Grazie zia, di Salvatore Samperi. Su Iris alle ore 23,45.
Seguono nella notte, sempre su Iris, altri tre film di Samperi: Cuore di mamma (h. 1,30); Casta e pura (h. 3,02); Vai alla grande (h. 4,31).
Strano, questo omaggio di Iris a Salvatore Samperi, un autore del nostro cinema che andrà pur riconsiderato, prima o poi. Strano perché va in onda in piena notte, e non si capisce a chi sia indirizzato, se non a quei quattro-cinemaniaci-quattro ammalati del cinema del regista padovano. Però omaggio non così sballato e immotivato perché Samperi, benchè espulso dalla nostra critica fin dai primi anni Settanta dall’olimpo degli autori di serie A, è un outsider, un irregolare che ha compiuto un tragitto di rilievo nel nostro cinema lasciando una traccia non debole, di volta in volta copiando ma soprattutto inventando generi (vedi Malizia), veleggiando tra cinema politico-engagé e B-movies. Quello che io preferisco è il primissimo S., il contestatore sessantottino che attacca i tabù borghesi e le belle famiglie con i loro ipocriti equilibri, il S. dunque di questo magnifico Grazie zia e poi, in rapida sequenza, di Cuore di mamma (1969) e Uccidete il vitello grasso e arrostitelo (1970). Non che oggi condivida quel cinema, quell’attacco un po’ scemo e di sicuro datatissimo e ridicolo alle presunte ignominie borghesi, e ancora meno condivido il belluino furore ideologico che animava quel tipo di critica cieca, sono però convinto che la trilogia samperiana ci restituisca come pochi altri film italiani, e non solo italiani, la temperie, il clima, gli sbandamenti di un periodo cruciale della nostra storia e delle nostre vite. Grazie zia esce nel 1968, è nel programma di Cannes di quell’anno, solo che il festival viene poi sospeso per la contestazione interna degli autori e attori e esterna dei manifestanti (e rimane indimenticabile quell’immagine di Geraldine Chaplin, in concorso con Peppermint Frappé di Carlos Saura, che chiude il sipario e fa saltare la proiezione decretando lo stop definitivo). Lo adorai, quando lo vidi, e mi parve straordinario. A rivederlo oggi mi pare meno straordinario, ma sempre importante. Rappresenta, Grazie zia, molto bene l’altra faccia del Sessantotto, che non fu solo manifestazioni e furibondi scontri tra studenti e polizia, e bandiere rosse e neo-veteromarxismi, ma anche frattura culturale, kulturkrieg, rupture nei comportamenti e nei valori. Anche messa sotto accusa della repressione sessuale e della ipocrisia familiar-borghese e affermazione di una nuova sessualità (nuova davvero?) libera e selvaggia oltre ogni tabù. Aspetto meno palesemente politico, ma che ha inciso nel profondo e avrebbe portato a quella deregolamentazione di massa dei comportamenti sessuali cui oggi assistiamo. Grazie zia è datato, ma di quel momento è un referto fedele. Vero, come si disse allora e si continua a scrivere, che Samperi prese molto dal di poco precedente e più rigoroso I pugni in tasca di Marco Bellocchio, a partire dall’interprete principale Lou Castel. Ma va giù molto più pesante con il sesso e il morboso, esplicitando e dilatando quello che in Bellocchio era accennato. Alvise (Lou Castel), figlio della ricca e provinciale borghesia veneta, è un ribelle anarcoide senza troppe cause, se non l’incazzatura e la rabbia contro i suoi, rabbie che l’hanno portato a chiamarsi fuori dal mondo (dal mondo degli odiati genitori) e a fingersi paraplegico. Si fa carico di lui la zia materna, Lea, che lo accoglie nella sua villa settecentesca sperando di restituirlo a una parvenza di normalità. Non sarà così. Il demoniaco ribelle avvilupperà la zia in un intrico di ricatti psicologici, la seduce, la attira nel proprio gorgo, la riduce a povera cosa nelle sua mani, la umilia. Ha un obiettivo in testa, e manipolando la zia e riducendola a sua schiava e suo strumento, riuscirà a raggiungerlo. Se la polemica antiborghese oggi è caduca e perfino insopportabile, resta, notevolissimo e ancora agghiacciante, il gioco carnefice-vittima, restano la partita crudele di sadismi e masochismi, la discesa negli abissi, l’inferno a due. Qualcosa che ricorda quel capolavoro che è Il servo di Losey su sceneggiatura di Harold Pinter. Forse non c’è molto di nuovo nel film di Samperi, però lui ha l’abilità e la furbizia di trasformare quei temi alti in spettacolo, anche – ebbene sì – calcando la mano sull’erotismo più plateale (e sull’afrore dell’incesto) a uso delle masse. Fu un successo clamoroso al box-office e lanciò alla grande Lisa Gastoni, la zia del titolo, sexy e dolente, carnale e spaurita, davvero magnifica e indimenticabile, in una di quelle interpretazioni che segnano una carriera e una vita. Gastoni con questo film è entrata nell’immaginario italico e non ci è più uscita, installandosi come una delle donne più belle che abbiano solcato i nostri schermi, insieme a Lucia Bosè, Silvana Mangano e poche altre.
Degli altri film di Samperi che seguono, il più interessante è Cuore di mamma, un attacco alle ipocrisie della famiglia borghese ancora più radicale di Grazie zia. Ma non ottenne lo stesso successo, non poteva ottenerlo. Ma un’occhiata (e anche più) se la merita, eccome.
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