ACAB pedina tre celerini nella loro follia progressiva, nella loro deriva verso una furia cieca e incontrollata. Cobra, Negro e Mazinga menano, menano e menano (spacciatori, tossici, clandestini, ultras), sono una cellula impazzita delle forze del (dis)ordine. Poteva essere un neopoliziottesco come in Italia non se ne fanno più, lurido e cattivo al punto giusto. Ma il film di Stefano Sollima vira verso il politico e l’ideologico, non si decide mai tra la descrizione di un caso clinico e la predica moraleggiante e la denuncia. Soprattutto, resta prigioniero della violenza che vorrebbe condannare. ACAB mena di brutto, come i suoi sbirri, però lo fa alla cieca, senza sapere bene chi, cosa e perché menare.
ACAB – All Cops Are Bastards, regia di Stefano Sollima. Con Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini, Andrea Sartoretti, Domenico Diele.
Sono uscito dal cinema con una gran rabbia dentro. Più rabbioso e incazzato dei tre celerini fuori di cervello di ACAB. Poteva essere un gran film, questo. Qualcosa di meglio e di diverso dal solito cinema de’ noantri oscillante tra la commedia ora garbata (Immaturi, per dire) ora demente e finto oltraggiosa (I soliti idioti) e l’inconcludenza di filmucci ora autorefenziali e piagnoni ora ambiziosi ma senza palle. Invece, spiace immensamente dirlo, occasione buttata via. Eppure c’erano tanti buoni motivi per crederci. Un regista, Stefano Sollima, al suo debutto nel lungo ma con alle spalle una delle migliori cose in tv degli ultimi anni, la serie Romanzo criminale, lurida e cattiva al punto giusto. Sollima è anche un nome che bendispone e che ai ragazzi degli anni Sessanta e Settanta rievoca qualcosa di bello e importante, il cinema di genere firmato dal papà di Stefano, Sergio, western come La resa dei conti e Faccia a faccia, noir e crime di una certa nobiltà come Revolver e Città violenta (un culto, questo, del regista di Drive Nicolas Winding Refn). Poi c’era l’idea di penetrare finalmente dentro l’universo separato dei poliziotti, dei celerini in particolare, la mobile che va per strada e sul campo con i manganelli, gli scudi, i lacrimogeni, i caschi a sedare guerriglie urbane di vario tipo e origine, l’idea, anche, di penetrare nella testa di quegli sbirri e raccontare-mostrare la loro psiche. Con un libro di riferimento, ACAB del giornalista Carlo Bonini, che aveva raccolto tra l’inchiesta e la fictionalizzazione storie di celerini in prima linea, le loro paure, le loro ossessioni, anche le loro derive e i deliri. Con un incubo sempre incombente, quello lontano ma incredibilmente vicino e presente, e mai dissolto, mai metabolizzato, di Piazza Diaz. Ora, questa materia e il regista chiamato a organizzarla e raccontarla, promettevano un film finalmente non piacione e compiacente, duro al punto giusto, un poliziottesco ruvido e impuro alla maniera degli anni Settanta capace di assestare un colpo alla nostra coscienza impigrita (anche di spettatori). Già il titolo sembrava direzionarci verso territori poco esplorati dal nostro cinema. ACAB acronimo di All Cops Are Bastards, urlo antipolizia nato tra gli skin inglesi anni Settanta poi passato sulle bocche degli ultras delle nostre squadre di calcio, insulto sanguinoso che separa, marca la differenza tra gli uomini dell’ordine e quelli del disordine e li rende irrimediabilmente nemici. Un grido di guerra. Ma ACAB fallisce non per la messinscena, che è qua e là notevole, ma per la confusione e l’approssimazione del racconto che svaria su troppi livelli, troppe storie e sottostorie e sottotrame e non ne afferra nessuna. Cobra, Negro e Mazinga sono tre celerini romani d’esperienza alle prese con tifosi pronti al coltello e allo scontro, spacciatori, occupanti abusivi, immigranti dall’est e dal sud del mondo, intere zone della città sfuggite al controllo e entrate nell’illegalità. Menano menano e menano, e vengono menati. Loro sono in guerra, e lo sanno. Non si fanno illusioni, il mestiere e la vita gliele hanno tolte tutte. Hanno una vita privata incasinata. Negro (Filippo Nigro) non può quasi vedere la figlia che la ex moglie cubana si è portata via dopo la separazione, Mazinga (Marco Giallini), il decano, il più saggio dei tre, ha un figlio che si è aggregato a un gruppuscolo di destra estrema, Cobra (Pierfrancesco Favino, bravissimo, monumentale) è il leader della squadra, ha una vita solitaria, è il più ideologico e il più delirantemente votato a una missione di pulizia sociale, in casa busti e ritratti di Mussolini e un culto per il fantasy più cupo. Li vediamo, spinti dagli eventi e dai loro demoni interiori, scivolare smpre più nell’abisso della violenza cieca e incontrollata, se la prendono con ultras, immigrati più o meno innocenti, più o meno colpevoli, tossici e pusher. Manganellate, calci, sputi. Teste fracassate, sangue. Una cellula che impazzisce e che nessuno riesce a fermare. Fosse questo il film, un viaggio nel cuore di tenebra di gente che, dovendo difenderci dalla violenza, finisce col farsene contagiare, andrebbe tutto bene. Potrebbe essere la versione italo-romanesca di tanti film