Bronson.
Regia di Nicolas Winding Refn. Interpreti: Tom Hardy, Matt King, James Lance, Amanda Burton. UK, 2008. Adesso nei cinema (in qualche cinema) italiani.
Se lo danno dalle vostre parti correte a vederlo, anche lasciando spiagge e ombrelloni: ne vale la pena. Un prison-movie che non assomiglia a nessun altro visto prima. La storia vera, iper-vera, del detenuto più famoso e violento d’Inghilterra, 40 anni dietro le sbarre e una scia impressionante di violenze, reati e sangue. Il tutto messo in scena dal gran regista danese Nicolas Winding Refn come in un kabarett espressionista-weimariano, come in un sontuoso melodramma. Da vedere, vedere, vedere.
Che gran film. Film immenso. Distribuito vergognosamente solo adesso in Italia in qualche sala d’estate, tre anni dopo la sua uscita inglese, e dopo parecchi premi (ai festival di Londra e di Sydney). Temo che non l’avremmo visto, Bronson, se non in streaming e sistemi affini, nemmeno adesso, se nel frattempo il suo regista, il quarantenne danese Nicolas Winding Refn, non si fosse preso il mai così meritato premio per la regia all’ultimo festival di Cannes con il magnifico Drive. Il signor Refn, anche se snobbatissimo dalle nostre parti (festival di Torino a parte, che gli ha dedicato una personale), ha azzeccato tre clamorosi titoli di fila negli ultimi tre anni, tre film da vertigine, uno meglio dell’altro, Bronson per l’appunto, poi il conaniano-neopagano e anche un po’ wagneriano Valhalla Rising (andato a Venezia due anni fa, ma non in concorso come avrebbe meritato, e mai distribuito nelle nostre sale) e Drive. Tre film che fanno di Refn uno dei più puri talenti in circolazione, anche se poco amato dai critici nostri sempre in cerca dell’arte e dell’autorialità, e che non riescono, non ce la fanno proprio, a perdonare al danese il suo trafficare e maneggiare impavidamente con il cinema di genere, dall’action movie al fantastico al carcerario. Non bastasse, il signor Winding Refn (uno è il cognome della madre, l’altro di papà) è poi un metteur en scène della violenza, uno che della violenza fa l’oggetto peculiare della sua rappresentazione, uno che la violenza la glamourizza e estetizza ambiguamente, suscitando dunque il rigetto da parte delle anime belle e di tutto il coro politically correct. Ma Dio mio, come si fa a non riconoscere il suo enorme talento visivo, la muscolarità quasi belluina delle sue messinscena che travolge e ipnotizza lo spettatore, l’energia e nello stesso tempo la capacità di astrarre dalla materia bruta, e poi sublimarla in una cinema rarefatto di immagini perfette e abbaglianti. Refn gioca con la violenza e il sangue come pochi, ma è l’alchimista che da certi materiali spurii estrae il metallo perfetto. Si potrebbe continuare a parlare di lui e della sua visionarietà però così concreta e materica fatta di carne e sangue, diciamo solo che la Danimarca è paese fortunato ad avere tra i suoi cineasti Refn, oltre al sempre immenso Lars Von Trier (che, nonostante sia entrato in una fase di delirio acuto, ha ultimamente partorito un altro film formidabile, Melancholia) e una come Susanne Bier, regista mediocre però capace come pochi di fiutare il gusto medio-alto e di mettere a punto irresistibili film incassa-premi (il suo In un mondo migliore si è portato a casa quest’anno Golden Globe e Oscar come migliore film straniero, e scusate se è poco). Danimarca piccola potenza del cinema arthouse: magari li avessimo noi nella fascia generazionale tra i 40 e i 5o tre autori come Refn, Von Trier e la Bier.
Bronson, girato su commissione da Refn (e questo è un merito ulteriore per lui, visto come è riuscito a piegarlo a sè), è un prison movie in apparenza simile a molti altri già visti, e di sicuro il migliore del genere negli ultimi dieci anni insieme al magnifico Un prophète di Jacques Audiard. Carcerario e crime, che racconta a modo suo la vera storia del recluso più famoso d’Inghilterra, quel Michael Peterson entrato in prigione per rapina a mano armata nel 1974 e mai più uscito, se non per una breve parentesi di poco più di 60 giorni. Al reato iniziale Peterson, che ha assunto poi il nickname Bronson in omaggio a uno dei duri più duri dello schermo, ne ha man mano aggiunti altri, tutti consumati in carcere, dalla rivolta al tentato omicidio all’aggressione alla rissa. In tutto fanno quasi 4o anni dietro le sbarre. Un record, che ha trasformato Bronson-Peterson in personaggio a suo modo leggendario, un’icona delle frange più selvagge e turbolente della società inglese. Per raccontarne le gesta Refn rinuncia subito al neo-neorealismo minuziosamente descrittivo (che è invece la cifra stilistica di Un prophète) e imbocca la strada della rappresentazione espressionista spingendo forte sul grottesco, la deformazione, la visionarietà, e sulla spettacolarità della violenza bruta, naturalmente. È lo stesso Bronson a raccontarci, in siparietti molto brechtiani e didascalici, su un palcoscenico neanche tanto immaginario, la propria vita e relativi fatti e i misfatti. Si rivolge direttamente allo spettatore fornendogli lui stesso la chiave di interpretazione delle sue gesta: è la celebrità, la ricerca della fama, a muovere fin dall’inizio il ragazzo inglese Michael Peterson. Quello cui tende è diventare il detenuto più noto del paese, una leggenda, tutte le sue apparenti mattane e colpi di testa, quel suo prendere a pugni chiunque, sono volte a quello scopo, che verrà puntualmente raggiunto.
