Uno dei big events della imminente Mostra del cinema: il 9 settembre Bernardo Bertolucci consegna il Leone alla carriera al coetaneo e quasi conterraneo Marco Bellocchio. Ma come, non erano rivali? Sì, forse: qualche decina di anni fa. Adesso è tempo di riconciliazione.
Chi ha ricordi cinefili che risalgono agli anni Sessanta sarà sobbalzato, apprendendo che a Venezia a consegnare il Leone d’oro alla carriera a Marco Bellocchio sarà Bernardo Bertolucci. Perché questa è una notizia. I due sono sempre stati rivali, o tali sono stati descritti, fin da quando si affacciarono al cinema, Bertolucci con La commare secca (’62) e subito dopo con Prima della rivoluzione (’64) e Marco Bellocchio con il suo clamoroso I pugni in tasca (’65). Così questa consegna del Leone (i dettagli al sito della Mostra) suona come un armistizio, anzi una riconciliazione, una riappacificazione definitiva. Bel gesto, da parte di Bertolucci, che proprio il maggio scorso ha ricevuto il suo premio alla carriera a Cannes, e adesso accetta di presenziare all’analogo riconoscimento veneziano al collega.
La rivalità, che nel piccolo universo del cinema engagé italiano di allora riproduceva ben più aspri e precedenti duelli in altri campi (Callas/Tebaldi, Coppi/Bartali), forse era presunta, forse i due non si detestavano per niente come invece si diceva. A fare da cassa di risonanza al dualismo Bellocchio-Bertolucci era certa stampa di sinistra assai radicale, incubatrice di fermenti teorici neomarxiani che molto avrebbero poi contato nell’imminente Sessantotto. Erano riviste come I quaderni piacentini, fondata e diretta da uno dei fratelli di Marco Bellocchio, Piergiorgio, e Ombre rosse, che era la filiazione cinefila dei Quaderni. Goffredo Fofi, critico cinematografico di quelle riviste, ha rievocato qualche anno fa in un pezzo lo scontro culturale che vedeva contrapposti i due B. del nuovo cinema italiano: “… c’era una certa rivalità tra Bellocchio e Bertolucci, i due giovani di maggior talento emersi nei primi anni Sessanta, dopo la “leva” di Olmi, De Seta, Pasolini, Taviani, Petri ecc. E in verità i loro due film, ‘I pugni in tasca’ e ‘Prima della rivoluzione’, tra loro diversissimi e più duro e aggressivo il primo, più sentimentale (nel senso buono, addiritura stendhaliano) ed elegante il secondo, fecero giustamente ‘epoca’…”.
I termini della questioni erano chiari. Bellocchio, con la sua rabbia antiborghese, il ribellismo sfacciato (il protagonista dei Pugni sterminava la famiglia disgustato dal suo conformismo), la carica iconoclasta ed eversiva, era più facilmente ascrivibile a quella cultura che di lì a poco avrebbe prodotto il Sessantotto e successivi e più o meno goffi tentativi rivoluzionari. Troppo morbido, invece, Bertolucci, troppo attratto da mollezze da melodramma e profumi proustiani per essere arruolato sulle barricate. In quel clima di grandi semplificazioni Bellocchio fu visto come il simbolo del cinema militante, Bertolucci come quello di un cinema opposto, languido e decadente e irrimediabilmente borghese (che allora era un insulto). A pensarci oggi, vien da ridere, ma quelli erano i tempi, quelle le passioni e le ideologie. Bertolucci provò anche lui a fare il suo film sessantottino e rivoluzionario, Partner, uno dei suoi più confusi e meno riusciti, un miscuglione indigeribile di hippismo frikkettone dai capelli lunghi, impegno pseudomarxiano-maoista, anticonsumismo, liberazione sessuale, sperimentazione teatrale (c’è anche il Living Theater!), con protagonista quell’icona che fu Pierre Clémenti. Proprio in Partner B. fa dire a un suo personaggio l’illuminante battuta “Di Piacenza l’Italia ne fa senza” (è sempre Fofi a segnalarlo nel suo pezzo), allusione molto trasparente al rivale Bellocchio che appunto da Piacenza arrivava (anzi, da Bobbio, sul preappennino). Tutto sembrava fatto apposta per contrapporre i due. Entrambi erano emersi nel cinema italiano nello stesso periodo, erano coetanei (Bellocchio è del novembre 1939, Bertolucci del marzo 1940), entrambi erano emiliani (l’uno di Bobbio, l’altro di Parma). Due maschi alfa che si contendono la supremazia nello stesso territorio, nella stessa nicchia ecologica. Non poteva che finire in duello.
Con il passare degli anni e dei decenni quella rivalità si è smussata, se ne sono dimenticati tutti, compresi probabilmente i diretti interessati. Però vicinanza no, non mi risulta che ce ne sia mai stata tra B. e B. Fino a questa clamorosa rimpatriata veneziana che vedrà il regista di Ultimo tango a Parigi e L’ultimo imperatore consegnare il Leone al coetaneo e conterraneo autore di Vincere e L’ora di religione. Sarà bello vederli vicini e sorridenti, ora che sono settantenni e con una carriera gloriosa alle spalle, e anche davanti (tutti e due sono all’opera con nuovi progetti). Due pezzi di storia del cinema.
Però, a tanto tempo di distanza da quella rivalità, si può anche tracciare un bilancio e vedere chi ha messo a segno i colpi migliori. Non ho mai particolarmente amato né l’uno né l’altro, nessuno dei due è tra i miei cineasti preferiti. Ma se debbo scegliere, scelgo Bertolucci. Con Il conformista, La strategia del ragno e qualche altro film (e con i nove Oscar per L’ultimo imperatore), ha parecchio inciso sul cinema mondiale del secondo Novecento. Non si può dire altrettanto di Marco Bellocchio, nonostante abbia girato grandi cose (Salto nel vuoto) e negli ultimi dieci anni abbia mostrato una nuova insospettata vitalità (con Buongiorno, notte, L’ora di religione e Vincere). È che è sempre rimasto il regista di I pugni in tasca, inchiodato a quel suo primo film, a tutt’oggi il suo più celebre, e il migliore.