Berlinale 2012/ Recensione: DIAZ – DON’T CLEAN UP THIS BLOOD, fazioso e brutalmente efficace (però inesorabilmente lungo)

Il film di Daniele Vicari che ricostruisce il massacro della scuola Diaz nei giorni del G8 a Genova, qua a Berlino è strapiaciuto, e si è portato a casa un premio del pubblico. Film ribaldo, anche rozzo e ruvido, decisamente di parte, che però sa ricostruire con forza la grande scena della mattanza. Vero, in alcuni momenti è inguardabile (l’interrogatorio della ragazza tedesca), qualche dialogo fa ridere (quello tra Germano e il collega in redazione). Poi dura troppo e nell’ultima parte inesorabilmente si affloscia. Però piacerà molto agli indignados. Moderati astenersi.
Diaz – Don’t Clean Up This Blood, regia di Daniele Vicari. Con Claudio Santamaria, Elio Germano, Renato Scarpa. Jennifer Ulrich, Mattia Sbragia. Presentato alla Berlinale nella sezione Panorama. Vincitore del secondo premio assegnato dal pubblico tra i film della sezione Panorama (il primo è andato al serbo ‘Parada’).

Finalmente sono riuscito a vederlo quasi last minute, all’ultima proiezione possibile qui a Berlino, dopo che, avendo perso il press screening perché in coincidenza con Captive di Brillante Mendoza, si era innescato un circolo vizioso di biglietti esauriti, sovrapposizioni con altri film del concorso e così via. Se mi verrà voglia, e sempre che a qualcuno vagamente interessi, magari un post lo scrivo sul ferrigno meccanismo che alla Berlinale presiede agli ingressi e ai biglietti delle varie proiezioni, un perfetto sistema teutonicamente regolato e programmato che però non ti lascia il minimo spazio di libertà, di ripensamento, di elasticità. Se poi commetti un errore (ad esempio prendere un biglietto, non andare alla proiezione e non restituirlo prima della proiezione stessa) vieni punito con l’impossibilità di vedere quel film: bannato. Visto com’era andata a Locarno e Venezia, dove tutto è infinitamente più facile e friendly, qui ci ho messo giorni ad afferrare e maneggiare, sicchè mi sono anche perso film che avrei voluto assolutamente vedere. Dunque, questo film italiano, che pure lui si è fatto onore incamerando il secondo premio della Sezione Panorama assegnato attraverso i voti del pubblico, me lo sono recuperato ieri sera, sabato 18 febbraio, alle 22,30 al Colosseum Kino, un cinemone anni Cinquanta – gli anni Cinquanta della Berlino Est – su nella Schönehauser Allee, due fermate di U-Bahn appena prima di Pankow, il mitologico sobborgo della vecchia Berlino che, chi ha un’età se lo dovrebbe ricordare, fu la capitale amministrativa della Ddr, regno del compagno Ulbricht. Oggi, periferia m’è parsa popolare, e nel cinemone a vedere Diaz un pubblico quasi solo di ragazzi e ragazze parecchio diverso da quello medioborghese di professoresse democratiche e affini che trovi ai vari screenings della Berlinale in PotsdamerPlatz o alla fighetta Haus der Berliner Festspiele, che poi è un luogo dedicato di suo alla musica e solo eccezionalmente prestato al cinema. Pubblico di ragazzi sul genere indignados e, essendo a Berlino, suppongo anche un po’ black bloc (ma si dirà ancora? ma esistono ancora?), dunque molto interessati a vedersi questa ricostruzione prodotta da Domenico Procacci, il signore della Fandango (raccogliendo anche capitali rumeni e francesi) dei famigerati fatti e fattacci che a Genova nel luglio 2001, ai giorni del G8, seguirono all’uccisione di Carlo Giuliani e all’assalto dei black bloc alla città. Cioè la famigerata irruzione poliziesca alla Diaz, uno dei posti che il Genoa Social Forum, punto di raccordo organizzativo della contestazione, aveva adibito a dormitorio per i manifestanti venuti da tutta Europa. Irruzione spiegata con la necessità di disarmare pericolosi blackblocchisti e che in realtà fu lo sfogo sadico delle forze dell’ordine, o di una loro parte almeno, dopo le tensioni del giorno prima e i ripetuti assalti subiti. Fu definita macelleria messicana, per la brutalità, e ancora di quei fatti, e del peggio che avvenne poco dopo nella questura di Bolzaneto dove furono portati alcuni ragazzi della Diaz, si continua a parlare, a scrivere, a polemizzare. Cose che costarono l’incriminazione e la rimozione dai ranghi di decine di poliziotti e, su su, l’implicazione dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, che negli anni successivi sarebbe stato