Recensione. MAGNIFICA PRESENZA è il film più imbarazzante dell’anno (nonostante un gran Germano)

Un indigeribile pastone dove c’è dentro di tutto: Pirandello, i fantasmi alla Coward, la guerra, le divine anni Quaranta, Patty Pravo, perfino un po’ di Anna Frank. Più naturalmente i soliti gaysmi e bozzettismi da quartiere romano alla Ozpetek. Con la scena più brutta vista al cinema da parecchio tempo in qua: la sartoria-harem di trans capeggiata da Platinette al maschile. Di magnifico c’è solo Elio Germano, ma nemmeno la sua performance riesce a riscattare un film così sballato.
Magnifica presenza, regia di Ferzan Ozpetek. Con Elio Germano, Margherita Buy, Giuseppe Fiorello, Vittoria Puccini, Paola Minaccioni, Cem Yilmaz, Andrea Bosca, Claudia Potenza, Anna Proclemer, Mauro Corazzi.

Ozpetek e Elio Germano sul set

Si avrebbe voglia di dir bene di un film che tira in ballo gli anni Quaranta e la guerra a Roma, i polverosi e piccoli divismi da palcoscenico di allora, le citazioni pirandelliane (i Sei personaggi, ovvio) e perfino – chissà quanto consapevolmente – il dimenticatissimo teatro italo-insular-surrealista di Rosso di San Secondo (Marionette che passione, Tra vestiti che ballano). Realtà e finzione che si scambiano le parti e si trasmutano una nell’altra, con anche qualcosa delle ghost stories alla Henry James e delle ghost comedies alla Spirito allegro di Coward. Con, tra una canzone di Patty Pravo (Tutt’al più) e un valzerino turco interpretato dalla grande Sezen Aksu, perfino abbondanti citazioni del Diario di Anna Frank (il nascondiglio dietro la parete). Si vorrebbe dir bene di un film così: incongruo, strano, inclassificabile, estraneo a tutto, eccentrico rispetto alla norma e alla media della produzione cinematografica nostra. Si vorrebbe, ma proprio non si può. Magnifica presenza è indigeribile, quasi inguardabile, il film più imbarazzante da parecchio tempo in qua. Sgangherato, incontrollato, un pastone, uno zibaldone, un polpettone di mille cose e mille sapori e afrori e odori buoni e soprattutto cattivi che non si mescolano mai e che qua e là danno il disgusto da tanto son forti e male amalgamati. L’impressione è che a Ferzan Ozpetek – che, lo dichiaro subito, non è mai stato tra i miei autori preferiti e di cui ho sopportato solo Il bagno turco e un po’ Cuore sacro per la sua assoluta follia – il film sia sfuggito di mano, che ci abbia messo dentro di tutto senza creare un’architettura drammaturgica, una cornice narrativa, in grado di imbrigliare quella densità materica e di darle un corso, imprimerle una direzione verso un qualcosa. Verso un qualsivoglia senso. Ogni elemento va per conto suo, anarchico e impazzito, obbediente solo al desiderio scatenato del suo autore. Che c’entra il carattere protagonista, il ragazzo venuto dalla provincia siciliana a Roma con la voglia di fare l’attore e il suo gaysmo, cosa c’entrano i suoi amori immaginati e irreali, le sue voglie sessuali reali e però mai realizzate, con quei fantasmi di una compagnia di teatro anni Quaranta che lui si ritrova nella casa che ha appena affittato? Casa che è un vecchio, fatiscente villino Liberty il cui fascino delabré è tra le poche cose salvabili del film. Insomma, noi di qua abbiamo questo ragazzo di nome Pietro, cui Elio Germano riesce miracolosamente a conferire una qualche dignità di personaggio, con la sua microstoria molto ferzan-ozpetekiana di omosessualità un po’ complicata ma senza esagerare, giacchè nel cinema del turco di Roma tutto è smussato, depotenziato, ingentilito fino alla rarefazione e al nulla, e l’omosessualità non apre mai verso narrazioni incisive, forti, non squarcia mai il velo del banale. Ne seguiamo le non molto interessanti vicende e paturnie, le schermaglie con la cugina impicciona e pure parecchio pasticciona in fatto di amori, e attraverso di lui ci ritroviamo immersi nei soliti quadretti e bozzettismi di quartiere con la loro umanità bonaria e partecipe, anche questi molto Ozpetek a Roma. Di là c’è l’altra