Uno dei film che compongono la tetralogia del regista russo sul potere, insieme a Moloch, Il sole e il Faust vincitore a Venezia. Stavolta si racconta di Lenin nella fase ultima della sua vita, malato e pigioniero in una villa che sa già di mausoleo. Ma Sokurov lascia la Storia fuori dalla porta, preferisce presentarci Lenin come un uomo, anzi un piccolo uomo qualunque alle prese con la malattia. Operazione discutibile, che manca il suo bersaglio.
Taurus, di Alexander Sokurov. Con Leonid Mozgovoy (Vladimir Lenin), Mariya Kuznetsova (Krupskaya, la moglie), Sergei Razhuk (Stalin), Natalya Nikulenko (la sorella). Russia 2000. Proiettato pochi giorni fa all’Oberdan-Cineteca di Milano.
Visti il Leone d’oro ottenuto da Faust a Venezia e i buoni incassi realizzati in sala (non cifre altissime in assoluto, però ottime medie per screen, dato il non cospicuo numero di copie distribuite), l’Oberdan di Milano ha giustamente ripescato i primi tre film della tetralogia che Sokurov ha dedicato al potere, essendo il quarto proprio il Faust. Il regista russo, allievo del sublime Tarkovsky, suscita in me, devo dire, sentimenti contrastanti, non riesce mai a convincermi completamente, mi sembra sempre un grandissimo a metà, un incompiuto, un maestro mancato, vicinissimo all’esserlo, ma senza che arrivi mai a centrare il bersaglio grosso. Di sicuro autore unico, non apparentabile a nessun altro, che sa imprimere a ogni scena girata un segno forte, personale, soprattutto attraverso lo stile (colori spenti e pestati con prevalenza del verdastro e qui, in Taurus, del seppia-bronzo; attenzione ai corpi in degrado, anzi smodata passione per il corrompimento della carne di stampo altomedievale; predilezione per il banale quotidiano ripreso nei suoi aspetti anche triviali posti a confronto e in opposizione con la Grandezza del Bello; riferimenti vertiginosi all’iconografia classica e al repertorio dell’arte europea). Però è la materia che racconta a essere perennemente, o almeno molto spesso, fuori fuoco, poco trasparente, in perenne attesa di una glasnost che mai arriva, annegata nella nebbia in cui S. ama immergere tutti i suoi film, questo Taurus compreso. La trama è sempre pretestuosa e piuttosto casuale, solo un’occasione o poco più per le ossessioni, i vizi e le manie del suo autore. Le storie, gli intrecci si vanificano nelle sue mani per diventare esili traiettorie, piuttosto generiche, su cui i muovono personaggi ridotti a pupazzi o comunque ad altro rispetto alla propria identità storica. Il Lenin protagonista di Taurus, ad esempio. Si tratta di un Lenin raccontato negli ultimi giorni della sua vita, rinchiuso e di fatto prigioniero del Politburo (e in particolare di Stalin, l’uomo forte che si sta profilando) in una villa neoclassica di campagna, molto cecoviana, molto caduta e fine dello Zar a Ekaterinenburg. È già stato colpito da ictus, ha la parte destra del corpo paralizzata e fuori uso, ormai vaneggia, il suo corpo e il suo cervello stanno lentamente ma inesorabimente facendo naufragio. Il nulla è lì ad aspettare, pronto a inghiottire l’uomo che ha fatto la rivoluzione e realizzato il comunismo su vasta scala. Solo che Sokurov ce lo rappresenta come un vecchio qualsiasi, un ometto infragilito e anche malinconicamente instupidito dalla malattia. Se non ci fosse il titolo, non ci fossero le note di produzione e regia a farci la spiega e la lezione, penseremmo che il film, anzichè su Lenin, sia su un un anonimo signore ripreso nel suo decadimento, un film cronaca di come si muore, come ci si spegne. Capisco che Sokurov non volesse cadere nel documentarismo storiografico, nel cinema a dispense, e dunque abbia fatto di tutto per evitare di trasformarsi in succursale di un qualunque History Channel. Capisco anche la voglia, anzi il bisogno, di evitare ogni agiografia e ogni pomposità. Dunque ecco il grande protagonista che ha cambiato il mondo (in questo caso Lenin, ma lo stesso è per l’Hitler di Moloch e l’Hiro Hito di Il sole, gli altri film sokuroviani dedicati alla Storia