Recensione. POLLO ALLE PRUGNE esagera in vecchio poeticismo e realismo magico: una delusione

QUESTA RECENSIONE è stata scritta lo scorso 3 settembre 2011 a Venezia dopo la presentazione in concorso del film alla Mostra. Il film è dal 6 aprile 2012 nei cinema italiani.
Poulet aux prunes
di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud. Con Mathieu Amalric, Maria De Medeiros, Golshifteh Farahani, Isabella Rossellini, Chiara Mastroianni. In concorso a Venezia 68 per il Leone.
Marjane Satrapi stavolta abbandona l’animazione di Persepolis, e torna però a raccontare lo stesso Iran, il suo Iran, l’Iran europeizzante di prima della rivoluzione khomeinista. Storia di un uomo cui spezzano il violino, e la vita. Grandissime invenzioni visive, ma un film che scivola pericolosamente nel patetico e si incaglia nei Grandi Discorsi sulla Vita e l’Arte. Peccato.
Ci sono dei film di qualità ineccepibile e indiscutibile che però non riescono a piacerti. Ecco, Poulet aux prunes è uno di questi. Sarà che non sono un fanatico delle graphic novel, e dunque non riesco ad amare il mondo e l’estetica di Marjane Satrapi che nella g.n. si radicano: non ho amato nemmeno il suo precedente film, il suo esordio come regista, Persepolis, che pure era più compatto di questo Pollo alle prugne (piatto della tradizione persiana, a suggerirci che il film parlerà di quella Persia e di quell’universo, rien à faire con l’Iran di oggi). Stavolta però Satrapi abbandona l’animazione di Persepolis e si inoltra nel cinema d’attori, di volti e carni e anime, anche se poi l’aspetto visuale resta preponderante, e gli stessi protagonisti e gli ambienti subiscono una forte stilizzazione, sicchè l’impressione è di assistere a uno storyboard che prende vita, a una sequenza di tableaux vivants. Una scelta antinaturalistica che consente a Satrapi di muoversi tra reale, onirico, fantastico, fantasmatico, di far agire i suoi personaggi in scenari di graphic design, spesso al digitale (con inevitabile effetto Signore degli anelli qua e là), scelta che apparenta il film a quelli, per restare in terra di Francia, di Jeunet. Il notevole, indubbio talento visivo e visionario però non basta a far decollare una storia che resta incerta tra troppi registri e che progressivamente scivola nel patetico. Poulet aux prunes si svolge nell’Iran tra anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso, nel mondo che è il mondo di Marjane Satrapi, il mondo pre-Khomeini e pre-pasdaran da cui lei non riesce a staccarsi e che, quasi ossessivamente, riproduce nei suoi lavori, fumetti o film che siano. È un Iran borghese e occidentalizzante, anche se percorso da rabbie aniamericane e comuniste, l’Iran dei Pahlavi, dello Scià e di Soraya, e più tardi di Farah Diba. Quell’Iran che vedevamo fino agli anni Sessanta su Oggi e Gente, popolato di principesse tristi ma bellissime ricoperte di ori e pietre preziose, e cortigiani e dignitari e magnati che si muovevano tra Montecarlo e Saint Moritz. E nessuna donna che da quelle parti portasse il velo, tutte e tutti volevano essere un po’ europei. Un mondo che poi la rivoluzione khomeinista spazzerà via, e che Satrapi, iraniana della diaspora, nata e cresciuta in quella Persia ancora laica, nostalgicamente continua a evocare e riprodurre.
In Poulet aux prunes siano nella Teheran fine anni Cinquanta. Nasser Ali, violinista che ha conosciuto tempi migliori e oggi decaduto da artista a uomo qualunque con moglie arpia e due figli, si trascina nella frustrazione. Quando la consorte durante una lite gli strappa di mano il violino e lo rompe, Nasser Ali prende una decisione fatale: chiudersi in camera sua e lasciarsi morire. Sembra un racconto russo dell’Ottocento, e difatti tuto il film ha una forte impronta letteraria, come uscito da una biblioteca polverosa, con dialoghi perfettamente scritti e conchiusi ma come venuti da lontano, come da un manoscritto ritrovato. Assistiamo giorno dopo giorno all’ultima settimana di vita di Nasser Ali, ai suoi ricordi, alle fantasie, alle sue occasioni mancate, le sue ossessioni, le paure. Torna a occupare la mente di Nasser la memoria della imperiosa madre, incallita fumatrice (Isabella Rossellini), dalla cui tomba si sprigionerà una nuvola di fumo, torna sopratutto la nostalgia per la ragazza amata e mai sposata per il diniego del padre di lei. Salti nel passato ma anche nel futuro, a mostrarci il destino dei figli di Nasser diventati grandi. Inserti animati a illustrare novelle della tradizione persiana e aneddoti, e tanto parlare di Arte, di Vita, di Destino. Ecco, è qui che Poulet aux prunes non convince, quando abbandona il registro ironico e grottesco per librarsi ahinoi nei Cieli puri e tersi del Sublime. Il violino come simbolo di riscatto e nobiltà, il maestro che insegna a Nasser a elevarsi al di sopra delle miserie quotidiane, la musica come porta aperta sui piani nobili dell’esistenza. La disincantata Satrapi, così almeno l’avevamo conosciuta attraverso le sue strisce, tende incredibilmente a tromboneggiare sui massimi sistemi, e nell’ultima parte del film la butta sul patetico e sul larmoyant come mai avremmo sospettato da lei. Questa ballata di un uomo che vuole morire, e si lascia morire, con tanto di angelo della morte che gioca con lui l’ultima partita, ricorda curiosamente certi film anni Sessanta densi di simbolismi e fellinismi che deliziavano i piccoli critici dei cineforum parrocchiali, e che oggi sono inguardabili. Ricorda pure, ma in peggio, All that jazz di Bob Fosse. Le cose migliori sono quelle che ci descrivono l’Iran com’era, e come non è più e non sarà mai più. Le donne ciniche e spiritose, gli spiriti cosmopoliti che giravano il mondo e poi ne riportavano un po’ a Teheran, la passione per la letteratura e il cinema venuti dall’Europa. Si vede il manifesto, in persiano of course, della Donna del fiume di Soldati con Sofia Loren. Questo è Poulet aux prunes al suo meglio, ma purtroppo non basta. Non bastano nemmeno gli attori, eccellenti. A partire dal protagonista Mathieu Amalric, oggi uno dei migliori in Europa, che anche qui non sbaglia niente. Poi Maria De Medeiros, l’odiosa moglie, e Golshifteh Farahani, l’unica iraniana vera del cast. Chiara Mastroianni, ormai piccola musa del cinema radical-autoriale francese (vedi Honoré e Desplechin), è la figlia (nei suoi anni adulti) di Nasser Ali.

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