Venezia 2011. Recensione: WILDE SALOME, Al Pacino mette in scena se stesso (e Oscar Wilde)

Wilde Salome di Al Pacino. Con Al Pacino, Jessica Chastain, Kevin Anderson. Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2011.

Pacino/Erode

Al Pacino filma la messinscena della Salome di Oscar Wilde dove lui è Erode, un Erode dall’incerta identità sessuale e oscuramente attratto dal Battista. Ma intanto l’attore di tanti film epocali mette in piazza anche qualcosa di sè e cerca di capire, e di spiegarci, la parabola di Wilde, protagonista del più celebre scandalo sessuale della Londra tardo Ottocento. Un film plurilivello e multistrato, in cui Pacino si autocelebra e dilaga, ma che è un po’ meno narcisista di quanto non ci si aspetti. Film che ha qualche pretesa di troppo, che non riesce a essere quella Grande Opera che vorrebbe, ma che resta un lavoro rispettabile, e onesto. Veder recitare Pacino poi è sempre un godimento.

Pacino con Jessica Chastain/Salome

Nei titoli di testa – qualcuno grazie a Dio ancora li mette belli chiari e non aspetta la fine del film per dirci chi siano regista e sceneggiatori – compare un Wild Salome che poi una e ulteriore e un po’ maliziosa trasforma in Wilde. In questo resoconto cinematografico (quanto fedele? ma in fondo, quanto importa la fedeltà?) della messinscena teatrale che a Los Angeles ha visto Al Pacino as Erode nella Salomé di Oscar Wilde – per il Battista figaccione non ha più l’età e nemmeno il fisico – effettivamente la ninfetta-ballerina del titolo si scatena in una performance molto wild e molto sexy, tutto uno sbattersi tra la modern dance più estrema e la tribal dance. Lei è Jessica Chastain, già mamma impersonificatrice della Grazia in The Tree of Life di Malick, rivista a Venezia anche quale poliziotta tosta in Texas Killing Fields di Ami Canaan Mann figlia di Michael, e qui torvamente erotica al punto giusto e anche un po’ di più quale Salomé, solo parecchio fuori età per fare ancora la lolita assatanata. Se è per questo, nel film son tutti in là con gli anni rispetto a come li aveva immaginati l’autore, dallo stesso Erode/Al Pacino a Erodiade al Battista del non più ragazzo Kevin Anderson. Cinema e teatro ormai riflettono l’innalzamento dell’età media in Occidente e le migliori aspettative di vita, impensabile oggi un Erode quarantenne debosciato. Così Pacino, dall’alto dei suoi 71 anni e di una carriera mirabolante, riesce benissimo a stare nella parte del re di Giudea (o tetrarca) che concesse la testa di Jokanaan il predicatore e sobillatore alla figlia della consorte Erodiade. Se nell’allestimento teatrale che vediamo prepararsi scena dopo scena, discussione dopo discussione, la regista è Estelle Parsons (qualcuno, ma bisogna averci l’età, se la ricorderà quale attrice premiata con tanto di Oscar in Bonnie & Clyde accanto a Warren Beatty e Faye Dunaway), il regista del film, che quell’allestimento ingloba affiancandolo e intersecandolo a molto altro materiale, è lo stesso Pacino. Che cos’è allora questa Wilde Salome? È il testo di Oscar Wilde, è la sua messinscena spoglia (niente scenografie, quasi solo un reading, un oratorio per ridare, come dice Pacino, alla parola la sua centralità), è la ripresa cinematografica di quella messinscena, è soprattutto Pacino che si mette in piazza mettendoci al corrente dei suoi entusiasmi e tormenti d’artista, di pezzi della sua vita privata (“ho accettato di fare questa Salome a Los Angeles per stare vicino ai miei figli più piccoli che vivono qui”), della sua passione per la figura di Wilde. Mentre si occupa di Salome Pacino resta folgorato dal suo autore e va all’inseguimento del dandy-commediografo-scrittore protagonista del più celebre scandalo della Londra tardo-ottocentesca, ci ripropone la storia del suo oltraggioso amore gay per l’imbelle efebo Bosie, del processo, della caduta nell’ignominia, della fine della sua vita familiare (i due