Voglio la testa di Garcia di Sam Peckinpah (1974). Rai Movie, ore 0,40.
Me lo ricordo come il Sam Peckinpah più efferato, pensare che anche in Il mucchio selvaggio era andato giù duro, durissimo con i massacri. Ma qui il muscolare, sanguinolento regista americano, uno dei grandi irregolari della Hollywood tra anni Sessanta e Ottanta, un precursore di ogni pulp e ogni tarantinata, supera se stesso e realizza un prototipo di cinema estremo destinato a essere replicato un’infinità di volte. Peckinpah varca una soglia di violenza che prima nel cinema cosiddetto maggiore nessuno aveva mai osato oltrepassare, compiendo un’operazione di sfondamento dei tabù analoga a quella di Hitchcock in Psycho e Gli uccelli. Film apparentemente minore, in realtà Voglio la testa di Garcia è un titolo-spartiacque. Quella testa mozzata di Garcia trasportata per gran parte del film in un sacco e in una cesta, circondata da sciami di mosche fameliche, scarrozzata per le lande più desolate e tristi di un Mexico più che mai infelix da un ghignante Warren Oates, è una trucida invenzione horror che sembra già appartenere ai più macabri film di Robert Rodriguez. Un possidente messicano vuole la testa dell’uomo che ha messo incinta sua figlia, ed è disposto a pagare molto bene chi gliela porterà. Incomincia la caccia sadica, e a mettere le mani sul trofeo sarà il killer di professione Bennie (Warren Oates). Ma altri fiumi di sangue scorreranno, e ci sarà una carneficina finale in purissimo stile Peckinpah. Disturbante come sanno esserlo solo certi film degli anni Settanta, la decade in cui ogni freno inibitore fu fracassato, e in cui il cinema (e non solo il cinema) penetrò nelle zone più oscure.
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