storia, quella dei fantasmi che abitano il villino, che stanno chiusi lì dagli anni Quaranta, da quando qualcosa-qualcuno li ha bloccati, costretti a nascondersi. Sono morti, ma non lo sanno, non sanno niente del tempo che è passato, niente della contemporaneità, ma sono anche all’oscuro di quanto è successo loro a Roma, durante la guerra, sotto le bombe. Cosa è successo davvero lo scopriranno e lo scopriremo, ed è una storia di invidie tra primedonne, di Resistenza e di un tradimento, poi di una disgrazia che tutto dissolve e seppellisce. Uno sporco segreto custodito da un’Anna Proclemer dal volto sfingeo e allarmante. C’è qualcosa anche di uno dei più bei film di Bertolucci, La strategia del ragno (il tema del traditore prossimo tuo) e di quel piccolo incanto che era Fantasmi a Roma, scritto da Flaiano e diretto da Antonio Pietrangeli. Ma di Pietrangeli Ozpetek non ha il tocco leggero, appesantendo invece ogni cosa che sfiora e racconta. Il guaio vero è che gli manca uno stile, e l’orecchio musicale nel dirigere. I dialoghi sono artefatti e sentenziosi (vogliamo parlare delle dolcezze sussurrate dal fantasma gay innamorato a Germano dormiente?), sempre innaturali, la messinscena goffa e improbabile. Quei fantasmi sembrano uscire dalla peggiore filodrammatica, e l’effetto non è di sicuro voluto, e non appena Buy e Puccini aprono la bocca si vorrebbe scappare, peggio ancora quando si muovono e tentano di ballicchiare o di buttarla sul registro ironico. Per rendere credibili scene così ci sarebbe voluto, se non Luchino Visconti, almeno un Patroni Griffi, uno che certo teatro e certo cinema italiano del passato e di quel tempo li conosceva bene e li sapeva riprodurre con passione e competenza, e che aveva vissuto dal di dentro l’avventura della Compagnia dei Giovani, De Lullo-Romolo Valli-Rossella Falk-Elsa Albani-Ferruccio De Ceresa ecc., cui si devono i migliori Pirandello del nostro dopoguerra e forse della nostra vita. Ecco, se vi capita di recuperare un decrepito vhs o un dvd di I sei personaggi in cerca d’autore o del Gioco delle parti diretti da Giorgio De Lullo, vi renderete conto dell’abisso che separa quelle messinscene, e quel gusto, quella cultura squisita, dagli smandrappati personaggi ozpetekiani chiaramente, spudoratamente ispirati proprio a quelli di Pirandello (la battuta ‘questa non è finzione, è realtà’ viene ripresa e ripetuta più volte per farci capire che regista e sceneggiatori hanno fatto buoni studi e loro il grande agrigentino lo conoscono davvero; uno sfoggio non richiesto che ricorda quello altrettanto irritante del Woody Allen di Midnight in Paris che ci sciorinava con pedanteria la piccola enciclopedia degli americani a Parigi). Ma a dare la misura del tonfo di Magnifica presenza è la sequenza, davvero tremenda e insalvabile, della sartoria-harem di travestiti con a capo l’eunuco Mauro Coruzzi, cioè Platinette al naturale. Il povero Fellini di fronte a tanto scempio e a tanto sciagurato e maldigerito fellinismo si rivolterà dal posto in cui sta. Intanto, la candidiamo a peggiore scena del cinema italiano del 2012 (e non solo). Gli attori: Germano è bravo ma bravo veramente, oggi forse il nostro miglior attore, riesce a rendere credibile il suo Pietro fatto di cartavelina, e a cavarne un gay senza troppi manierismi. Quanto sia capace lo si capisce dal lieve accento siculo che imprime al personaggio senza spingerlo verso il macchiettone (gli accenti locali sono di solito insopportabili e fintissimi nel nostro cinema, basti pensare al disastro di Vallanzasca di Michele Placido), così capace, Germano, da sopravvivere pure a una scena impossibile come quella di rifare la Patty Pravo di Tutt’al più, qualcosa da cui un altro attore sarebbe uscito con la carriera distrutta. Tra i fantasmi il meglio è Beppe Fiorello, sobrio, dolente e tagliente, e a tratti davvero pirandelliano. Sarà la comune sicilianitudine?
(Per trovarmi su Twitter: @LuigiLocatelli)

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