Ci si aspettava tutti un film nobilmente noioso à la Taviani. Invece no. I due fratelli registi hanno sorpreso Berlino con un film che fila via dritto senza un attimo di noia, che avvince e convince, e pure commuove il giusto. Resoconto molto partecipato e per niente glacial-documentaristico di una messinscena del Giulio Cesare shakespeariano con i detenuti di Rebibbia. Alla fine della proiezione grandi applausi (ed è vero, vi garantisco).
Cesare deve morire, di Paolo e Vittorio Taviani. Con Fabio Cavalli e un gruppo di carcerati di Rebibbia che mettono in scena il Giulio Cesare di Shakespeare, tra cui Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca. In concorso
Signori, qui a Berlino la notizia del giorno (insieme all’arrivo di Angelina Jolie, ovvio) è che i gloriosi fratelli Taviani – Palme d’oro e altri premi alle spalle – sono tornati, e sono tornati con un gran film, bello e semplice, di quelli che filano via dritti senza un inciampo e che con la stessa sicurezza vanno dritti a cuore e viscere di chi guarda. Non ce l’aspettavamo, non se l’aspettava nessuno, diciamolo, la diffidenza era alta, tutti al cinema alle 9 di mattina un po’ sbuffanti e scocciati. Figuriamoci, si diceva, i Taviani, nomi-simbolo di un cinema italiano piuttosto vetusto che oggi si fa fatica ad amare, così smaccatamente e anche sfacciatamente autoriale, con tanto di etichetta d’arte incorporata. Invece no, questo Cesare deve morire, che pure è un film loro, incofondiblmente loro per la sicurezza, l’eleganza, il rigore geometrico della messinscena e della regia, non distanzia come spesso è capitato al Taviani-cinema ma incredibilmente avvicina. Grandissimi applausi alla fine, i più lunghi finora di questo festival, e vi assicuro che è vero, mica è la solita finta cronaca addomesticata di certi giornalisti italiani che magnificano ogni film nazionale a prescindere fantasticando di chissà quali trionfi anche quando sono fischi o sbadigli (vedi Terraferma a Venezia). Tutti in sala a scrutare le facce di alcuni giurati seduti in platea, Mike Leigh e François Ozon in testa, per capire se e quanto fosse piaciuto loro questo Cesare deve morire. Storia semplice, si diceva. Eccola. A Rebibbia, sezione speciale, il regista Fabio Cavalli come ogni anno mette in scena un testo teatrale con i detenuti. Stavolta è il Giulio Cesare di Shakespare. Il format narrativo ci si rende conto essere simile a quello di X Factor (non è mica un insulto, a me X Factor piace molto): il casting (assai divertente, una delle cose migliori), le prove come capita capita, prima un po’ squinternate poi sempre più focalizzate, il backstage, con l’ovvia differenza che qui si tratta di detenuti con alle spalle e davanti molti anni di carcere, e pure qualche fine pena mai (leggiamo in sovrimpressione i reati: traffico di stupefacenti, pluriomocidio, cose di camorra). Man mano la tragedia prende corpo sotto i nostri occhi e quelli degli altri detenuti, che sono un po’ pubblico e un po’ coro, avvolge e coinvolge i carcerati-attori e tutti noi spettatori. Ognuno recita nel suo dialetto, siciliano, calabrese, campano, o nella sua lingua transnazionale, e l’effetto è di massima efficacia e naturalezza, alcune battute shakespeariane prendono una forza barbara abbastanza sorprendente (ma non c’è da stupirsi, Shakespeare ha visto e ha retto di tutto, come Verdi del resto, e resiste a tutto, magari guadagnandoci). Si arriva al climax, l’uccisione di Cesare, e la scena è da applausi veri e forti. Il carcere intero diventa con immediatezza, senza forzature ideologico-registiche e di messaggio, lo sfondo naturale di quello che va in scena, ogni tanto ma senza esagerare emergono parallelismi tra il personaggio e la vita di chi lo interpreta. Grazie a Dio i Taviani vanno al sodo, restano attaccati a Shakespeare, senza buttarla troppo sulla retorica dell’arte come riscatto e redenzione dalle brutture carcerarie e dalla vita sregolata. Stanno parchi anche sull’altro rischio buonista e politicamente corretto, quello del teatro in carcere come terapia individuale e collettiva. Solo la scena finale incappa in un filo di retorica, ed è un peccato. Ma per il resto i Taviani lasciano campo libero a Shakespeare e al corpo a corpo che i detenuti ingaggiano con il testo, apropriandosene, cambiandolo, se necessario stravolgendo qualcosa. Le facce e i corpi e le voci dei carcerati si prestano a meraviglia a questa tragedia tutta maschile del potere, dell’ambizione, del tradimento, della virilità offesa o orgogliosamente esibita. Su tutti stravince il Bruto di Sasà-Salvatore Striano, per quanto ci riguarda il Bruto definitivo, dentro e fuori Rebibbia.
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