Amelio ricostruisce un pezzo della vita di Albert Camus, mettendo in scena un alter-ego dello scrittore che ritorna nella natia Algeri per ritrovare la vecchia madre e il proprio passato. Intanto, il paese è in preda alle convulsioni della guerra d’indipendenza e lo scontro tra francesi e algerini si fa feroce. C’è in ogni scena l’inconfondibile Amelio-touch, il suo pudore, la sobrietà, il rispetto per gli ultimi. Ma Il primo uomo (inaspettato vincitore del premio internazionale della critica al festival di Toronto) è troppo prudente, incerto, timido. Così programmaticamente neutro ed equidistante, anche stilisticamente, da sembrarci incompiuto, inerte.
Il primo uomo, regia di Gianni Amelio. Con Jacques Gamblin, Maya Sansa, Catherine Sola, Denis Podalydès, Ulla Baugé, Nino Jouglet, Abdelkarim Benhabouccha. Nei cinema dal 20 aprile.
Un film che sembra portarsi dietro la difficile condizione, anche maledizione, dell’apolide, di chi è di molte culture e appartenenze identitarie ma non viene riconosciuto come proprio da nessuna di esse, e vaga in cerca di un approdo, di un asilo. Coprodotto da Francia, Algeria e Italia, dal segno predominante francese (è girato in quella lingua, soprattutto vi si parla di un totem della cultura francese, Albert Camus, di cui si ricostruiscono alcuni pezzi di vita), eppure non ancora uscito in Francia, come se da quelle parti faticassero ad accettarlo. Film dalle molte vicissutidini, rimbalzato da un festival all’altro, apolide senza visto d’ingresso e fermato alle frontiere delle vetrine cinematografiche più note. “Venezia non l’ha voluto”, ha detto lo stesso regista Gianni Amelio qualche giorno fa presentando il film: “In realtà prima l’aveva preso in concorso, poi dopo due giorni è uscito fuori dalla competizione. A quel punto l’avrebbe preso il Festival di Roma, ma là sono stato io a rifiutare, ero troppo arrabbiato per quello che era successo a Venezia. In realtà avevo pensato di proporlo al Festival di Berlino, ma anche là non si sa perché, è stata la produzione che non ha voluto farlo selezionare”. Finalmente è stato poi proiettato nel settembre 2012 al festival di Toronto, dove ha vinto il premio Fipresci assegnato dalla critica internazionale. Eppure, esce solo ora in Italia, e in Francia uscirà pare in ottobre. Davvero un tragitto da film senza terra. Quanto al no veneziano, sarebbe interessante conoscere la replica di coloro che sono stati tirati in ballo da Amelio. Io dico solo che i selezionatori di un festival hanno tutto il diritto di ammettere o no chi vogliono, e anche di sbagliare, e che l’essere ammessi a un festival non può essere un diritto automatico per nessuno, nemmeno per gente illustre come Amelio che oltretutto un Leone d’oro a Venezia l’ha anche vinto (con Così ridevano). Aggiungo da spettatore che, benché Il primo uomo non mi abbia entusiasmato – come vado a spiegare in questa recensione – resta un film di qualità immediatamente riconoscibile e di sicuro lo scorso settembre a Venezia avrebbe fatto una figura migliore dei tre film italiani che ci è toccato vedere in concorso, Quando la notte della Comencini, Terraferma di Crialese e L’ultimo terrestre di Gipi (il meno peggio dei tre, ma insomma). Film inafferrabile, Il primo uomo, sfuggente, fuggitivo, nomade, apolide, con più patrie o senza patria chissà, con personaggi sospesi tra costa sud e costa nord del Mediterraneo, tra Francia e Algeria, anche sospeso e diviso narrativamente tra due tempi separati, l’infanzia del protagonista e l’anno 1957 in cui ritorna nell’Algeria sua terra natale. Lui è Albert Camus, totem della cultura di Francia, Nobel per la letteratura 1957 (proprio l’anno in cui è ambientato il film), morto in un incidente stradale nel 1960. Tra le sue carte fu ritrovato