Dark Horse di Todd Solondz.
Con Justin Bartha, Selma Blair, Mia Farrow, Jordan Gelber, Donna Murphy, Christopher Walken. Presentato nella sezione Venezia 68, in concorso per il Leone d’oro.
Un Solondz che stavolta lascia perdere gli aspetti più duri e tosti dei suoi film precedenti (incesto, pedofilia, ecc.) e punta sulla commedia. Si ride, amaramente, ma si ride, con battute di stratosferica intelligenza. Poi però il film svolta, e Solondz ridiventa se stesso. Un film che sembra piccolo e minore, e che è invece un grande risultato.
Mentre stava preparando Dark Horse, Todd Solondz aveva detto in un’intervista che stavolta “there’s no child molestation, rape, or masturbation in it”, non ci sarebbero stati incesti, pedofilie, stupri, masturbazioni. Insomma tutte quelle cose che avevano inquietato pubblico e addetti ai lavori nei suoi precedenti, tostissimi e bellissimi Happiness e Life during Wartime (Perdona e dimentica). Dunque ci si aspetteva un Solondz versione light, più accessibile, più mainstream, meno allarmante, meno disagevole. E Dark Horse così sembra all’inizio: una commedia acida ma pur sempre commedia gobibile su un ragazzone ultratrentenne di nome Abe che non riesce a sciogliere i vincoli edipici con mamma e papà, soprattutto mamma, e continua a vivere da loro e a lavorare nell’azienda di famiglia. Ma Solondz è Solondz, e pur volendo evitare gli abissi amorali, le turpitudini, le deviazioni, non ce la fa proprio a realizzare una commedia qualunque, e finisce con il confezionare qualcosa che resta molto suo, inquietante e disturbante. All’uscita della proiezione ho sentito i commenti di alcuni jeunes critiques che sostenevano non essere questo un grande Solondz, tutt’alpiù un Solondz minore mediamente riuscito. Dissento. Anche se meno ambizioso e complesso dei suoi titoli maggiori, Dark Horse è bello, parecchio bello, anche molto divertente. Una storia, come sempre in S., di suburbia middle class con qualche aspirazione verso l’upper class, di famiglie sbalestrate e disfunzionali che dietro la felicità nascondono abissi di insoddisfazione e oscurità, puri inferni dei viventi, famiglie che anche stavolta appartengono alla cultura ebreo-americana di impronta yiddish (l’ebraismo è suggerito da accenni, dettagli: qualche kippà, discorsi sul bar-mitvah, un poster di Israele).
Lo shock incomincia subito per noi spettatori, quando vediamo una irriconoscibile Mia Farrow nella parte della yiddische mame, che ama e nello steso tempo blocca e inibisce con la sua morsa amorevole quel figliolone di Abe. Anche Mia purtroppo, come tante hollywodiane della sua generazione, ha la faccia deturpata da un lifting-killer, occhi e zigomi e mento che non si riconoscono più come suoi, e labbra ahinoi gonfiate e tirate. Un mascherone che Solondz deve aver scelto anche per il disagio che suscita non appena la si guarda. Il padre è invece un vitreo Christopher Walken, che sembra reggersi a malapena e che parla con un filo di voce, ma che quando entra in scena ti corre un brivido per la schiena da tanto è sinistro e silenziosamente minaccioso. Con due genitori così come volete che sia il povero Abe, un omone grande e grosso, buono come il pane, che viaggia con un Suv giallo canarino, un perdente nato, uno sfigato irrimediabile che ha sempre sofferto per il confronto con il fratello minore Richard, più bello di lui, più bravo, e di successo. Come teneramente gli rammenta mammina Mia: “In ogni famiglia c’è il successo e il fallimento. Ecco, Abe, tuo fratello è il successo, e tu sei il fallimento”. Rende l’idea di cos’è Dark Horse? Il buon Abe si innamora di una ragazza troppo bella per lui, Miranda, ma anche lei interrotta e devastata dentro (dipendenze da farmaci, tentati suicidi ecc.), in qualche modo si mettono insieme (“Pensavo che sarebbe stato molto peggio”, dice lei a lui dopo il primo cauto bacio). Ma siamo in un film di Solondz, dunque il casino incombe, e anche quell’inevitabile côté laido-sordido inscindibile dal solondzismo. Miranda confessa ad Abe di avere l’epatite B e forse di avergliela attaccata. Non dico altro. Dico solo che a questo punto il film svolta, e si ride decisamente meno. Però intanto ci siamo molto divertiti con battute di intelligenza stratosferica e dialoghi scambiati a velocità da raffica di kalasnikov, tutto di pura marca yiddish-americana con derivazione centroeuropea lubitschiana-wilderiana.
Diciamo che Solondz è un Woody Allen più estremo, più coraggioso, con più attributi, meno piacione e meno compiacente verso il pubblico medio. Però le assonanze ci sono, eccome. Miranda, con i suoi bovarismi intellettuali (“devo decidere se fare la scrittrice o sposarmi e mettere al mondo dei figli”), la nevrosi e il senso patologico di inadeguatezza, ricorda le figure femminili del primo e migliore Woody Allen, e Mia Farrow forse è stata perfidamente scelta da Solondz in quanto icona alleniana, ma in versione deturpata, anzi sfregiata dal bisturi estetico.
Un film, Dark Horse, che potrebbe anche vincere qualcosa da queste parti, Todd Solondz finalmente si meriterebbe un bel riconoscimento ufficiale. E non si parli di opera minore, per piacere. Abe, perseguitato dalla sfortuna, ricorda molto da vicino il protagonista altrettanto sfigato di A Serious Man, il più bel film dei fratelli Coen degli ultimi anni, e naturalmente ricorda la figura biblica di Giobbe. Tanta roba, per un film che sembra piccolo, ma che invece è di taglia superiore.
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