Venezia 2011. Recensione: ‘Life Without Principle’ di Johnnie To, la Cina colpisce ancora (altro che i nostri film)

Duo Mingjin (Dyut Ming Gam) (Life Without Principle) di Johnnie To. Con Ching Wan Lau, Ken Lo, Richie Ren.
Una giostra di vite nella frenesia (e nella bellezza ultramoderna) della Hong Kong contemporanea. Su tutto e tutti, l’avidità e la voglia di soldi. Mentre incombono lo scoppio della bolla finanziaria e il grande default globale.
È il quarto film cinese in concorso, includendo anche il taiwanese Warriors of the Rainbow, ed è un altro bel film. Tutti diversi tra loro per stile e cose raccontate, a dimostrazione della vitalità e della ricchezza raggiunta dal cinema di Pechino, Hong Kong e immediati dintorni (e se facciamo il confronto con i nostri tre film del concorso maggiore viene da piangere). Johnnie To, principe del noir e polar hongkonghese, qui tenta una strada meno solita, anche se non dimentica e non tradisce se stesso e il proprio cinema precedente. In una struttura narrativa alla Iñarritu-Arriaga, ormai un canone del cinema contemporaneo, assistiamo a più vite che si muovono in simultanea e/o su piani temporali sfasati nello stesso contesto, che qui è una Hong Kong di impressiva bellezza e potenza, fino a che si sfioreranno, collideranno, si ritroveranno, si incroceranno in un punto di incontro, scontro e anche di esplosione. Fin dal titolo, Vita senza principi, Johnnie To anticipa il filo che lega tutte quelle storie e avvolge la città intera e, per estensione, il nostro mondo contemporaneo, e che è l’avidità, la cupidigia, la voglia o il bisogno di denaro, il ricorso a ogni mezzo per raggiungerlo. Avidità che qui prende la forma della speculazione finanziaria, degli investimenti in borsa, anche online, o su prodotti fiananziari ad alto rischio. Nel remoto L’eclisse di Antonioni, primi anni Sessanta, la stessa compulsione al guadagno era mostrata attraverso la mamma della protagonista Monica Vitti (a interpretarla era Lilla Brignone), assatanata investitrice dei suoi risparmi nella minuscola borsa di Roma, neanche quella di Milano, poco più di uno stanzino, roba da ridere a confronto di quello che vediamo in Life without principle, dove schermi piazzati ovunque segnalano senza tregua e amplificano il su e giù delle quotazioni, dove basta un clic per spostare somme enormi da un titolo all’altro, da una piazza all’altra, dove negli algidi uffici delle banche e degli istituti finanziari si gioca d’azzardo peggio che a Las Vegas, però con i soldi degli altri, cioè dei (quasi) ignari risparmiatori.
La lunga sequenza della manager di banca che convince una pensionata ad acquistare un nuovo prodotto finanziario (un fondo di investimento sui paesi emergenti del Bric, Brasile, Russia, India, Cina) è esemplare e dovrebbero vedersela tutti quelli che hanno qualche euro da investire o l’hanno già fatto. Quindici minuti così implacabilmente didascalici da sembrare brechtiani e godardiani e che, se abbassano il ritmo e l’appeal spettacolare del film, gli danno anche peso, profondità, e un’intensità inaspettata.
Seguiamo altri pezzi di altre vite, un piccolo mafioso di nome Panther, un suo amico speculatore, un poliziotto alle prese con due omicidi, la moglie di lui a caccia di soldi e mutuo per prendersi l’appartamento che sogna, un ragazzo e una ragazza che vogliono derubare un usuraio, un boss incazzato duro con chi gli ha fatto perdere soldi in speculazioni sbagliate. Su tutto incombe lo spettro della crisi innescata dal default greco e dal debito pubblico di tutta Europa, siamo vicini allo scoppio della bolla, la gente trema, si precipita in banca a ritirare i risparmi, ma c’è chi ce la fa a guadagnare più soldi anche in simili momenti di massimo rischio. C’è un malloppo, che una volta tanto finirà nelle mani giuste. Money money money. La giostra del denaro posseduto, desiderato, guadagnato, perso, arraffato, rubato è incessante, in queste due ore di ottimo cinema. Johnnie To orchestra il suo coro e traccia il suo affresco con una sapienza tecnica sbalorditiva, non sbaglia un’inquadratura, il montaggio costruisce un flusso di immagini avvolgente. Soprattutto, To gira con una trasparenza, una pulizia che è raro vedere. Un occhio, il suo, da scienziato dell’immagine, della visione. Un cinema razionale, preciso e implacabile come una formula matematica. Il limite sta nel messaggio fin troppo trasparente, nella critica al denaro che rischia di suonare fin troppo ovvia, e di un moralismo da conversazione ferroviaria. Ma To conosce troppo bene le regole del cinema-spettacolo, e non cade mai nella trappola del predicatorio. Lui sa che per prima cosa un film deve piacere al pubblico, e anche stavolta la missione è compiuta.

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