Bhutto, La7, ore 0,55.
In Italia non lo ha visto nessuno o quasi, questo docu anglo-pakistano (più inglese però) del 2010 firmato dalla coppia Duane Baughman e Johnny O’Hara. Eppure tratta della vita e della fine di quel personaggio monumentale che è stata, comunque la si giudichi, Benazir Bhutto. Figlia del leader più occidentalizante e laicizzante che il Pakistan abbia mai avuto, morto impiccato in una delle tante rivoluzioni e controrivoluzioni del suo complicato paese, Benazir aveva ricevuto un’educazione angloborghese e altoborghese tra Harvard e Oxford. Ma decise di rientrare in patria allorché si trattò di continuare l’opera politica del padre e di tenere alto il nome e il rango della dinastia dei Bhutto. Di sfolgorante bellezza, esaltata e iconizzata dagli abiti tradizionali che indossava, quando riuscì a diventare primo ministro del suo paese fece innamorare di sè l’Occidente e parte (solo una parte) dei suoi connazionali. Tutti ne fummo abbagliati: un premier donna, oltretutto in un paese islamico, quale mirabile esempio di emancipazione. Non era così, ovvio, non poteva esserlo. All’Occidente sfuggì che Benazir il potere lo assumeva nel nome del padre suo, il mitologico benché discusso Ali Bhutto. Il suo tentativo di modernizzazione del paese urtava contro la sensibilità profondamente tradizionale e religiosa di molti pakistani, non troppo diversamente da quanto era accaduto nell’Iran dello Scià, anche se Bhutto non instaurò mai un regime di polizia come quello. La si accusò però di corruzione e malversazioni varie, di amministrare il Pakistan come una proprietà personale e un feudo di famiglia, di non tenere conto dell’islamismo integrale di molti suoi connazionali. Perse la premiership nel 1990, la riacquistò nel 1993, fu di nuovo destituita nel 1996. Se ne andò in esilio a Dubai e Londra, perseguitata da accuse infamanti di corruzione e anche di riciclaggio di denaro (da cui una tribunale svizzero la assolse). Decise di tornare in patria e di correre alle elezioni del 2008. Un attentato dinamitardo la uccise durante un comizio il 18 ottobre 2007, con lei morirono altre 137 persone. Un personaggio bigger than life, comunque lo si guardi e lo si prenda. Il documentary di Baughman e O’Hara non aggiunge molto a quanto si sapeva, è un onesto, diligente esempio di giornalismo descrittivo inglese che non azzarda interpretazioni nuove di un percorso personal-politico così complicato. Ma la storia di Benazir è così interessante che vale la pena di dargli un’occhiata e anche più.
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