su poliziotti deviati e psicopatici, a partire dal prototipo immenso e inarrivabile dell’orsonwellesiano L’infernale Quinlan arrivando fino ai magnifici polar sporchi e disperati di Olivier Marchal (36 Quai des Orfèvres) o al brasiliano Tropa de Elite, con i suoi agenti speciali intossicati di sangue. Ma ACAB purtroppo non si ferma qui a pedinare la follia e farsi referto, come avrebbe dovuto, del caso clinico dei tre celerini fuori controllo, e dell’educazione alla brutalità che impartiscono alla spina (recluta) Adriano con riti di iniziazione agghiaccianti fino al tentato omicidio. Invece, ed ecco che rispunta il vizio italico di buttarla sempre in ideologia e denuncia e impegno sociale – ma quando la smetteremo? – , ambisce a delineare l’affresco di un pezzo esecrabile del nostro paese, si fa la predica e la morale. Si va giù per le spicce, con l’analisi e la messa a fuoco dei caratteri. I poliziotti sono cattivi perché son fascisti (vedi il Cobra di Favino), e ancora più cattivi sono quelli che sono più fascisti di loro (quei nazi di una stamberga occupata genere Casa Pound, ma senza velleità culturali e solo la voglia di ripulire Roma e l’Italia da immigrati, neri e pure poliziotti da loro ritenuti troppo mollaccioni e non abbastanza carogne con la feccia della società). Il macello della scuola Diaz viene più volte evocato, a significare che le forze dell’ordine sono intimamente bacate. Si punteggia la narrazioni con il riferimento e la quasi cronaca in diretta di fatti che hanno tramortito a suo tempo il paese, il selvaggio stupro e l’uccisione di Giovanna Reggiani a Roma per opera di un clandestino rumeno, l’uccisione a un’area di servizio in autostrada di Gabriele Sandri tifoso della Lazio da parte di un agente, la morte dell’ispettore Raciti per mano di ultras del Catania. Intanto nella fosca capitale si svolge la campagna elettorale per la poltrona di sindaco con un candidato fascio appena appena ripulito, e l’allusione ad Alemanno è lampante. Altro che storia di Cobra, Negro e Mazinga e della loro psiche deviata, qui si pretende di raccontare un bel pezzo di Italia alla deriva, ci viene detto che quella cellula impazzita della celere è il frutto marcio e non casuale di un più generale marciume. Dal racconto di un caso clinico si passa ahinoi al discorso politico, e se i tre sono quei bastardi che sono non è per loro colpa e responsabilità personale, no, è che c’è tutto un sistema (ma quale? ma chi? ma dove? ma come? ma perché?) che li induce alla deriva e alla psicopatia. Ma era il caso di rovinare il film così? Che poi i piani della narrazione non stanno più insieme, tutto si sconnette, i tre protagonisti oscillano incoerentemente tra comportamenti opposti e non conciliabili, il più delle volte son carogne ma qualche volte son dei bravi diavoli, per non parlare del ragazzino Adriano che parte come superfascio che sorpassa a destra i tre senior e poi invece chissà perché si pente. Ma dico, un po’ di logica in fase di definizione dei personaggi ci vorrebbe, e i cambiamenti e i passaggi vanno adeguatamente spiegati in sede di sceneggiatura, verificare con un qualsiasi film americano, anche medio, come si fa. Altra follia è di avere chissà perché retrodatato il film al 2007, perché quello è l’anno in cui succedono i fatti riportati, Raciti, Sandri, Reggiani, e non si scappa. Con il risultato assurdo che ACAB non è un film sull’oggi, non è un film storico (troppo vicino il 2007) e neanche un instant-movie, finendo col galleggiare in uno spazio-tempo inafferrabile. La narrazione si sfascia, e addio speranze di vedere un film buono e meno omologato della solita sbobba. Qualcosa resta, come no. La regia di Stefano Sollima è ottima, ritmo incalzante e anche forsennato, un segno sporchissimo e livido impresso a ogni scena, a ogni inquadratura, una macchina da presa mobile e duttile a ricreare l’illusione del docu e del cinéma-vérité. C’è la capacità, in Sollima, di restituirci una Roma buia e brutale, selvaggia, abietta, senza pietà per nessuno e da parte di nessuno, abbandonata a se stessa e alle proprie pulsioni peggiori. Sembra, in certi momenti, di rivedere le più inquietanti sequenze di Roma di Fellini, la cavalcata notturna delle moto, l’orrore del raccordo anulare. Certe scene di ACAB non si dimenticano, quel finale fuori dallo stadio, l’irruzione nella baraccopoli, l’aggressione di un gruppo di immigrati dall’est a un padre e alla sua bambina. Poi ci sono gli attori, che non si risparmiano e si immergono nella carne dei loro personaggi con una dedizione che dalle nostre parti è raro vedere. Nei suoi momenti più alti, Favino è indimenticabile, un gigante del male che davvero ci fa ricordare il Quinlan di Orson Welles, Filippo Nigro è nevrotico e schizzato in quella che è forse la sua migliore performance di sempre. Ma ACAB purtroppo fallisce, e si compiace troppo della violenza che mette in scena e che vorrebbe condannare, ma di cui resta ipnotizzato e intrappolato, rischiando di diventarne, equivocamente, inesorabilmente, complice.
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