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Un altro miracolo di quello sciamano (come definirlo altrimenti?) dal fiuto infallibile che si chiama Harvey Weinstein. Il quale, reduce dal colpaccio di The Artist, da lui distribuito in America e portato al successo che sappiamo (di incassi e di Oscar), adesso azzecca un altro film in cui nessuno credeva, tranne lui, e i fatti gli stanno dando ragione. Stavolta trattasi di un piccolo film, per giunta un documentario, genere che non ha mai fatto sfracelli al botteghino americano. Weinstein se ne è appassionato, ha deciso che doveva fare qualcosa perché più gente possibile lo vedesse, forse ha anche fiutato l’affare e l’ha inserito nel listino della sua casa di distribuzione. Questo film si chiama Bully, crudo a a tratti agghiacciante docu del filmmaker Lee Hirsch sul bullismo malattia endemica della scuola statunitense che, dopo aver raccolto premi in festival di tutto il mondo, è uscito questo weekend negli Stati Uniti sotto lo scudo protettivo della Weinstein Co. Risultato: distribuito in un numero ancora limitato di sale, solo 5 al momento tra NY e LA, ha incassato la rispettabile cifra di 116.000 dollari, con una media per screen di oltre 23.ooo: qualcosa di sensazionale, nessun documentario aveva mai realizzato una simile performance alla sua uscita. Se lo merita questo successo, Bully, perché osa scoperchiare e mettere sotto gli occhi dell’America un problema incandescente, quella della violenza di bambini su altri bambini, che ancora si tende a rimuovere o a sottostimare. Racconta e ricostruisce cinque storie esemplari, e le più terribili sono quelle di Ja’meya, che, esasperata dalle aggressioni subite, ha minacciato con un fucile i suoi persecutori sullo schoolbus, e quelle di due ragazzini suicidi dopo anni di violenze subite. In contemporanea con il lancio del film, è stato promosso The Bully Project, movimento con lo scopo di raccogliere testimonianze di abusi subito e di sensibilizzare gli americani, genitori ed educatori in primis. A dare una mano al successo di Bully è stato il dibattito mediatico che si è scatenato dopo che la commissione di vigilanza lo aveva classificato con la R del ‘vietato ai minori’, cosa che lo avrebbe reso inaccessibile proprio al suo pubblico di riferimento. Gran mobilitazione con tanto di raccolta di firme illustri, a partire da quelle di Justin Bieber e Ellen DeGeneres, e R tolta. La migliore promozione possibile per il film.
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3 risposte a BULLY, il documentario sul bullismo che sta sconvolgendo l’America