Recensione. I MUPPET: troppo citazionista, ridateci la semplicità del vecchio cinema

Ormai (è il modello vincente dei Pixar movies) un film per bambini deve essere a doppia e tripla lettura, deve essere pieno di rimandi e citazioni e strizzate d’occhio, deve avere una profondità e uno spessore che lo facciano piacere anche agli adulti. Ma non sempre un gioco così complicato riesce. Non riesce, ad esempio, in questo film che ripropone i pupazzoni anni Settanta di Jim Henson.

Miss Piggy direttore di un fashion magazine per taglie più

I Muppet, regia di James Bobin. Con i Muppet e Jason Segel, Amy Adams, Chris Cooper, Rashida Jones, Steve Whitmire, Emily Blunt, Zach Galifianakis, Alan Arkin, Bill Cobbs.

umani e pupazzi

Signori, non è che si stia esagerando con tutto questo metacinema? Mai possibile che ormai non si possa più confezionare un qualsiasi film da infanti e per infanti senza infarcirlo di citazioni, rimandi, clin d’oeil al cinema e alle grandi narrazioni del passato? Sicchè un favola piatta e unidimensionale, ma proprio per quello di immediata fruibilità, come ne faceva una volta Casa Disney oggi non la fa più nessuno, tutto si è maledettamente complicato, tutto si è fatto iperconsapevole e l’opera multilivello pochissimo ingenua non solo è la norma ma un obbligo. Ora, finché in operazioni simili si cimenta Martin Scorses per cavarne quella meraviglia che è Hugo Cabret va tutto bene, però mica le torte riescono sempre a quel modo, ogni tanto (sempre più spesso) invece la ricetta non funziona. Non funziona clamorosamente in questi Muppet, tentativo di riportare in vita e alla gloria i pupazzi televisivi sgangherati e amatissimi di Jim Henson degli anni Settanta. Ha rovinato il film in fase progettuale e di stesura dello script l’imperativo (magari solo inconscio, ma non per questo meno stringente) di attenersi a quello che è ormai il modello e il paradigma dominante nel campo, quello dei Pixar movies, adorati più dai grandi che dai bambini per come sono intelligenti e ricchi di riferimenti e densi di significati nascosti da decrittare. Uno va a vedersi I Muppet e si aspetta un film magari non esaltante ma onesto, di quell’innocenza e ingenuità del buon cinema di una volta, con i famosi pupazzoni che hanno accompagnato un pezzullo della nostra vita – Kermit la rana, Miss Piggy, Gonzo ecc. – e si ritrova invece in un trattato sul cinema disneyano-hollywoodiano e sulla società dello spettacolo degli ultimi cinquant’anni. Pupazzi e umani che convivono (come in Chi ha incastrato Roger Rabbit?, esplicitamente richiamato in una battuta), numeri da musical-musicarello americano anni Cinquanta genere Evis Presley-Ann Margret (ma anche Annette Funicello), e così via strizzando l’occhio e citando. Il plot vede i Muppet, dispersi in vari angoli del mondo, tornare dalla diaspora e riunirsi per ridare vita e lustro al Teatro di Hollywod che fu la sede delle loro epiche imprese di spettacolo, e oggi a rischio causa cattivo che vuol demolirlo per impiantarci trivelle petrolifere. Occorrono però 10 milioni di dollari per riscattarlo, e si cercherà di raccogliergli con uno show teletrasmesso alla vecchia maniera. Solo che i Muppet sono acciaccati, invecchiati e arrugginiti, e non sarà facile tornare alla gloria e rimettere in piedi uno spettacolino come si deve. Ci sono momenti di delizia assoluta grazie a Kermit la rana, la satira alla tv rozza e cattiva di oggi è centrata (quel reality con il professore messo alla gogna dagli allievi), i due sposini (umani) che insieme al loro amico pupazzo danno il via all’operazione di recupero Muppet sono così scemi e tonti e asessuati e improbabili da essere adorabili, e lei, Amy Adams, che in The Fighter era sboccata e grintosa, quei è perfetta come ragazza Fifties con la gonna a ruota stretta in vita e le camicine attillatte a tornire il seno rigoglioso. Poi a ballare è un portento. Le canzoni (purtroppo doppiate, anche se bene grazie al’intervento del sempre intelligente Elio) ricordano quelle dei musical più zuccherosi di Julie Andrews. Ma il vertice lo si ha quando si scopre che Miss Piggy, la star dei Muppet, si è rifatta una vita, e che vita, a Parigi come direttora di Vogue taglie forti, e la vediamo con capello biondo chiaramente ricalcato sulla Meryl Streep del Diavolo veste Prada, però con cipiglio molto Anna Wintour, come molto Wintour è il tailleurino Chanel (e la segretaria naturalmente è la Emily Blunt di Devil wears Prada). Sì, ogni tanto si ride, un filino ci si commuove, però l’operazione non convince, così artificiale e artificiosa, così zeppa di rimandi da rendere faticoso e arrancante il procedere del racconto. L’estetica smandrappata dei Muppet è molto datata e quasi improponibile oggi, è così materica e straccionesca da essere incompatibile con la pulizia-asetticità del cinema digitale-videogame. Non c’entra nemmeno con l’estetica anni Cinquanta molto Disney-Cartoonia con cui questo film incongruamente la incrocia. Il risultato è scombinato, sconnesso. Gli adulti un po’ si divertono, ma l’impressione è che ai bambini questo film apparirà troppo ostico, lontano e complicato, anche perché loro i Muppet non li hanno mai conosciuti.

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