figli cambieranno il cognome per la vergogna e per non farsi riconoscere come rampolli suoi), del suo esilio e della sua morte in solitudine a Parigi. Al Pacino sembra quasi identificarsi con quell’uomo che parrebbe così distante da lui, riproponendocelo con partecipazione e simpatia anche se, tuttosommato, non riuscendo mai ad andare oltre la volonterosa convenzionalità. Anche questo Wilde di cui Pacino ci racconta la storia è santificato quale icona della ribellione (anche social-socialista) contro la società vittoriana-edoardiana e precursore dell’emancipazionismo gay. L’attore insomma non va, non vuole o non ce la fa ad andare, oltre la vulgata politically correct, sicchè vediamo sfilare sullo schermo nomi famosi che dicono la loro sull’autore di Salomè, e sono opinioni illustri, anche acute, ma irrimediabilmente già sentite mille volte (intervengono Bono Vox, Gore Vidal, i commediografi Tom Stoppard e Tony Kushner, quello di Angels in America, e il nipote di Oscar Wilde). Ma quel che è interessante è come mai Pacino, paradigma del macho italoamericano da grande schermo degli ultimi decenni (dai vari Padrini al formidabile Scarface, che da allora ha ispirato lo stile di vita eccessivo e sgargiante di legioni di delinquenti veri in ogni parte del mondo) qui flirti così apertamente con la cultura omosessuale e la stessa omosessualità, interpretando un Erode che dire ambiguo è poco (“Al, come mai reciti Erode in questo modo così bisessuale?”, gli chiedono. E lui: “Non lo so, mi è venuto così”). Come se alla sua età, e al vertice di una carriera che gli ha dato tutto, volesse destrutturare e decostruire la sua stessa icona. Naturalmente, essendo quella star che è, sta bene attento a non eccedere nell’operazione, e a salvaguardare, eccome, il suo status e il nocciolo della sua immagine. Si decostruisce ma mica tanto, siamo pur sempre dalle parti di Hollywood. Anche quando il regista-attore ci fa vedere le reazioni più negative che positive del pubblico e dei critici all’austero allestimento di Salome, però lo fa con la civetteria del grande che può permettersi di esibire il fallimento (e lasciando intendere come lui sia nel giusto e siano gli altri a non capire). Pur rispettabile e gradevole e interessante, questo film è un piedestallo che Pacino si autocostruisce per il proprio monumento, è un’autocelebrazione, anche se più sottile e meno smaccato di quanto ci saremmo aspettati, è una narcisata, però con un certo stile e pudore. Wilde Salome non è un gran film, non è quell’opera introspettiva e quel mettersi a nudo che Pacino vorrebbe farci credere, non è nemmeno una rilettura molto innovativa del lavoro di Wilde, è una performance mattatoriale e la costruzione di una maschera, di un personaggio, come sempre nel lavoro di attore. Però resta un lavoro rispettabile, egoriferito ma non fastidioso, che ci mostra ancora una volta le eccelse qualità di Pacino (il monologo di Erode di fronte a Salomè che pretende la testa del Battista è un prevedibile ma godibilissimo saggio di recitazione) e ha il merito di rimettere in circolo un’opera perlopiù dimenticata e rimossa come quella di Oscar Wilde (però già Carmelo Bene aveva detto e mostrato la sua), cercando di ripulirla dai suoi orpelli liberty e consegnandocela nel suo nucleo istintuale, nella sua oscura potenza. Si eccede un po’ in grandguignol (i baci di Salome alla testa mozzata e sanguinolenta di Giovanni), ma è buonissimo spettacolo, tutto sommato. Al Pacino invecchia bene, meglio di Robert De Niro – per citare il suo antagonista di sempre – che gira filmacci alimentari, e che la sua redenzione ormai se la cerca extraschermo, foraggiando il Tribeca Festival o facendo il giurato (e bene) nei festival, come all’ultimo Cannes: come se avesse perso la fede nel suo lavoro d’attore. Al Pacino no, ce l’ha ancora quella fede, per nostra fortuna.

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