Wim Wenders firma la sua cosa migliore da molto, molto tempo in qua con questo tributo a Pina Bausch, la grande tedesca che ha rivoluzionato con il suo Tanztheater il balletto (e il teatro) di fine Novecento. Si esce ammirati, e un po’ commossi. Non convince però l’uso del 3D, che se a volte aggiunge (ti dà l’impressione di assistere dal vivo alle coreografie della Bausch), in molte altre toglie (quel senso di artificiosità e meccanicità da opera dei pupi). E c’è anche dell’altro a non convincere, in questo Pina. Voto 6 e mezzo.
Pina 3D, un film di Wim Wenders per Pina Bausch. Con la compagnia del Wuppertal Tanztheater. In 3D.
Narra il sito ufficiale del film che Pina Bausch e Wim Wenders si conoscevano e frequentavano, con reciproca stima, fin dal 1985 e che lui, folgorato da una rappresentazione veneziana di Café Müller, aveva deciso fin da quei tempi di girare qualcosa su di lei. Progetto poi continuamente rimandato perché il regista non riusciva mai a trovare la chiave per restituire adeguatamente in cinema il teatro-danza di Pina. La folgorazione arrivò allorquando Wenders vide in 3D la ripresa di un concerto live degli U2, e 3D fu. Il progetto fu prontamente riesumato e rianimato con l’approvazione della Bausch, e l’accordo fu di riprendere con la nuova tecnologia (o meglio, vecchia ma assurta a nuova vita) parti di quattro spettacoli della coreografa-danzatrice tedesca, Café Müller in primis, quindi La Sagra dela primavera, Vollmond (Luna piena) e Kontakthof. Ma a due giorni dalla prima prova in 3D la Bausch inaspettatamente morì, era il 30 giugno 2009. Wenders pensò di abbandonare tutto, ma l’insistenza della compagnia di Pina, il Wuppertal Tanztheater, e gli appelli provenienti da altre parti, lo convinsero a riprendere in mano la macchina da presa.
Il risultato eccolo qui, è questo Pina, e al di là del racconto già mitologizzante che fa della sua genesi il Pina Official Website, va detto che come tributo a Pina Bausch funziona molto bene. A stravincere, nel e attraverso il film, è proprio lei, la danzatrice coreografa tedesca, il suo genio, la sua potenza, il suo essere davvero una sovversiva dei canoni della danza di fine Novecento. Wenders si mette grazie a Dio al servizio di lei e sembra dimenticare il proprio ego, e quanto vediamo è, se non un’antologia, una sorta di ‘best of Pina’ di massima utilità (anche se, mi pare, manchi uno dei suoi vertici, Nelken: chiederò lumi alla mia amica Silvia Bergero, affidabilissima pinologa, critica e spettatrice di molti dei suoi spettacoli). Si resta colpiti e sbalorditi da tanto talento al lavoro, quella della Bausch è veramente una frontiera mai raggiunta prima dalla danza, qualcosa che lei battezzò teatro-danza avendo abbattuto i confini tra i due linguaggi e avendoli mescolati e frullati. Il balletto in lei viene miracolosamente sottratto a ogni retorica e carineria e leziosità, spesso presenti anche nelle più estreme sperimentazioni contemporanee (la leziosità accompagna come una condanna, quasi fosse iscritta nel suo genoma, il balletto), e diventa vocabolario e lingua per scrivere e descrivere il disagio, il disarmonico, le fratture dell’esistenza, le alterazioni della percezione. Basta, la finisco qui con le dissertazioni in materia, non essendo nè un esperto e nemmeno un appassionato di balletto, epperò affascinato da quanto Bausch è riuscita a inventare e produrre, tanto che perfino io che la danza la detesto riesco ad amare lei, e sono riuscito ad amare questo film. Dove in ogni movimento dei danzatori, in ogni loro piegare le braccia e la testa e il corpo, nel loro appropriarsi dello spazio per poi come fuggirne, si vede il genio della signora Pina B. Da rimanere esterrefatti e ammirati. Quando poi appare in vecchi filmati lei, Pina herself, Pina in persona, si alza anche il tasso ci commozione. Oddio, quando vediamo la danzatrice che in Café Müller ha preso il posto della Bausch, e che impressiona per come la riproduce fin somaticamente (stessi capelli, stessa scheletrica magrezza, perfino il taglio del viso sembra uguale), ecco, quando la vediamo messa a confronto da Wenders con la vera Pina che appare su uno schermo, l’effetto è di quando Paolo Limiti nei suoi sciagurati pomeriggi su RaiDue mostrava la Manuela Villa che duettava grazie a non so quale tecno-diavoleria con il defunto papà Claudio in Granada, vale a dire qualcosa di profondamente camp e profondamente necrofilo. Ma allontaniamo il pensiero malevolo, e concentriamoci sulle cose buone di questo Pina, che sono tante. Wim Wenders, che da tempo immemorabile non azzeccava un film (io poi, che non sono un suo estimatore, non ho amato nemmeno Il cielo sopra Berlino e Paris, Texas e