Caccia al rom in un’Ungheria Infelix brutale e allarmante. Non il classico film di denuncia, ma un film sul Male, su come si insedia, cresce, esplode. Stile scarnificato, narrazione quasi azzerata. Un manifesto di quel nuovo cinema europeo ultra-autoriale che rinuncia alla parola e privilegia l’immagine, che non dice ma mostra, e che molto deve anche a certa arte contemporanea.
Csak a szél (Just The Wind), regia di Bence Fliegauf. Con Lajos Sárkány, Katalin Toldi, Gyöngyi Lendvai, György Toldi. Presentato in Concorso.
Dio mio, che film. Di quelli che ti fanno sentire il Male, te lo fanno respirare, te lo attaccano addosso, te ne fanno sentire l’odore. Non ho ancora capito se sia un film davvero importante, forse sì, forse no, lo capirò strada facendo, scrivendo questa recensione. Film disturbante, e stavolta parlare di cinema della minaccia non vuol dire solo tirare in ballo una delle tante categorie narrative o estetiche. Perché qui, in questo film ambientato nell’Ungheria degli anni recenti, si racconta o meglio si mostra come nasce ed esplode un pogrom. Pogrom stavolta contro zingari, non contro ebrei, ma la dinamica perversa, la ricerca del capro espiatorio così bene e definitivamente messa in luce da René Girard, è sempre la stessa, e in questa terra, in queste terre di media e orientale Europa il pogrom è nato e si è quasi codificato. Nasce nella Russia zarista contro gli ebrei, e sempre contro di loro si estende come una malapianta o un batterio pernicioso a contaminare le aree limitrofe, Polonia-Volinia-Galizia-Bucovina-Slovacchia-Ungheria. Forconi e mannaie e scuri e fucili che irrompono negli shetl a scannare, fare a pezzi, massacrare. “Pogrom! Pogrom!” urla terrorizzata la vecchia ebrea di uno dei più strazianto (e dei primi, e dei migliori) film sull’Olocausto, il cecoslovacco Il negozio al corso, quando chiusa nel retrobottega sente là fuori le urla e il trapestio e l’odore inconfondibile della persecuzione, e sono i collaborazionisti slovacchi che stanno rastrellando la comunità giudaica per avviarla ai campi. Pogrom!, urla, perché è nella sua memoria, è nelle sue viscere, gliel’hanno tramandato attraverso le generazioni il ricordo e la paura di quell’orrenda cosa, triste peculiarità di quella sinistra parte d’Europa. Mentre stamattina mi vedevo questo Csak a szél al BerlinalePalast mi tornava in testa un altro lontano film, visto chissà quando e come, Il processo di Pabst, un potente bianco e nero che ricostruisce il massacro di un comunità ebraica in un villaggio ungherese di fine Ottocento tra accuse deliranti di delitti rituali. Il germe quello è, e sta sempre lì, pronto a dare i suoi frutti marci. Pogrom, pogrom, pogrom. Se ne sono visti ovunque, in quell’immensa area che era la zona d’influenza dell’Union Sovietica dopo la caduta dei muri e dei comunismi, come una malattia congenita rispuntata fuori nella libertà ritrovata e deregolata. Pogrom contro i rom, ma anche altre etnie, peché in fondo anche le pulizie etniche altro non sono che un’estensione e un’applicazione su larga scala dello stesso meccanismo vittimario. Questo Csak a szél non è un docu, è un film puro che si ispira ai molti assalti a comunità zingare, con decine tra feriti e morti, che si sono succeduti in Ungheria. In un villaggio qualsiasi con un piccolo gruppo rom che si è insediato in case degradate ai margini del centro abitato hanno già fatto fuori una famiglia di zingari, i responsabili non sono mai stati individuati, probabilmente neppure cercati, probabilmente li conoscono tutti ma nessuno parla. Nella comunità c’è il terrore che la cosa si ripeta, il film si concentra su una famiglia rom, un ragazzino sveglio, quello che più acutamente avverte il pericolo, la sorella più grande che si sforza di inserirsi nel villaggio frequentando la scuola, la madre, che lavora come donna delle pulizie, il nonno. L’ostilità verso di loro non è aperta ma ugualmente spessa, tangibile. Un’altra ragazzina rom viene stuprata dai compagni di classe nell’indifferenza generale. La madre ha continui problemi sul lavoro. Per strada la guerra di frizione tra maschi alfa rom e maschi alfa ungheresi è continua, gli zingari hanno anche messo a punto squadre di sorveglianza armata. Due poliziotti entrano nella casa del ragazzino, cercano, devastano, non vedono l’ora di menare le mani. La famiglia aspetta di andarsene in Canada dove ad attenderli c’è il padre, è solo questione di permessi, e di tempo, bisogna resistere. Ma una notte arrivano, ed è il massacro. Niente più Canada, la corsa si è fermata prima. Quello che rende speciale questo film non è solo la storia messa in scena ma è il come, lo stile, è il linguaggio che ne fa quasi un manifesto del nuovissimo cinema neorealista/postrealista europeo. I riferimenti sono sempre quelli, i fratelli Dardenne (li ritroviamo ovunque, in ogni festival, rifatti, citati, omaggiati) e il rumeno 4 mesi, 3 settimane e due giorni di Christian Mungiu, titolo seminale come pochi dell’ultima decade. Più il Gus Van Sant più estremo, quello di Elephant e Paranoid Park. Allora: camera a mano (o in spalla, insomma quella cosa lì), inquadrature malferme anzi mosse (shaky, come le chiama il regista del filippino La donna nel pozzo nero, una delle sorprese del festival, di cui cercherò di parlare al più presto), una macchina che fa quasi da terzo occhio dei personaggi. Una tecnica che il regista Bence Fliegauf radicalizza al punto che la cinepresa non allarga quai mai il campo e sta strettissima sul personaggio o sul dettaglio, con un effetto di assoluta soggettivizzazione della realtà. La macchina da presa non è onnisciente, ma si situa esattamente al livello dei suoi protagonisti. Noi vediamo solo quel poco che i personaggi possono vedere, e sappiamo solo quel poco che loro possono sapere. La narrazione è ridotta quasi a zero, niente ci viene spiegato, ci sono solo attimi, brandelli di racconto che dobbiamo stare attenti a cogliere da tanto che sono veloci, precari. Un film scarnificato fino all’anoressia, che non ci dice, ci esaspera anche per come ci tiene all’oscuro, ma che riesce a liberare una sua oscura potenza espressiva, e un senso di sospensione, di paura, di attesa dell’orrore. Come in molto altro giovane cinema europeo, le parole sono poche, i silenzi interminabili, l’immagine è tutto. Non nel senso di una scelta glamourizzante-estetizzante, no, piuttosto nel senso che questo cinema si fida più di quello che si può mostrare che di quello che si può dire (e non è detto che questo sia un bene, penso a certo meraviglioso cinema di parola, che so, Lubitsch, o Mankiewicz), cinema, anche, che molto prende da certa arte contemporanea, installazioni-performance-videoart soprattutto, con l’accostamento o accumulo di oggetti apparentemente insignificanti o incongrui che creano invece una narrazione visuale. Esemplare la scena finale, spoglia e potente, con i tre corpi all’obitorio di cui si mostrano prima gli oggetti – le scarpe, gli anelli – poi i dettagli poi i volti. Grande film: sì, adesso che la recensione l’ho scritta, incomincio a pensarlo.
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Una risposta a Berlinale 2012/ Recensione: CSAK A SZÉL (Just The Wind), cronaca di un pogrom ungherese anti-rom