Oggi a finire sul rogo, inceneriti da critiche malevole sui media e dai commenti perfidi degli opinion maker (ma davvero?), non sono i film che mettono in scena il sesso e proclamano il diritto alla sessualià, come accadeva ai tempi di Ultimo tango a Parigi. Al contrario, a subire l’ostracismo e il disprezzo sono i film che esibiscono sì il sesso, però mostrandolo come alienazione esistenziale, sintomo allarmante del vuoto e del nichilismo in cui siamo sprofondati. Sta accadendo, abbastanza clamorosamente (mai me lo sarei aspettato, davvero) a Shame di Steve McQueen. Già poco dopo la prima a Venezia su qualche sito americano si era storto il naso, usando – e accusando con – la parola che ormai è un marchio d’infamia: moralismo. Non è stato che l’inizio. Quando tre settimane fa il film è approdato dalle nostre parti è stato un coro, e l’accusa di moralismo è piovuta a dirotto. Stampa autorevole e meno autorevole, siti, facebook, twitter, tutti giù a rimbrottare e esecrare. Ma come osa questo Shame farci vedere un sex addicted tormentato? Come osa mettere in discussione il potere salvifico del sesso? L’equazione tra sesso (liberazione degli istinti) e felicità/appagamento/autorealizzazione è un pilastro della cultura occidentale almeno dagli anni Sessanta a questa parte, una categoria, un valore, una fede che ha conquistato le masse, è penetrata capillarmente nelle menti, nei corpi, nelle anime (o di quel che ne resta), instillando e radicando in profondità il convincimento che l’Eros sia indispensabile e naturalmente apportatore di salute fisica e psichica. Come sia nata questa visione non è il caso di dire, ma così è. Sul posto e sul ruolo che la sessualità deve avere nelle nostre vite si è giocata forse la più grande guerra culturale degli ultimi decenni, una guerra cruenta che ha opposto tradizionalisti e progressisti, repressi e liberati, destra e sinistra, e a stravincere sono stati i progressisti/liberati. Ora, in questo clima arriva un film come Shame che osa l’inosabile, ha l’inaudito coraggio di riproporre il binomio sesso e colpa, sesso e peccato, sesso e dolore, sesso e dannazione. Sex & shame: sesso e vergogna. Ha il coraggio di dire che il sesso si è (anche) ridotto a merce, consumo impersonale, coazione, compulsione. Figuriamoci. Le vestali del politicamente correttissimo si sono indignate, anche se non l’hanno dato troppo a vedere chè non sta bene e bisogna averci un certo stile nel condannare e se necessario punire. Ma la sentenza per Shame (e per chi ha avuto l’ardire di interpretarlo, Michael Fassbender) è inequivocabile: moralista. Cattolico. Che nel linguaggio della casta già radical-chic è l’insulto di tutti gli insulti. A dar fastidio è anche che questa critica al sesso non provenga da un’opera dichiaratamente nostalgica, reazionaria, appartenente a una cultura residuale, esteticamente e stilisticamente arretrata, ma da un film che usa linguaggi ultracontemporanei, di un regista che è un artista visuale di fama conclamata. Un film che viene dall’interno e dal profondo di quell’universo culturale che ha prodotto nella seconda metà del Novecento la liberazione sessuale e ne ha proclamato l’irrinunciabilità. Come se oscuramente stesse incominciando una revisione e un’autocritica, forse un capovolgimento. È questo ad allarmare davvero le anime belle del politicamente e sessualmente corretto.
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