ritengo che il suo vero ultimo memorabile film sia Lo stato delle cose, anno 1982, con quell’Algarve mesto fuori stagione, il cameo del povero Paul Getty jr. con l’orecchio mozzato, il finale meraviglioso con la cinepresa impugnata come una pistola), stavolta mette il suo notevole occhio – questo non glielo si può negare, il dono di guardare alle cose e al paesaggio, e di catturarli con la mdp, lo ha sempre avuto – al servizio di una causa giusta. Che è, semplicemente, Pina Bausch. Azzecca soprattutto le riprese fuori teatro, quando sposta le danze nei paesaggi interni ed esterni alla città di Wuppertal, sede e hometown elettiva di Pina e della sua compagnia, la culla, anche il bozzolo protettivo, della sua avventura artistica. Soprattutto sono una bellezza le coreografie riprese sotto, dentro, lungo la Wuppertaler Schwebebahn, il trenino-funivia appeso a una monorotaia che percorre le città e i dintorni. Un’assoluta stravaganza tecnologica costruita nel 1901 da qualche visionario ingegnere che Wenders trasforma in perfetto scenario per il teatro-danza (e vien voglia di andare a Wuppertal anche solo per salirci, sul quel trenino sospeso sopra le teste, le strade, le case e perfino, per un tratto, sul fiume). Grande invenzione anche quella scena finale, con i ballerini che compaiono allineati sulla cresta di un monte, o forse è una cava, come gli indiani in agguato e pronti all’assalto di tanti western, o come nelle più belle scene di quel B-movie indimenticabile che è lo storico-avventuroso I cento cavalieri di Vittorio Cottafavi, anno 1964. Per dire, insomma, che Wenders ci mette parecchio del suo, e che il bello di questo Pina 3D non è solo merito di Bausch.
Allora tutto bene? Mica tanto. Qualcosa non funziona, e anche più di qualcosa. Il 3D, innanzitutto. Tutti a scrivere ed elogiare, e dire che finalmente il 3D con Pina fa il suo bel salto di qualità e, nelle mani di un autore di fascia alta come Wenders, si trasforma da meraviglia tecnologica in strumento espressivo. Dico io: e allora Avatar? e allora Le avventure di Tintin, dove Spielberg esplora le potenzialità del mezzo e si spinge fino ai confini di un’estetica nuova? Certo che stavolta il 3D fuoriesce dai film-giocattolo e viene piegato alle esigenze autoriali di un regista estraneo alle logiche da blockbuster. Lo strano è che, proprio in contemporanea a Wenders, al 3D è ricorso anche Werner Herzog, suo conterraneo e sodale nell’antica stagione del Nuovo Cinema Tedesco anni Settanta (ricordate? Kluge-Wenders-Herzog-Fassbinder più una qualche Von Trotta di passaggio), per il suo docu speleologico Cave of Forgotten Dreams. Però Herzog è sempre stato più portato all’avventura e all’esplorazione, anche linguistiche e tecnologiche, di Wenders, e la sua scelta stupisce meno. E in fatto di 3D d’autore è in arrivo anche il nuovo Scorsese, Hugo, mentre Bertolucci, che aveva pensato di girarci il suo Io e te, da Ammaniti, ha poi cambiato idea riconvertendosi alle tecniche di ripresa tradzionali. È che il 3D, diciamolo, resta qualcosa di ambiguo e irrisolto, mai davvero convincente, con sempre un vago retrogusto di bufala, di meraviglia baracconesca un po’ truffaldina. Sarà per il rito strambo degli occhialini, ma io non riesco a prenderlo sul serio fino in fondo, scusatemi, anche se sono pronto a ricredermi di fronte a prove convincenti e inoppugnabili. È che l’illusione della profondità data dal 3D mostra spesso la corda, ci vuol poco a capire e a vedere la fondamentale povertà della cosa, che insomma altro che tre dimensioni, sono solo molteplici piani piatti, piattisssimi, bidimensionali, sovrapposti l’uno all’altro. Che delle volte, se scosti un po’ la testa o i famigerati occhialini, quei piani li vedi nettamente staccati uno dall’altro come fogli trasparenti che non se ne stanno più incollati insieme. L’effetto del 3D è ancora di massima artificiosità, e in questo Pina a tratti purtroppo lo si vede assai chiaramente. Vero che la tridimensionalità (meglio, l’illusione della t.) aggiunge precchio alle scene di danza, e Wenders se ne serve per restituire a noi spettatori la senzazione di essere a teatro, di vedere in tempo reale lo spettacolo nel suo farsi e nel suo essere. Ci calca anche la mano, mettendo in primo piano addrittura le nuche di una fila o due di spettatori. Però, se i movimenti acquistano plasticità e profondità, è anche vero che i ballerini sembrano a volte pupazzi, figurine piatte ritagliate e immesse in una scenografia che non è la loro, esseri che si agitano incongruamente su fondali metafisici che sembrano non volerli ospitare e volerli respingere. Si percepisce troppo spesso che quanto vediamo è la somma, l’insieme, l’aggiunta