prima condannato per istigazione a falsa testimonianza sui fatti della Diaz e poi prosciolto (lo scorso novembre 2011) in sede di Cassazione. A più di un decennio di distanza quei giorni famigerati di Genova, dal 19 al 22 luglio, continuano a scottare e suscitare scie interminabili di scritti, denunce, documenti, memorialistica, e naturalmente una lunga storia legale che coinvolge quali imputati sia agenti e rappresentanti dell’ordine e delle istituzioni che manifestanti. Ma in quella parte di movimenti che si può chiamare antagonista, altermondialista, allora antiglobal oggi forse indignados (lo so, le cose non sono la stessa cosa, diciamo che però alcune aree si sovrappongono) il G8 di Genova è diventato un evento mitologico, anche un mito fondativo della nuova guerra al capitale e all’internazionalismo finanziario predatore che da allora non è mai cessata e si riaccende con intermittenti fiammate, l’ultima essendo apunto quella dei vari Occupy e Indignados. Quando un mito si è solidificato e cristallizzato, c’è poco spazio per una ricostruzione razionale dei fatti, ce n’è molto di più invece per le passioni, le narrazioni calde e cariche di suggestioni, che più che far luce sui fatti creano una costellazione emotiva che entusiasma i già entusiasti e delude e fa incazzare chi già non è d’accordo. Diaz, Don’t Clean Up This Blood rientra in pieno in questo tipo di narrazione, dunque prendere o lasciare, si sappia già che è schierato ed è un ulteriore contributo alla definizione del suddetto mito. Anche se all’inizio il film mostra un assalto black bloc a un bancomat e a una macchina della polizia, il resto è tutto dedicata alla reazione furibonda e isterica (e ingiustificabile, sarà meglio dirlo subito) delle forze dell’ordine, che hanno cercato la loro rivincita entrando nella scuola Diaz manganellando e menando e fracassando cose e persone, e trascinando poi alcuni nella questura di Bolzaneto, dove di sangue ne è scorso ancora. Il tutto per raccattare un paio di molotov, qualche passamontagna o poco più. Diaz è tutto dalla parte dei manifestanti e del Genoa Social Forum, gli agenti dell’ordine o meglio chi li muove e li comanda vengono dipinti quasi tutti come degli orrendi sgherri e sbirri (a parte il personaggio del poliziotto buono e onesto Claudio Santamaria che cerca di fermare la follia ma non può, perché gli ordini per quanto insensati sono ordini). Francamente, avrei preferito una più equa distribuzione dei torti e delle ragioni, qualche distinguo in più, spiegando chiaro e tondo che se non fossero stati i black bloc a lanciare per primi l’offensiva in città tutto quello che ne è seguito forse non sarebbe successo. Ciò detto, e dichiarato come la penso, il film com’è? Il film, nella sua dichiarata faziosità, è assai efficace, almeno fino a due terzi, ieri sera il pubblico dei ragazzi del Colosseum Kino di Berlino l’hanno seguito col fiato sospeso e con grande partecipazione, tifo da stadio o quasi, una ragazza seduta vicino a me si indignava e piangeva di fronte alle brutalità perpetrate sui manifestanti, alla fine si è scatenato un applausone interminabile. Il regista Daniele Vicari con questo Diaz si apparenta allo Stefano Sollima di ACAB nel riportare nel cinema italiano il segno forte e rozzo della violenza, l’odore del sangue che era dei B-movie anni Settanta, di certi poliziotteschi, e poi perduto nelle lunghe ondate del cinema carino all’italiana. Nella prima parte la storia, pur convenzionale, è raccontata con gran mestiere e i fatti sagacemente ricostruiti, grazie a un montaggio magari rozzo e arrembante ma efficacissimo. Film affresco a più personaggi e più luoghi e situazioni, che man mano si incastrano e compongono il racconto. C’è il ragazzo responsabile della logistica del Genoa Social Forum, le ragazze che si occupano dell’assistenza legale dei manifestanti nei guai, il blac block bello e nero e fico che fa impazzire le ragazze e non solo loro, un pensionato della Cgil (Renato Scarpa!) che ha la cattiva idea di andarsene a dormire quella sera proprio alla Diaz, un giornalista francese che anche lui sceglie il posto sbagliato, i poliziotti cattivi (tanti) e il pulotto buono (Santamaria), il giornalista che si prende il giorno libero per andare a seguire i fatti e resta incastrato (Elio Germano). Dio mio, non è che lo scambio di battute tra lui e il collega