Festival di Venezia 2011: recensione di ‘Mildred Pierce’

Kate Winslet e Guy Pearce

Mildred Pierce,
regia di Todd Haynes. Miniserie tv un 5 puntate prodotta dall’americana Hbo. Interpreti: Kate Winslet, Guy Pearce, Evan Rachel Wood, Melissa Leo. Proiettato fuori concorso a Venezia come omaggio a Todd Haynes, membro della giuria.

Todd Haynes, che con Lontano dal paradiso aveva messo a segno qualche anno fa proprio qui a Venezia il melodramma perfetto, riprova un’operazione simile (una donna protagonista dai molti guai, passioni sregolate, tensioni familiari, fortune e sfortune economiche) con questo Mildred Pierce, che già fu una delle migliori interpretazioni di Joan Crawford (Il romanzo di Mildred), che le procurò anche un meritatissimo Oscar, uno dei più luminosi anzi di tutta la storia del premio. Ma le affinità con Lontano dal paradiso sono tutte di superficie. Haynes che, conviene dirlo subito, raggiunge un risultato all’altezza delle sue cose migliori, rilegge filologicamente il romanzo di James Cain (quello del Postino suona sempre due volte) per trarne non un melodramma, ma una parabola esemplare su una donna, sulla condizione femminile negli Usa degli anni Trenta, sull’ascesa capitalistica e imprenditoriale, sui modi e i rapporti di produzione, sulle classi e il rango sociale, sugli indomabili spiriti animali di schumpeteriana memoria.
Lasciata dal marito con due figlie a carico, Mildred, nel momento più difficile del suo paese, la Grande Depressione, incomincia con determinazione feroce la sua ascesa economica e sociale. Lavorando come cameriera in un ristorante capisce che riempire la pancia della gente può essere un business. Apre un ristorante suo, ne apre un altro, e un altro ancora, fa i soldi. Ma il successo economico non va di pari passo con quello esistenziale. Si innamora di un ex ricco decaduto che si fa mantenerr da lei, perde una figlia, l’altra figlia, con smanie di ascesa sociale, disprezza quella madre che si è fatta grande friggendo polli, la odia, vorrebbe un’altra madre e un’altra vita. Secondo lo schema prima del feuilleton ottocentesco e poi del melodramma cinematografico, anche stavolta chi ha il denaro non può avere la felicità. Ma Todd Haynes qui non realizza un melodramma puro alla Sirk, non costruisce il suo film (o miniserie tv, se così la volte chiamare, però è cinema, puro cinema) attorno alle passioni e agli scontri psicologici, che pure ci sono, ma sul denaro, che è ciò che muove tutti i personaggi, determina le loro azioni, determina l’intero film, ne è il motore narrativo. Questo è un film profondamente marxiano, come non se ne vedevano più da anni, se non decenni. I rapporti sociali sono condizionati dal loro substrato economico, quelli personali riflettono e mascherano appena gli interessi economici, ogni conflitto, anche quello tra madre e figlia, tra Mildred e l’amante Monty, è conflitto di classe. Non so quanto Haynes l’abbia fatto consapevolmente, ma il risultato è una storia femminile che, attraversando più decenni, si fa parabola che racconta di povertà, sopravvivenza, ascesa sociale, successo economico, crisi e decadenza. Parabola verrebbe da dire brechtiana (Brecht, che si direbbe irrimediabilmente datato, è invece più attuale che mai, i suoi lavori vitalissimi, e anche il cinema sembra ispirarsi sempre di più a lui, vedi il Bronson di Winding Refn). In Mildred Pierce l’ascesa imprenditoriale (e la caduta) della protagonista è ritratta, anzi radiografata, con l’esattezza dell’analista sociale. Si fanno spesso i conti nel film, veniamo a sapere quanto costa un pollo, e come si può risparmiare nel cucinarlo e nel servirlo, e su come si possono alzare i margini di profitto, e quanto è importante la pubblicità, e come avere i finanziamenti dalle banche, e anche come ingannarle. Consulenti e contabili hanno una gran parte nella narrazione, con il loro know how assai materiale e concreto. I rapporti personali di Mildred sono intimante legati, anzi condizionati dal denaro. L’amore con il ricco e poi spiantato Monty è regolato dai soldi di lei e dallo status sociale di lui (“Sono un gigolò”, le rinfaccia lui, e ha perfettamente ragione). I rapporti con la figlia Veda, che sono l’altro asse su cui si costruisce il film insieme al racconto dell’ascesa di Mildred, affondano sì nel magma dell’inconscio famliare e edipico, ma hanno molto più a che fare con il rango sociale, lo status, che anche qui poi vuol dire denaro, denaro e ancora denaro.
Todd Haynes ha un approccio cauto, distanziato rispetto alla sua materia. non esagera nemmeno in formalismi ed estetismi di messinscena, grazie a Dio. Il camp della bella inquadratura e del film in costume zeffirellato ci viene risparmiato, e già questo è un grande risultato, e una scelta coraggiosa da parte di Haynes. Qui non si glamourizza niente. Il regista asciuga parecchio rispetto a Lontano dal paradiso, descrive e mostra, soprattutto. Non prende nemmeno le parti della sua protagonista, di nessuno dei personaggi. Osserva, e ci fa osservare. Kate Winslet risente forse di questa non partecipazione emotiva da parte del regista. Fornisce una prestazione impeccabile, e come potrebbe essere diversamente?, però non convince mai davvero. Non ha la durezza, il disincanto, non ha l’animalità necessaria per il ruolo di Mildred (animalità nel senso anche di “spiriti animali” schumpeteriani, ovviamente), è troppo aggraziata e ammodo, sempre. Non è all’altezza insomma della Joan Crawford di Il diario di Mildred che, lei sì, lasciava trasparire durezza e plebea capacità di stare a galla, di rialzarsi dal tappeto. Ma era Crawford, una che veniva dal nulla, e anche meno, una che aveva dovuto sottostare a tutto, divano del produttore compreso.

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