L’estate di Giacomo. Regia di Alessandro Comodin. Interpreti: Giacomo Zulian, Stefania Comodin, Barbara Colombo. Italia/Francia/Belgio.
Vincitore al Festival di Locarno 2011 del Pardo d’oro Cineasti del Presente – Premio George Foundation.
Non se l’aspettava nessuno, nemmeno il suo regista Alessandro Comodin, che L’estate di Giacomo si pigliasse a Locarno il Pardo d’oro dei Cineasti del Presente, la seconda sezione competitiva per ordine di importanza dopo il Concorso internazionale (vedi Palmarès completo). Per il Pardino, come viene chiamato per distinguerlo dal maggiore, i favoriti erano altri, come il kazaco Sunny Days, l’argentino El Estudiante (che si è preso comunque il premio della giuria) e l’uzbeko-coreano Hanaan, durissimo racconto di un poliziotto (discendente dei coreani deportati da Stalin nel Centro Asia) che diventa eroinomane, che era il mio preferito. Invece, ha vinto l’italiano e oggi anche un po’ belga Comodin, friulano di origine, studi di cinema a Parigi e Bruxelles, approdato a questo anomala opera prima dopo una ricerca sulla sordità. In quell’occasione ha potuto conoscere Giacomo Zulian, un ragazzo sordastro cui un’operazione ha ridato in parte l’udito (ma che comunque non può mai separarsi dal suo apparecchio acustico), e che per usare la voce si è dovuto sottoporre a una lunga terapia rieducativa. Dall’incontro è nato il progetto di questo film, non più un docu, ma qualcosa che raccontasse in quel terrain vague (e anche sabbie mobili) che sta tra il docu e la fiction (mockumentary potrebbe essere la parola che più assomiglia all’operazione), il passaggio di Giacomo verso la vita adulta e il progressivo articolarsi di una sua vita affettiva. Racconto di formazione classico, con la relazione con il femminile a fare da rito di passaggio necessario, anche se per niente classico è il suo protagonista.
Alessandro Comodin segue, pedina, riprende Giacomo che interpreta se stesso, che anzi è se stesso, in una giornata d’estate in Friuli insieme a Stefania, sua amica d’infanzia. Si inoltrano in un bosco cercando di arrivare in riva al Tagliamento per farsi un bagno. Per venti implacabili minuti (non sto esagerando: li ho contati) la macchina da presa riprende i due di spalle che camminano tra sterpaglie, fango, acquitrini, fogliame, ortiche, sentieri interrotti, che si graffiano e scorticano gambe e piedi, si stancano, si fermano, litigano, ricominciano a camminare. In questo quasi unico piano sequenza (c’è solo uno stacco a interromperlo) abbiamo modo di conoscere Giacomo, di vedere come la sua disabilità influisca sul suo corpo e i suoi movimenti e il suo modo non del tutto coordinato di occupare lo spazio, di come la sua voce sia alterata, di come la sua percezione della realtà e delle persone possa essere diversa dalla nostra. Stefania pazientemente cerca di stabilire una comunicazione con lui, non si sottrae nemmeno quando Giacomo la insulta e quasi la aggredisce (“Brutta tr., cosa hai fatto, mi hai buttato il fango negli occhi, brutta tr.”).
Il film è lui, solo lui, Giacomo, con la sua voce rieducata e riconquistata faticosamente, e che risuona di altri suoni, cupi, come corrosi, Giacomo con la sua vitalità e la voglia, il bisogno, di conquistare lo spazio e il mondo e le donne e l’amore. Non è così simpatico, se la prende spesso con la povera e paziente Stefania. Arrivano al Tagliamento, fanno il bagno (“ma che bello, sembra l’Isola dei famosi”, dice lui), di sfiorano, si toccano, si ri-distanziano, giocano, tornano a casa, dove lui suona la batteria e si mette a cantare a modo suo una sua strana canzone. Vaga ancora con Stefania, la accarezza, la stringe, sembra che possa succedere qualcosa, non succede niente. Alla fine conosceremo quella che è stata la vera fidanzata di Giacomo, Barbara, anche lei sordastra, che gli indirizza un lungo messaggio d’amore. Stop. Fine.
Che film è mai questo? Cos’abbiamo visto? Un docu? Un docu-fiction? La natura ibrida di questa operazione di Comodin, la sua inclassificabilità, il suo mescolare e confondere i generi e i linguaggi, soprattutto il suo confondere realtà e rappresentazione, ecco, tutto questo non è solo cosa sua ma lo ritroviamo in molto cinema del presente e in molto di quello visto a Locarno (ad esempio nel film svizzero Vol spécial).
L’estate di Giacomo è piaciuto perché allo spettatore sembra di assistere a un pezzo di vita del suo protagonista, alla vita nel suo farsi, in uno stile che non può non ricordare i Dardenne, maestri assoluti e copiati ormai da legioni di giovani cineasti. Cinéma vérité, lo si sarebbe chiamato in altri tempi e in un altro cinema. Verità? Se fosse invece il suo opposto? Certo, Giacomo è Giacomo, Giacomo è se stesso (per quanto si possa essere se stessi davanti a una macchina da presa, e già questo), ma Stefania, che è poi Stefania Comodin, sorella del regista: bene, Stefania è se stessa o no? Quel lungo, progressivo avvicinarsi tra Giacomo e lei è vita o cinema? Io credo sia cinema, io credo che se nel film Giacomo è Giacomo, Stefania non è Stefania, Stefania recita la parte di Stefania. E questo rende di colpo fragile l’intera operazione, la delegittima, ne mina la credibilità, ne annienta anche le premesse teoriche. Non possiamo credere davvero a questa storia perché non possiamo credere a Stefania, non crediamo alla sua pazienza, a come accetta le aggressioni e gli insulti di Giacomo senza reagire, soprattutto senza fuggire da lui. Quella che vediamo non è un coppia, una delle due parti vive un pezzo della sua vita ma l’altra parte no, l’altra parte la sua vita la finge, la recita.
Certo, se ci abbandoniamo senza pensieri alla trappola che Comodin abilmente ci tende, il film incanta e commuove. La sequenza di Giacomo e Stefania che ballano il liscio nella balera del lunapark è meravigliosa. Ma il vero sta da un’altra parte, purtroppo non abita qui. Niente di male, basta saperlo. Nonostante l’ambiguità profonda dell’operazione, Comodin ha però dei meriti, innanzitutto quello di non annoiarci e di tenerci avvinti con due personaggi e il nulla intorno, segno che è uno che sa raccontare. Poi, quello di presentarci un diversamente abile (qualcuno mi suggerisca un’espressione meno goffa per favore) meno unidimensionale del solito, meno angelicato, uno che ha le sue durezze e la sua parte d’ombra.
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