C’è chi li chiama diversamente lunghi, che in effetti suona più azzeccato e adeguato all’oggi del vecchio ‘corti’. Sentivo a Venezia una illustre critica, persona di squisita educazione che si lamentava, peraltro con gran garbo, dell’inflazione di corti o cosiddetti tali, che anche lì alla mostra, soprattutto nella sezione Orizzonti, la più cool, infarcivano la programmazione. “Non è possibile che prima del film che vuoi vedere ti ammanniscano un corto. Che poi molte volte è di 30-40 minuti, ma che corto è? Non li potrebbero togliere?”. 30-40 minuti: diversamente lunghi, appunto. Che poi a un festival tolgono tempo prezioso e spesso ti fanno saltare un altro film cui tieni di più.
I corti, bisogna avere il coraggio di dirlo chiaro e forte, sono ormai un flagello a tutte le rassegne di cinema, a tutti i festival. Te li infilano ovunque che ti piaccia o meno, e per vederti chessò un Soderbergh o un Visconti restaurato ti devi sorbire prima quale pedaggio la prova d’artista di interminabili venti minuti made in Italy o made in Kirghizistan. Lo so, lo so bene che i corti sono coolissimi e fichissimi e vanno tantissimo di moda e hanno acquisito nell’ultimo decennio uno status altissimo. Che i ggiovani (con doppia g) fanno la fila per vederseli per poi magarli recensirli su qualche blog di supernicchia. Che i festival e i concorsi appositamente dedicati proliferano. Che ci sono pure gli Oscar per gli shorts. Lo so che sono la palestra, la cantera, il laboratorio dei nuovi talenti, che grazie ai corti possono mettere a frutto le loro lezioni alle scuole di cinema assiduamente e diligentemente frequentate, e con un budget scarso produrre qualcosa da far vedere in giro. Che poi al giorno d’oggi non hai più bisogno neanche della distribuzione, metti su youtube o meglio ancora su vimeo e oplà, il tuo capolavoro lo possono vedere tutti (che poi lo vadano a vedere davvero è un’altra storia) e così la patente di autore con tanto di bollo non te la può togliere più nessuno. Certo, il massimo è presentare l’opera (l’operina) a qualche festival, specializzato o no, e prenderci un premio, però va bene tutto, la proiezione a tradimento prima durante e dopo in qualche rassegna, in qualche festival, in qualchecosa. L’importante è che giri, giri, giri.
Eppure, io i corti non li sopporto, lo so di andare in controtendenza, ma non ci posso fare niente. Mi sembrano sempre dei saggi di fine anno, rispecchiamenti narcistici, dei film in formato bonsai, come compressi, impediti nel loro naturale sviluppo, piccoli mostri insomma, come se il regista si esercitasse sul corto ma sempre tenendo di vista come obiettivo l’agognato e sognato lungo, quello che lo promuoverebbe tra i cineasti di serie A. Ecco, gli shorts spesso mi trasmettono l’ambizione frustrata del suo autore, un senso di vorrei ma non posso, raramente raccontano una storia che sia perfettamente adeguata a quella durata compressa. Negli ultimi tempi ne ho visti parecchi qua e là, e pochi, pochissimi mi sono rimasti in mente. Fose la mia mente è formattata da troppo tempo sulla ricezione di film lunghi e fatica ad adattari ai corti (l’Academy Motion Picture che assegna gli Oscar considera corti i film al di sotto dei 40 minuti). O forse i corti sono davvero mediamente molto meno interessanti dei lunghi, il filmato short non si presta a una narrazione distesa, a caratteri complicati, a una trama complessa.
Soprattutto, devo confessare la mia insofferenza per il corto animato, la combinazione più letale. Non li reggo. No, il corto animato no. La prossima volta che me ne ammanniscono uno scappo. Promesso.
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Una risposta a No, i corti no: voglio un festival o una rassegna di cinema senza