Si ispira questo francese À moi seule ai casi di bambine rapite e liberate ormai adulte come quello di Natascha Kampusch. Ma non è una cronaca dell’orrore. La brutalità è celata dietro i modi urbani del rapitore e il rapporto carnefice-vittima ha i tratti banali di un quasi normale vita di coppia. Spiazzante, ma anche parecchio interessante.À moi seule, regia di Frédéric Videau. Con Agathe Bonitzer, Reda Kateb, Hélène Fillières, Noémie Lvovsky. Presentato in Concorso.
Uno di quei film francesi dimessi e con protagonista catatonica che non sai mai se sono una bufala o qualcosa di rispettabile. Dopo averci pensato un po’ dico: non è male. À moi seule (Coming Home è il titolo internèscional) si ispira a una di quelle storie agghiaccianti di bambine rapite e rimaste col loro rapitore per anni e anni, entrate in prigionia ragazzine e uscite donne. Natascha Kampusch, ad esempio. Qui non siamo nella Infelix Austria però, ma in una Francia non certo douce. Gaëlle viene rapita fuori dalla scuola da un operaio, riuscirà a scappare solo otto anni dopo. La narrazione si divide tra la clinica psichiatrica in cui è ricoverata perché ritrovi un accettabile equilibrio dopo quell’esperienza di separazione dal mondo e i flashback che ricostruiscono la sua cattività (a proposito, anche Captive di Brillante Mendoza parla di rapitori e rapiti, evidentemente uno dei temi sensibili di questa Berlinale). Non è molto interessante l’adesso, i colloqui con la terapeuta (non reggo più le terapeute in camice bianco con l’arietta sentenziosa e sempre con la risposta pronta, non le reggo al cinema e non solo a quello), i rapporti con la madre (una peraltro brava Noémi Lvovsky, vista anche in Les Adieux à la Reine), è più interessante, ovvio, il racconto della prigionia. Quello che sorprende in questo film è il tono quieto, pacato, senza climax, senza strepiti, senza drammi. Un film a bassa intensità di emozioni. Una straordinaria vicenda raccontata come fosse di ordinaria ovvietà, il che depotenzia la narrazione ma le conferisce anche un segno forte di diversità, di eccentricità, di sottile malessere anche. Gaëlle è tenuta chiusa in uno scantinato, ormai diventato una qualsiasi stanzetta da adolescente, con i ninnoli appesi, le immagini, non una cella torva e punitiva. Quando lui, il carceriere con l’aria del bravo ragazzo qualsiasi, torna dal lavoro tira su la botola e la fa uscire e passano la serata insieme, chiacchiere, un po’ di tv, la cena. Se viene uno dei rari ospiti (capita una sera con un collega di lui) Gaëlle viene tenuta nello scantinato legata e imbavagliata di modo che non faccia pervenire al visitatore segni della sua presenza. Dopodichè, a estraneo partito, il padrone di casa, chiamiamolo così, scende, la scioglie dai legacci, quasi si scusa perché insomma, mica può fare altrimenti. Una volta lei cerca di fuggire, ma viene agguantata da lui. Non c’è mai stata violenza sesuale, non ci sono rapporti neppure consenzienti: “Io non posso pensare di andare a letto con una donna che non abbia voglia di farlo con me”, dice lui. Così ci vine tolto anche il movente ossessivamente sessuale al rapimento, lasciandoci intendere che ci dev’essere dell’altro. O forse no. Perché il film è completamante disinteressato a fornirci ogni spiega, quantomeno a dare spiegazioni psicologistiche (e meno male, così si evitano banalità da talk show). Ogni tanto lui, di notte, la porta fuori, in luoghi deserti, perché lei respiri l’aria al di là della pigione. Sembra un uomo civile e garbato, la violenza e la brutalità le tira fuori soltanto quando lei tenta di scappare. Per il resto il loro sembra un tranquillo ménage coniugale, con due che si conoscono da molto tempo e hanno imparato a tollerarsi e anche ad annoiarsi insieme. Questo tono di assoluta quotidianità è quanto rende il film diverso e poco prevedibile, a suggerirci che il normale e il mostruoso possono coabitare e magari confondersi. Non c’è studio, analisi dei personaggi, grazie a Dio. Non si cerca di spiegare perché un ragazzo qualunque rapisca una bambina e la tenga per otto anni, non si cerca di penetrare più di tanto nemmeno nella testa di Gaëlle. Depsicologizzato e fenomenico, À moi seule finisce con l’essere molto più acuto e rivelatore di altri film verbosissimi sul tema, o di mille trasmissioni tv e dibattiti sui casi Kampusch e analoghi. Con il rischio però di simili operazioni che puntano più sull’austerità che la pienezza del racconto, più sul non detto che l’esplicito, e cioè la noia, l’inabissamento del film nel vuoto di senso. Il regista Frédéric Videau non cade però (come Brillante Mendoza in Captive) nella trappola di equiparare carnefice e vittima. Gaëlle non si lega al suo rapitore, accetta la situazione perché non può cambiarla, ma non appena le si presenta l’occasione scappa. E lui reagisce drammaticamente alla sua fuga. I ruoli non si confondono, ognuno inesorabilmente resta al posto suo. Agathe Bonitzer con la sua non recitazione apparente, con il suo tono distaccato e lunare, ricorda certe perfomance impersonali, quasi automatiche di Isabelle Huppert.
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Una risposta a BerlinoFestival 2012/ Recensione. À MOI SEULE: la rapita e il rapitore, (quasi) una coppia normale