e al Potere) ridotto a umano come gli altri, ripreso nelle sue miserie, scrutato attraverso il buco della serratura secondo la vulgata per cui nessun uomo è grande agli occhi del suo servo. Difatti, Lenin ci viene presentato circondato da schiere di servi, militari fedeli e infedeli, spie, medici, infermieri, mentre è a letto, mentre mangia (faticosamente), si veste (anzi, viene vestito), mentre viene lavato, rassettato, pulito, accudito. Mentre esce dalla villa-prigione per una breve gita nella campagna circostante. Mentre si lamenta con la moglie e la sorella, mentre mangia la minestra o non vuole mangiarla. Insomma, come fosse un signorotto di campagna di prima della rivoluzione malmesso e malato (o forse è proprio questo che Sokurov vuole suggerirci? che nulla è cambiato? che il potere si riproduce sempre uguale a se stesso? ma allora doveva decidersi subito a stringere e focalizzare l’operazione su questo). Solo a tratti, nel delirio del signor Lenin, nella demenza indotta dalla malattia, balenano frammenti di quello che lui è stato. Si arrabbia perché in quella villa si vive nel lusso, “mentre il popolo non ha neanche da mangiare” e fracassa un po’ di preziose e squisite ceramiche, si chiede come mai non lo chiamino dal Politburo, si fa leggere dalla moglie un libro che ricostruisce le torture e le pene corporali cui venivano sottoposti i poveri, bambini compresi, nella Russia zarista prima della (presunta) liberazione ad opera del comunismo, si fa leggere pure la morte di Marx nella descrizione di Engels. Ma sono come scie luminose, bengala che si accendono nel buio e subito si spengono, essendo Taurus quasi esente e depurato da precisi riferimenti alla Storia. Sì, ma se mi viene presentato un Lenin derubricato a uomo come tanti, tanto valeva girare un film su come si ammala e finisce un uomo qualsiasi. Però se me lo chiami Lenin, mi devi raccontare Lenin. Forse rendendosi conto della debolezza dell’operazione, a un certo punto il regista con il suo fedele sceneggiatore Yuri Arabov corre ai ripari, mette di mezzo la Storia vera con maiuscola e ci fa vedere Stalin in persona che fa visita all’ex leader. Non si dicono nulla di importante, però Sokurov è straordinario nel suggerirci il carattere demoniaco, l’astuzia, la pericolosità del georgiano solo attraverso la sua presenza. Vengono i brividi solo a vederlo aggirarsi nella villa con quello sguardo da faina, senti la minaccia emanare da lui. La trivialità dei dialoghi che lui e Lenin si scambiano, e l’altrettanta banalità che intercorre tra lui e la moglie di Lenin e gli altri dell’entourage, sono un non-detto o un dire altro che lascia trasparire attraverso le pause, il silenzio, le omissioni, l’abisso. Qui il regista russo si eleva a livelli stratosferici, avendo il coraggio di affrontare la Storia, di metterla in scena, di confrontarsi con essa, di non eluderla, e riuscendo ad affrontarla a modo suo, senza cadere nel didascalicismo e nemmeno nella ricostruzione, geniale però non senza pedanteria, alla Rossellini. Ancora, il film si fa grandissimo non appena dalla cronaca quotidiana della malattia lo sguardo si allarga, e ci fa intuire il mondo al di là della dimensione claustrofobica della villa-prigione, quando la macchina da presa si sposta sulla corte e l’entourage che circondano e insieme controllano il vecchio leader morente (che poi tanto vecchio non era, avendo poco più di 50 anni) e ci fa respirare il senso di prigionia, i giochi di potere là fuori, quando ci mostra i militari e le spie. Quando insomma il film si misura davvero con il Potere. Ma sono solo momenti, perché la gran parte di Taurus è occupata da altro, dalle cose minime e qualunque, e allora il film diventa un’opera rispettabile sull’agonia di un uomo, anche bellissima, ma che elude il compito che si è dato fin dal titolo di raccontare l’agonia di un leader e del potere, la Storia come cadavere.
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7 risposte a Sokurov prima di Faust: TAURUS – IL CREPUSCOLO DI LENIN (recensione)