzanti. Peccato, peccato davvero.
15) Sette opere di misericordia
di Massimiliano De Serio, Gianluca De Serio (Italia/Romania)
Attesissimo. E come poteva eassere diversamente visto che si tratta dell’unico film italiano del Concorso internazionale in corsa per il Pardo d’oro? Invece, delusione enorme, anzi incazzatura. I due gemelli piemontesi De Serio, anni 31, hanno sì un buon curriculum di documentaristi e cortisti, ma qui sono al loro primo lungometraggio di finzione, e qualcuno avrebbe dovuto dirgli che raccontare una storia (una qualsiasi storia) è un’altra cosa, un altro mestiere e richiede altre abilità. In questo film dal titolo pretenziosissimo non si capisce niente. C’è un’immigrata moldava e c’è un anziano signore malmesso, che è un Roberto Herlitzka che da solo salva quel pochissimo che si può salvare del film, capace di recitare anche con le ciglia o le pieghe della pancia nuda (sì, perché i due gemelli lo mettono a nudo in una lunga sequenza). I due si incontrano, lei pensa di approfittarne. La ragazza, che si chiama Luminita ma forse no, ha bisogno di soldi, forse per comprare i documenti e l’identità di una straniera custodita all’obitorio. Ha un bambino, che forse è suo e forse no, forse gliel’hanno dato perché la recita della nuova identità sia più convincente. Forse forse forse. Perché i signori autori non si degnano di spiegarci niente e niente ci fanno capire lasciandoci al buio, forse (forse!) convinti che più si esagera in silenzi e non detto e mistero più ci si avvicina al Sublime. Si sa, in simili visioni alto-autoriali la trama è vista come un impiccio, una volgarità, roba ad uso di povere casalinghe disperate. Sette opere di misericordia è il frutto di questa visione anoressica e martirizzante del cinema. Sicchè sotto ai nostri occhi i personaggi si muovono e agiscono catatonici senza apparente motivo, in un vuoto narrativo che finisce col diventare anche vuoto di significato. Vediamo la ragazza che maltratta e lega il vecchio per rubargli i soldi, però misteriosamente il vecchio non sembra serbarle rancore, anzi diventa poi suo alleato quando si tratta di ritrovare il bambino rapito (ma perché?) da loschi figuri. Il tutto naturalmente immerso in una landa desolata di campi simil-rom, case fatiscenti, copertoni bruciati, ceffi orrendi. Come nei vecchi Godard anni Sessanta, quelli più militanti e brechtiani, il film è diviso in blocchi, introdotti da titoli che corrispondono alle opere di misericordia: Visitare gli infermi, Vestire gli ignudi, Dar da mangiare agli affamati, Seppellire i morti ecc. Qualche volta le sequenze che seguono i suddetti titoli c’entrano qualcosa, altre volto no. Il mostrare una badante che deruba il vecchio badato sembrava scelta non politically correct, significava ammettere che anche gli immigrati, svantaggiati socialmente, non sempre sono angeli, che la miseria materiale e la bontà non sempre vanno di pari passo. Ma i De Serio presto trasformano la loro Luminita in una martire e la sua storia in una via crucis, come vuole il paradigma dei film sui migranti. I modelli di riferimento sono evidenti: Olmi, Kieslowski, i Dardenne. Ma siamo molto lontani. Alla fine qui a Locarno spettatori e giornalisti erano esasperati. Qualcuno ha applaudito, ma anche al cinema si può essere vittime della sindrome di Stoccolma.
16) El año del tigre
di Sebastián Lelio (Cile)
Pensavamo ieri di aver sofferto tutto il soffribile con le opere di misericordia dei frateli De Serio, invece no, ci aspettava anche questo El año del tigre, provenienza Cile: paese che negli ultimi tempi ha dato qualcosa di buono al cinema, ad esempio Post Mortem di Pablo Larrain. In comune con quel film qui c’è solo la desolazione, il resto è un racconto anoressico, anzi un non-racconto che se all’inizio qualcosa promette, poi si inabissa irrimediabilmente. Il regista Lelio usa come location i luoghi della costa cilena colpiti l’anno scorso dal terremoto e dal successivo tsunami. Idea non male, ma buttata via. Un detenuto riesce a fuggire quando il terremoto fa crollare le mura del carcere, raggiunge casa ma la trova distrutta dallo tsunami, cerca inutilmente moglie e figlia, trova la madre morta. Incomincia un viaggio attraverso le rovine, tra incontri incongrui (una tigre) e pericolosi (un violento farmer). Siamo un po’ dalle parti del cinesurrealismo iberico-latinoamericano anni Sessanta, quello (terribile) per intenderci di Arrabal e Jodorowsky, un po’ da quelle del post-apocalittico alto e disadorno alla The Road. Ma poi non si va da nessuna parte. Ci fosse almeno uno stile potente, invece manco quello. Così, di nulla in nulla, si arriva spossati alla fine.
Nota: Fino a questo momenti sono stati presentati 16 film del Concorso internazionale, ne mancano 4. State connessi, la classifica verrà aggiornata con gli altri titoli.