Una pura formalità, Iris, ore 23,05.
Anche chi detesta Giuseppe Tornatore e il suo cinema reboante e magniloquente, adora questo suo film. Che appartiene al Tornatore segreto, notturno, anche lunare, quello delle piccole storie inquietanti, quello che sta addosso alle persone e lascia stare i grandi affreschi. Quello di La sconosciuta ad esempio. Presentato a Cannes, Una pura formalità (anno 1994) fu sbadatamente accolto, e anche nei nostri cinema fu trascurato parecchio, ma è cresciuto col tempo, ha conquistato una solida fama cultistica e inaspettati estimatori. Se si potesse ancora dire kafkiano lo diremmo, a proposito di questo film. Diciamo allora un claustrofobico e fobico kammerspiel con scarse incursioni in esterno, puro cinema della minaccia, rievocato anche dalla presenza come attore di Roman Polanski. Dunque: uno sparo nella notte, un uomo che si aggira inquieto. La polizia lo ferma, lo conduce al commissariato. Chi è? Cosa è successo? Davvero l’interrogato (Gérard Depardieu) è lo scrittore Onoff, come dichiara di essere o è un simulatore? E il commissario (Polanski) che gioca sta conducendo con lui? Intanto spunta un misterioso cadavere, e la pioggia non dà tregua, imprigionando gli attori di quella sfida in quella lurida, cadente stazione di polizia. Tornatore, così epico sempre, qui sembra voler rinunciare a ogni eccesso e ogni orpello, si concentra sul duello psicologico tra i protagonisti, insinua dubbi e immette più ombre che luci nella messinscena, suggerisce ambiguità. Ma Tornatore è Tornatore, e anche lo scontro verbale, la sfida psicologica tra due uomini in una stanza diventa spettacolo muscolare e grandioso, muscolarità dell’anima se così si può dire. Il minimalismo non gli appartiene nemmeno stavolta. La tensione ogni tanto sembra calare, ma il regista conduce vittoriosamente fino allo scioglimento la sua impresa. Twist finale, che davvero non ti aspetti. Per qualcuno un vertice del cinema italiano degli anni Novanta. Da vedere.
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