l’incompiuto Il primo uomo, romanzo-autobiografia dove appena schermato sotto l’alter ego Jacques Cormery racconta la sua dura infanzia di orfano in Algeria (il padre muore nella battaglia della Marna solo un anno dopo la sua nascita), cresciuto dalla madre e dalla durissima nonna, una matriarca inflessibile e con la frusta sempre a portata di mano per punire le mancanze del piccolo nipote. Quindi il percorso di formazione, gli studi, il successo raggiunto in Francia come scrittore, il ritorno in Algeria a ripercorrere i luoghi dell’infanzia, a ricostruire il passato, a cercare le tracce lasciate da quel padre mai conosciuto. Gianni Amelio da questo libro postumo rimasto incompiuto ha tratto un film piuttosto fedele, solo con un’aggiunta importante, un episodio della vita di Camus non presente nel libro, quello della grazia (mai concessa) da lui chiesta a un Mitterrand allora ministro della giustizia per salvare dalla ghigliottina un ragazzo algerino implicato in un attentato e figlio di un suo compagno di scuola. L’inizio è Cormery che in un cimitero militare va sulla tomba del padre. Poi, l’arrivo ad Algeri, il ritorno a casa dalla madre, e i ricordi che riportano a galla schegge del passato, la giovane madre vedova, lo zio buono e debole, la terribile nonna, il cosmo dei poveri immigrati dalla Francia, la scuola, dove bambini francesi e algerini si mescolano e convivono non senza problemi, dove si tesse l’elogio della madrepatria apportatrice di luce e civiltà in terra d’Africa, dove il bambino Jacques-Albert ha la buona sorte di incontrare un professore che intuisce il suo talento e convince la famiglia a fargli proseguire gli studi (con una borsa governativa) e ad evitargli un destino da paria. Quello che colpisce è la povertà estrema in cui cresce Jacques, miseria anche culturale, mancanza di orizzonti e perfino della capacità di immaginare un futuro diverso; sia la nonna che la madre sono analfabete (e da vecchia la madre dirà al figlio scrittore: “Non potrò mai leggere un tuo libro”). L’altro asse narrativo è Jacques-Albert che si muove nella Algeri del 1957, tra gli affetti privati – la madre e il professore che gli fu mentore – e la scena pubblica, dominata dai fatti drammatici che sappiamo. Si susseguono gli attentati del Fronte nazionale algerino di liberazione, i francesi si arroccano nella difesa estrema del loro territorio, dei loro presunti diritti, non vogliono abbandonare quella che ritengono essere la loro terra. Sappiamo quanto fu drammatico quel processo di indipendenza, come gli attentati furono terribili e come fu feroce la repressione da parte della Francia. Sappiamo del putsch militare che ci fu ad Algeri e che proclamò un’Algeria francese indipendente, sappiamo di come quel tentativo estremo e pazzo fallì e di come la stessa Francia fu segnata per anni dagli attentati dell’Oas, da chi l’Algeria non la voleva lasciare agli algerini e accusava il governo francese di avere ceduto. Quello della guerra d’Algeria è stato uno dei percorsi di indipendenza e decolonizzazione più traumatici e sanguinosi, una ferita che non si è mai rimarginata del tutto, né in Francia né in Algeria. Ora, il film di Amelio si ritrova ad affrontare la prima fase di quel drammatico processo storico, e lo fa mostrandoci le bombe antifrancesi, l’ostilità crescente degli arabi verso i coloni, e mostrandoci come Camus si espose sul problema. In una delle sequenze-chiave il suo alter ego Jacques, parlando agli studenti dell’università (e poi ai microfoni di una radio), sostiene la tesi dei due popoli-una patria: l’Algeria deve diventare un paese democratico in cui francesi e algerini possano convivere e godere di pari diritti. Posizione nobile, che ovviamente restò inascoltata. Le cose non andarono