Fellini 8 e mezzo, Retequattro, ore 2,35.
Sì, lo so che lo danno a un’ora impossibile, però le visioni notturne hanno un loro fascino perverso e speciale, e poi ci si può sempre arrangiare con i vari videorecorder, My Sky e quant’altro. Sì, so anche che se uno è appena appena un po’ amante del cinema l’avrà già visto almeno (almeno) cinque volte nella sua vita. Però signori, questo è uno dei vertici del cinema di sempre, e mica solo italiano. Ancora ai primi posti nelle classifiche dei più grandi film della storia stilate dai vari critici e cinemaniaci di ogni parte del mondo, insieme a Citizen Kane di Orson Welles (oddìo, sempre che a votare sia gente non proprio giovanissima, chè le ultime e penultime generazioni cinefile tarantinizzate e pulpizzate e assatanate di B-movies, di Otto e mezzo non sanno che farsene). A Venezia lo scorso settembre l’iraniano della diaspora Amir Naderi, nel suo meraviglioso Cut (visto nella Sezione Orizzonti), disperata dichiarazione di amore per il cinema, lo metteva in seconda posizione tra i suoi film favoriti di ogni tempo, a conferma dell’inossidabile status di questo vertice felliniano. Che dire di un film così? Intendo, di un film totem che continua a influenzare cineasti di ogni risma e latitudine (anche se non producendo sempre delle buone cose)? L’ho rivisto qualche mese fa in tv, e devo dire che regge bene i suoi quasi 5o anni (è del 1963), a differenza dell’ultima stagione del suo autore, quella di Ginger & Fred, E la nave va ecc., oggi obsoleta parecchio. Infastidisce (come peraltro nel musical-remake Nine) il protagonista sfacciatamente alter ego di Fellini, un regista viziato e imbelle, di un narcisismo implacabile e insopportabile. Anche l’asse narrativo – costruito sul regista narciso che per noia, inettitudine, crisi di ispirazione fugge dal set e si rifugia alla terme a cullare le sue ossessioni e i suoi fantasmi – non è solidissimo e così interessante. Ma il coro intorno, quello delle sue molte donne, o della microfauna della Cinecittà-Hollywood sul Tevere, è fantastico, e ci si appassiona alla moglie tradita e dignitosa (Anouk Aimée), all’amante volgare ma di buon cuore (Sandra Milo, iconizzata da questo ruolo per sempre). Perfino i datatissimi salti nell’onirico e nel surreale riescono a non irritarci per la forza visionaria del loro autore, per la composizione barocca e sfrenata delle immagini (vogliamo parlare del colloquio nel bagno turco, tra i vapori da oltremondo, con il cardinale? o della celeberrima sequenza dell’harem con il protagonista-domatore? o dell’esibizione del mago-guitto nella stazione termale, probabile citazione di Mario e il mago di Thomas Mann? o della sarabanda finale, trascinante e di una bellezza che ancora ci commuove?). Insomma, un film che alchemicamente transustanzia anche il banale in qualcosa di sfavillante e sublime. Mastroianni è Mastroianni, cioè al massimo della sua seduttiva indolenza, che riesce a essere Fellini più di Fellini stesso. A crescere oggi, rispetto alla visione che se ne ebbe allora quando il film uscì, è Claudia Cardinale, di una bellezza perfetta, di una dolcezza e femminilità come non esistono più. Vedere e rivedere, amare e riamare.
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