Ogni facile sociologismo, ogni giustificazionismo che riconduce la violenza dell’individuo a cause sociali e di deprivazione economica, viene fortunatamente spazzato via dal film di Refn. Peterson/Bronson nasce e cresce in una famiglia middle class assai perbene che, come usa dire, non gli fa mancare niente, non è dunque il prodotto di chissà quale triste emarginazione. Il suo primo colpo, quello alla banca con un fucile a canne mozze, lo fa semplicemente perché ne ha voglia e gli piace, per puro gusto dell’infrazione e dell’effrazione, forse anche per pura malvagità. E tutto quello che in seguito combinerà in carcere (rivolte devastanti, risse, combattimenti bestiali con detenuti e secondini) lo farà per usare la violenza come piedistallo del proprio mito, e (forse) anche per trasformare il proprio corpo, i propri muscoli, la propria animalità-belluinità in opera d’arte, in performance e esibizione dandistica, secondo un processo di estetizzazione della brutalità e della violenza, del sangue e della carne, non si sa quanto istintivo e inconsapevole, e quanto invece assai consapevole. A un certo punto della sua parabola Bronson scoprirà in carcere, attraverso l’intervento maieutico ma non disinteressato di un insegnante, di essere un artista dotato, di avere cioè una visione estetica del mondo e di saperla trasferire in lavori, in disegni, che immediatamente hanno successo e gli procurano fama fuori dal carcere.
Animale e artista, è questa la doppia natura di Bronson, o forse tra le due nature intercorrono più affinità di quanto non sembri, e alla fin fine sono riconducibili a una sola. Refn non ha paura di niente e si butta a capofitto in questa materia così rischiosa (l’estetizzazione della violenza ha sempre cupi richiami, anche politici) con la coscienza e incoscienza del proprio immenso talento. Tutto il film è una prova virtosistica di messinscena, come se Refn volesse rabbiosamente (la rabbia del protagonista è anche la sua) buttarci in faccia in ogni sequenza, in ogni inquadratura, la sua bravura. Questo eccesso, questa incapacità o non volontà di Refn di mettere sotto controllo il suo talento, è l’unico, vero limite di questa opera enorme e smisurata, gonfia di citazioni e amore per il cinema del passato, e esempio stupefacente di come si possa raccontare la storia mille volte raccontata di un prigioniero violento cavandone un oggetto cinematografico mai visto. I siparietti brechtiani, si diceva, con tanto di Bronson che abbatte la quarta parete tra sè e spettatori, e racconta-presenta la propria storia addobbato in frac e lustrini e faccia biaccata e clownesca secondo i dettami del kabarett weimariano anni Venti, e dell’Opera da tre soldi. Bronson è un po’ Mackie Messer e un po’ Arturo Ui, e naturalmente è ricalcato pure sul presentatore di Cabaret di Bob Fosse, film già allora (fine anni Sessanta) ipercitazionista eppur seminale come pochi. Ma nel vertiginoso gioco di Refn c’è dentro molto altro. Sergio Leone, ovvio, e il Kubrick di Arancia meccanica (le scene di violenza coreografata, il trucco di Bronson simile a quello di Alex), l’action hongkonghese e i B-movies italiani anni Settanta (in un’intervista rilasciata qualche anno fa in occasione del Festival di Torino il regista danese ha citato come suo cult Città violenta di Sergio Sollima: con Charles Bronson!). E ancora, a detta dello stesso Refn, il Kenneth Anger di Scorpio Rising, padre di tutto il cinema macho-gay. Bronson, come i successivi Valhalla Rising e Drive, è uno spettacolo abbagliante e sontuoso che fa leva soprattutto – inutile negarlo – sul fascino assai oscuro della violenza, spettacolo di luci e molte ombre caravaggesche (Refn dixit). Qualcosa di bello e minaccioso, e pericoloso. Vedere il cinema di Refn è anche gettare uno sguardo nell’abisso. Con tutto quello che di insostenibile ne può venire.
Citazione finale obbligatoria per il magnifico interprete di Bronson, Tom Hardy, che si produce in un perfomance fisica e attoriale impressionante. Si è massacrato in palestra per farsi i muscoli come il personaggio esigeva, e il risultato non è secondo a quello di De Niro/Jake La Motta. Dov’era prima di Bronson Tom Hardy? Come mai non è diventato famoso come meriterebbe? Perché non l’hanno candidato ai premi più importanti? Sì, l’abbiamo visto in un ruolo secondario anche in Inception, ma uno come lui deve avere di più.
(Scena memorabile del film, il ballo dei ricoverati nel manicomio criminale al ritmo di It’s a Sin dei Pet Shop Boys: il Marat/Sade di Peter Brook incontra l’estetica videomusicale anni Ottanta).
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