all’inizio ci abbia ben disposto alla visione del film, cose come: “Ti tendi conto? A Genova succede quello che succede e noi dobbiamo stare qui davanti ai computer!”, “Ma anche così possiamo esere utili”, ” No – replica l’indignato Germano – il nostro dovere di giornalisti è stare dove succedono le cose e testimoniare”. Riporto a senso, non alla lettera, però il dialogo quello è. Ma vi pare possibile che ancora ci dobbiano sorbire il cliché del giornalista d’assalto che vuole stare a tu per tu con la Storia? Insomma, lo script non va mica tanto per il sottile, gli stereotipi si sprecano, i manifestanti son tutti giovani e carini, le ragazze, quasi tutte straniere, fighissime e si concedono contente tra un sacco a pelo e l’altro perché tra compagni (si diceva al G8? si dice ancora?) il sesso è bello, è tutta una cosa di gggiovani da gggiovani, e poi balli e canti e tamburi e tamburelli nelle piazze, dappertutto. L’anti G8 come una grande festa, che è stato anche così, però esagerare con le cartoline dei Saluti alternativi da Genova alla fine (e anche un po’ prima della fine) ci fa rischiare il coma zuccherino, nonostante il molto sangue messo in scena. Però un film, una storia, una narrazione lo sappiamo (ce lo hanno insegnato da Omero a Propp) funzionano alla grande quando ci sono i Buoni per cui tifare e i Cattivi da odiare, e qui i buoni sono loro, i ragazzi venuti da tutta Europa a cantare e ballare e protestare e sì, a tirare qualche molotovuccia di tanto in tanto ma così perché so’ ragazzi, e i cattivi sono i pulotti truci col manganello, il cascone e  gli scudi. Naturalmente tutti aspettiamo cinematograficamente il gran momento, che è la mattanza alla scuola Diaz, climax annunciato. Vicari non delude. La lunga sequenza se la giostra con mestiere. L’irruzione nella scuola nella notte, l’ammassarsi dei poliziotti all’esterno, lo sfondamento del cancello, la rincorsa di tutti quelli che sono dentro, e botte botte botte, sangue che schizza ovunque, teste sfracellate, braccia e gambe spezzate, umiliazioni al limite della tortura. Venti minuti, anche trenta, di tensione altissima e condotti con mano ribalda, un po’ da cinemaccio italico anni Settanta e un po’ da action americano del giorno d’oggi (e puro poliziottesco anni Settanta sono anche le riunioni in questura dove ci si lamenta dei magistrati troppo mollaccioni che rilasciano subito i facinorosi arrestati con tanta fatica, e siamo in pieno clima tipo La polizia incrimina, la legge assolve di Castellari, pure quallo guarda un po’ tutto girato a Genova, che fu città-sfondo di molti memorabili poliziotteschi). Poi il film si trascina, si sfilaccia, la storia viene ripresa e riproposta ma dal punto di vista dei vertici di polizia per farci capire come sia nata la sciagurata decisione di quella spedizione punitiva (“dobbiamo stanare i black bloc, trovare le armi, sono un pericolo”). La concitazione del post-massacro, con i poliziotti che manco si sono resi conto di quello che hanno combinato, i giornalisti increduli che incominciano a sospettare come siano andate le cose, le prime testimonianze dei menati, ecco, anche questa parte Vicari la gira benissimo. Ma quello che segue è interminabile, ripetivo, pleonastico, in certi momenti di una rozzezza insostenibile (va bene un po’ di ribalderia, ma la scena dell’interrogatorio della ragazza tedesca con il manganello esibito dall’agente come fallo e lei costretta a denudarsi è robaccia, e narrativamente-esteticamente ricorda sciaguratamente certi lager-movie anni Settanta pieni di SS ghignanti e sadiche e di povere detenute costrette a ogni abiezione). Sarebbe stato meglio finirla con il post-massacro, sintetizzare le conseguenze in poche ma efficace scene. Invece il film dura quasi due ore e dieci minuti, e davvero non se ne può più alla fine. Riassunto: film fazioso, discreta prima parte, ottima la parte centrale del massacro, di noia quasi insopportabile quello che viene dopo. Ma qui a Berlino è strapiaciuto, il pubblico lo ha votato come secondo miglior film della sezione Panorama (non ne ho potuti vedere molti, però tra quei pochi ce n’erano almeno due meglio di Diaz, l’austriaco-turco Kuma e l’inglese My Brother The Devil). Ma insomma, due italiani a Berlino e due premi, non lamentiamoci e non facciamo tanto i difficili.

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