così. Perché così andassero ci sarebbe voluto un personaggio-ponte alla Nelson Mandela, qualcuno capace di porsi sopra le parti e traghettare il paese verso la pacifica convivenza. Ma non accadde perché forse non era possibile. Le posizioni erano così distanti e contrapposte, le lacerazioni così profonde, la violenza ormai messa in campo così implacabile che nessuna mediazione fu possibile, e sappiamo com’è finita. Nonostante Camus, e quei pochi che come lui che si espressero per la non-frattura tra le due comunità, una volta che l’Algeria guadagnò l’indipendenza tutti i francesi, i cosiddetti pieds-noirs, se ne dovettero andare via, con loro i molti algerini coniderati dai compatrioti collaborazionisti (gli harkis, una storia poco raccontata), e se ne dovettero andare tutti, ma proprio tutti, e per sempre, gli ebrei. Il primo uomo di Amelio ci restituisce qualcosa di quella temperie, ma quei grandi avvenimenti, pur raccontati e mostrati secondo i punti di vista di entrambe le parti, restano tutto sommato laterali. Il film è stranamente impacciato, debole, timido, trattenuto, come volutamente depotenziato. Cauteloso, prudentissimo. Tratta, parlando della lotta di indipendenza, materiale altamente infiammabile ancora oggi, e lo sa. Così sceglie una sorta di equidistanza tra le parti, riparandosi dietro la nobile e idealistica presa di posizione di Camus, in realtà rinunciando anche a ogni incandescenza emotiva e narrativa, a coinvolgersi e coinvolgerci davvero. Amelio ci mostra la guerra vista dagli algerini, soprattutto attraverso l’episodio della famiglia che piange il ragazzo ghigliottinato per attività terroristica. Ma ci mostra anche il vecchio colono francese la cui famiglia è impiantata in Algeria dal 1848 e deciso, costi quel che costi, a non abbandonara la sua terra. Ci mostra la vecchia madre che rifiuta di riparare in Francia “perché lì non ci sono gli arabi”, frase sublimemente ambigua, ed è il momento più alto del film, quello in cui con quelle parole riescono a comunicare l’impossibilità di vivere in un mondo in cui l’altro da te è assente, perché l’altro da te ti ha sempre vissuto accanto, e ormai non puoi fare a meno di lui, perché l’altro da te è entrato in te e siete la stessa cosa. Solo che momenti potenti come questi non si connettono mai in una narrazione compatta, non compongono un’architettura. In questo film la somma è inferiore alle singole parti. Amelio, più che comprensibilmente, vuole raccontare e restituirci le ragioni di tutti, ma per riuscirci finisce con il conferire un tono neutro e insapore al film, rischiando oltretutto di non accontentare nessuno e di scontentare l’una e l’altra parte, francesi ed algerini. Il primo uomo è benissimo girato, con quella pietas e quello sguardo solidale e pudico sulla sofferenza che è il marchio di Amelio, con quel suo stile asciutto e disadorno che è anche una scelta etica, con la capacità come pochi oggi di restituirci il dolore degli ultimi della terra. Ma non ha un centro forte, resta indeciso tra il Cormery-Camus adulto e quello infantile, tra la grande storia del tumulto algerino e la cronaca strettamente familiare e privata. Non ci sono climax, non c’è vera progressione drammaturgica. Soprattutto, il film non ci restituisce nulla di Camus e della sua traiettoria culturale. Quel tornare a casa a cercare il proprio passato potrebbe essere di un qualunque altro personaggio, di un qualunque altro emigrato, ma Camus era Camus. Questo è un film nobile che porta il segno della maestria di Amelio, ricco di momenti toccanti, girato con un pudore che oggi è raro, e dunque prezioso. Ma resta un progetto incompiuto, che non palpita, che resta inerte.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=3f5YdnJO264&w=560&h=315]