Recensione. THE WOMAN IN BLACK: Daniel Radcliffe lascia Harry Potter e fa il giovane papà in horror

Ma come, abbiamo appena lasciato Daniel Radcliffe occhialuto Harry Potter e ce lo ritroviamo qui come giovane papà, per giunta vedovo, di un bambino di tre anni. Eppure, stando agli ottimi incassi Usa e UK, sembra non aver perso niente del suo appeal sul pubblico. Film che ripropone il buon vecchio cinema del terrore di una volta con una storia di fantasmi nell’era vittoriana. Porte che si spalancano nel buio, una casa sinistra sulla palude, atmosfere cuperrime, stridori e cigolii da brivido. Non male, dopo tanti horror di bassa macelleria con ettolitri di sangue.
The Woman in Black, regia di James Watkins. Con Daniel Radcliffe, Ciaràn Hinds, Janet McTeer, Liz White.
Stiamo a vedere se riuscirà a ripetere anche da noi gli incassi realizzati finora negli Stati Uniti e nella patria Inghilterra. Rispettivamente quasi 60 milioni di dollari e 15 milioni di sterline, cifre che non si aspettavano neanche i produttori, tra cui la gloriosa e rediviva Hammer, la leggendaria casa britannica che tra anni Cinquanta e primi Settanta realizzò i Dracula e i Frankenstein con Peter Cushing e Christopher Lee e lanciò maestri artigiani dell’orrore come Terence Fisher. Il nome Hammer appare come un marchio di garanzia, quasi un fregio araldico nei titoli di testa di The Woman in Black, a ricordarci che il cinema del terrore più che dell’orrore è parte non secondaria di quella aristocratica e insulare tradizione cinematografica britannica. Però qui, più che il film, sembra contare la presenza quale protagonista di Daniel Radcliffe e la sua evidente, intatta capacità di attirare il pubblico, suppongo soprattutto femminie. Certo lo spettatore aduso a Harry Potter e al Radcliffe bambino-ragazzino occhialuto resterà sulle prime un po’ interdetto nel ritrovarlo in questo film giovane papà, e pure precocemente vedovo, di un biondo pupo di tre anni. Scusate, che ci siamo persi per caso un anello intermedio? Il passaggio è brusco, e al Radcliffe, per renderlo più credibile, si fa crescere una punta di barba e si cerca di rendere un po’ meno fanciullesca la faccia, tentativo solo in parte riuscito, chè l’ombra, anzi il fantasma di Harry Potter, aleggia e stenta a dissolversi. Però, se The Woman in Black doveva funzionare da test dell’appeal sul pubblico del Radcliffe post-Potter, l’operazione può dirsi riuscita, e i numeri di cassa, incontrovertibili, sono lì a dimostrarlo. Il film è eminentemente un vehicle per il suo protagonista, e il resto, per quanto abilmente congegnato e realizzato, conta meno. Eppure non è così banale, questo TWiB, se non altro peché dopo tanto cinema horror (slasher, splatter, gore) con bagni di sangue e sadismi e efferatezze di ogni tipo qui si cerca di far paura alla vecchissima maniera con una storia vittoriana, e un po’ Edgar Allan Poe, di fantasmi, case sinistre e maledette sulla palude, cigolii, misteriose presenze e via col repertorio fine Ottocento. Non c’è sangue, non ci sono nemmeno mostri e mostriciattoli che sono l’altra malattia endemica del genere pauroso contemporaneo. Sicchè vedendo scorrere le prime immagini del film ci si sente sollevati, malgrado le atmosfere cuperrime e l’abbondanza di nebbie, vapori malsani, paurose presenze e ambienti in cui mai vorresti mettere piede. La prima scena, con le tre bambine in una perfetta camera vittoriana tra culle e bambole e servizi da tè formato mignon che poi si gettano nel vuoto, è raccapricciante ma con una cert’aura da cinema nobile di un tempo. Poi l’attenzione si sposta sul giovane avvocato londinese Arthur Kipps/Radcliffe (siamo a occhio a cavallo tra Otto e Novecento), mandato dal suo arcigno datore di lavoro in un lontano villaggio a occuparsi della casa lasciata da una donna morta in circostanze mai chiarite. Nessuno al paesello vuole ospitare l’estraneo, tutti lo evitano. Si capirà a poco a poco che quella casa di cui lui si deve occupare è maledetta, per via della strana storia di due sorelle, una pazza e l’altra malvagia, e del figlio strappato alla pazza e poi scomparso nella palude. Vedremo anche che lì compare il fantasma di una donna in nero, e che a ogni sua apparizione un bambino del villaggo muore in modo atroce. Stop. Dico solo che il giovane avvocato Radcliffe ha la malaugurata idea di far venire per il weekend il bimbetto suo. Ora, TWiB ha molto di antico, i rimi sono lenti e per nulla scatenati, si punta parecchio sulla costruzione meticolosa di atmosfere lugubri e malsane, di sangue ne scorre pochissimo quasi niente, il terrore è tutto affidato ai cari vecchi trucchi ed espedienti: le porte che si spalancano nel buio, le urla misteriose, i giocattoli meccanici che si mettono di colpo in moto striduli, le tombe che si scoperchiano, poi sedie a dondolo come appena abbandonate da qualcuno, facce che compaiono negli specchi, nei vetri, clangori e rumori da far gelare il sangue. Non male. Il gotico com’era, com’è sempre stato, riprodotto quasi filologicamente con un certo amore, visto che alla base del film c’è un romanzo di enorme successo in patria del 1982 di Susan Hill, non vittoriano dunque, ma già manieristicamente, citazionisticamente, in quello stile. Questo gioco consapevolmente rétro è anche il limite del film e del plot, che è un ripercorrere rigorosamente storie già viste e sentite decine di volte, senza un’invenzione vera e uno scatto. Io, che non amo le ghost stories, ho pensato e sperato fino alla fine che dietro agli strani accadimenti ci fosse il piano diabolico di qualcuno, una macchinazione che ci sarebbe stata svelata e avrebbe spiegato razionalmente il perché di quanto accaduto al villaggio e nella casa dei misteri. Invece no. Questro è un film che si presenta come una ghost story e che finisce davvero come una ghost story. Apprezzo rispettosamente la buona fattura del prodotto, ma non è precisamente il mio tipo di cinema.

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