di più scene sovrapposte, con sfondi e personaggi che vanno per conto proprio. Ancora: il 3D inevitabilmente cancella ogni sfumatura, traccia contorni netti intorno a cose e persone, li graficizza e stilizza, in qualche modo reifica e de-umanizza i personaggi secondo un effetto videogame. Tant’è vero che Spielberg, forse rendendosi conto del rischio, ha deciso già a priori, mettendo le mani avanti, di trasformare in Tintin con la perfomance capture gli attori in figure piatte animate, senza aspettare che fosse il 3D a farlo contro di lui. Invece in certe scene di Pina l’effetto pupazzo è irritante e imbarazzante. I ballerini vagano come marionette irrelate al contesto. L’estetica del 3D, che tende di suo alla piattezza e alla semplificazione, alla mancanza di ombre, cozza anche clamorosamente con quella della Bausch, che era, è, un’estetica lontana da ogni canonizzazione classica della bellezza, che presenta corpi talvolta imperfetti, scavati, pieni di rughe e anfratti bui, corpi muscolarmente potenti magari, ma sottratti alla tirannia dell’armonico ad ogni costo, dell’apollineità (si potrà dire?) coatta. La controprova è che la massima intensità la si raggiunge quando Pina Bausch appare, straziante, dolente, commovente, nei vecchi filmati. Così, quello che a prima vista sembra finalmente un uso alto del 3D, un suo riscatto autoriale, si trasforma progressivamente in uno scacco, in un limite estetico e anche narrativo.
L’altro limite è il tono agiografico, anche se sommesso. Intendiamoci, Wenders è un signore aduso ai salotti buoni del cinema alto, sa che l’etichetta impone che si evitino in questi casi sentimentalismi e smaccate monumentalizzazioni, sa che i toni vanno tenuti bassi e le fanfare bandite. Però, pur da signore chic con uso di mondo, il suo santino lo confeziona lo stesso, anche se sottilmente e con estrema eleganza. La figura di Pina Bausch è feticizzata a priori e incombe come una divinità su tutto il film. A rivelare la sottaciuta e silente agiografia dell’operazione sono gli interventi dei singoli ballerini del Wuppertal Tanztheater, collaboratori di lunga, lunghissima o recente data della scomparsa. Primi piani anche belli, anche intensi, di signore e signori di varie età che ricordano Pina la Grande con tono estatico: “Sentivo i suoi occhi che guardavano dentro di me e vedevano ciò che io stessa non avevo mai visto”. “Pina, aspetto che tu venga a trovarmi in sogno, intanto mi faccio raccontare come stai da Daphne che in sogno ti vede ogni notte”, “Avevo paura di lei, finchè Pina mi disse: ma perché mi temi?, e cambiò tutto”, “Mi disse, devi essere più pazza, più pazza…”. Ecco, è tutto così, mai non dico una critica ma nemmeno un resoconto razionale e distaccato di come lavorasse la Bausch, mai qualcosa che ce la documenti, solo emozioni emozioni emozioni, e la catena di testimonianze che man mano diventa recita di una liturgia devozionale, costruzione di una figura corconfusa di sacralità, messa in atto di un processo di canonizzazione. Pina santa subito. Che se lo merita anche, per carità, da quella grandissima che è stata. Però a me le liturgie devozionali degli adepti non piacciono, non sono mai piaciute, di qualunque devozione si tratti, religiosa, politica o artistica. Questa parte più agiografica però, a ben vedere, finisce con l’essere, in controluce, uno degli aspetti più interessanti del film di Wenders, anche se non penso proprio fosse nelle intenzioni del regista. Le testimonianze producono un’altra narrazione, una narrazione parallela, ci lasciano intuire quanto potente fosse il legame tra Bausch e la sua compagnia, come lei fosse una sciamana ed esercitasse un potere carismatico, di seduzione delle coscienze, anche senza volerlo. Una comunità mistica in cui Pina era il centro. Oltre a lei, non sembrano emergere individualità forti. Anche nelle coreografie mirabili e straordinarie hai l’impressione che i danzatori siano puri strumenti, oggetti nelle mani del genio-Bausch al lavoro. Ma forse è proprio così che nascono le grandi cose, ci vogliono i geni, e chi dei geni si fa strumento. Forse. Vien da pensare: che ne sarà dopo di lei? Ci sarà un erede? Sopravviverà la Bausch-danza alla scomparsa di chi l’ha creata? Il bauschismo si ossificherà in maniera e ortodossia, come accadde al Berliner Ensemble con il brechtismo dopo la scomparsa di Brecht? O ci sarà qualcuno che riuscirà a rivitalizzarlo, a reinventarlo davvero? Non mi vengono in mente paragoni nel teatro, ma solo nella moda. Ecco, ci sarà qualcuno che con il Wuppertal Tantztheater riuscirà a fare quello che Karl Lagerfeld ha fatto con la griffe e la maison Chanel?
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