Il gioco di Ripley, Rai Movie, ore 0,20.
Rivalutare Liliana Cavani, toglierla dall’immeritato limbo (o inferno?) in cui spettatori e penultime e ultime leve della critica l’hanno collocata. La signora appartiene a quella stagione del gran cinema italiano che si tormentava con il peccato e la colpa e la difficile redenzione, che si muoveva (anche goffamente) tra il richiamo della carne e l’anelito al sublime e al sacro, tra estetismi che riciclavano l’eterno dannunzianesimo italico e sprofondamenti nel kitsch più delirante. Si parla insomma di Visconti e Pasolini in testa, ma anche di certo Bertolucci, Patroni Griffi, e di lei, Liliana Cavani. Questo suo tardo film, anno 2002, non è al livello dei suoi classici, ma è da vedere con rispetto. Ed è, altro motivo di interesse, l’ennesima esercitazione sul mito cinematografico e letterario di Ripley, il criminale dandy e carogna inventato da Patricia Highsmith, già interpretato al cinema da Dennis Hopper (L’amico americano), Matt Damon (Il talento di Mr. Ripley), Alain Delon (Delitto in pieno sole). Stavolta c’è John Malkovich, che eccede al solito in smorfie e occhiatacce oblique per far salire il tasso di ambiguità e perversione. (Il mio Ripley preferito resta sempre quello del giovane Delon nel film di René Clément).
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